mercoledì 31 dicembre 2008

www.donne-cosi.org

Alla ricerca del femminile e del maschile


Donne contro il silenzio. Non so bene come sia finito in questa rete, certo ora non ho alcuna intenzione di uscirne, vista la ricchezza umana e di pensiero che vi ho trovato.
Cercando di fare il punto sulle priorità di questo sito vedo due obiettivi:
1.pensare il femminile nel cristianesimo, non per sostituirsi al pensiero maschile, né per sommarsi ad esso, ma per scoprire un approccio alla fede tipicamente umano, che fino ad ora abbiamo considerato non degno, non all'altezza, non interessante. E' la sfida, tutta da cogliere, lanciata dallo stesso Giovanni Paolo II nella Enciclica Mulieris Dignitatem n. 22, quando dice “la bibbia ci convince del fatto che non si può avere un'adeguata ermeneutica dell'uomo, ossia di ciò che è umano, senza un adeguato ricorso a ciò che è femminile”.
2.Aiutare donne in difficoltà con l'istituzione ecclesiastica, in particolare donne che hanno relazioni difficili e segrete con preti.
Una volta messi a fuoco questi due punti mi sono chiesto come possano stare insieme, cosa c'entri la prima parte più riflessiva e generale con la seconda, più pratica e personale. Forse il nome del sito mi viene in aiuto: in entrambi i casi si tratta di uscire da un silenzio imposto, che una volta teorizzato, viene messo in pratica in mille modi, e quello delle donne dei preti ne è solo la punta dell'iceberg.
Le donne nella chiesa non devono celebrare le liturgie – e questo è il meno – ma soprattutto non devono decidere, né pensare in alcun modo. Quelle “santificate” servono per confermare che la fede nel mondo femminile ha solo risvolti intimi, spirituali, chiusi tra le mura di un monastero. La donna non conta, non semplicemente nel senso che è esclusa dal potere, ma come pensiero diverso, come modo di fare diverso, come atto, scelta, approccio diversi da quello universalmente ed unilateralmente riconosciuto valido.
Questa rivoluzione, al contrario di quanto si crede, non contrappone affatto gli uomini alle donne. No. Qui sta secondo me l'intuizione preziosa di Ausilia e del sito donne-cosi: le donne stesse sono così imbevute di pensiero maschile che troppo spesso si oppongono in maniera uguale e contraria agli uomini e così facendo pensano esse stesse da uomini. Lo abbiamo visto in passato, e spesso ancora oggi, quando per amore o per forza hanno accettato un ruolo di chierichette e di silenziose domestiche votate unicamente alla riproduzione di maschi. Oggi – e questo forse è peggio – cercando giustamente un proprio riscatto esse spesso adottano gli strumenti di dominio prodotti dal modello maschile. Le vediamo quindi duellare con gli uomini, spalleggiare, rivaleggiare su quello stesso piano che loro, da soli, hanno inventato. Le donne per secoli silenziose e sottomesse rivendicano, anziché il loro diritto ad essere donne, quello ad essere anch'esse maschi.
Qui si aprono due finestre che non so dove mi porteranno.
1.Forse si cerca una parità al maschile perché la femmina non sa cosa sia il femminile. Se una donna non sa cosa significhi essere donna, allora cerca di essere uomo, perché ritiene quello un modo di essere più chiaro, rispettato e dignitoso (ripeto, forse).
2.La seconda questione è sull'identità maschile. Anche gli uomini in realtà non sanno pensare da maschi, perchè hanno fatto a meno del pensiero e del sentire femminile, e questo che più correttamente chiamiamo pensiero maschilista, è un pensiero zoppo, una storpiatura del maschile. Quando un uomo picchia, urla e beve, non è affatto “maschio”, non è più nulla. E troppe volte invece viene identificato come maschio.

Queste dunque sono le due questioni aperte, dove tutto è da pensare. Una donna che non scimmiotti l'uomo, ed un uomo che non sapendo pensarsi al pari della donna, non sa più chi è.
Senza nulla togliere ai diritti di trans, omosessuali e via dicendo, mi pare che la confusione di genere che sta caratterizzando la nostra epoca, sia un po' il sintomo di quanto sto dicendo. Non sappiamo più cosa sia il femminile e cosa sia il maschile. Procediamo per negazione, come fa la teologia apofatica, dove non potendo descrivere Dio per quello che è, lo si descrive per ciò che NON è. Così per l'identità di genere. La donna NON è come l'uomo, preso nelle sue manifestazioni peggiori; e l'uomo NON è il maschio prepotente e ovviamente NON è come la donna.
Cosa è la donna, cosa è l'uomo? Quanto e come incide l'essere creature sessuate, nella nostra identità? E quanto nella ricerca di questa identità di genere conta la relazione con l'altro sesso?
A me piacerebbe approfondire questa ricerca. Non continuando a dire cosa non siamo in riferimento all'altro/a, ma sforzandoci di dire in positivo, cosa caratterizza il dono di essere femmina e maschio. Scoprire la propria limitatezza, la propria creaturalità, è tipicamente cristiano. Nessuno è superiore, nessuno ha la completezza dell'essere umano in sé, non solo per i limiti imposti dalla nostra cultura, posizione geografica ed epoca storica, ma anche e soprattutto dal fatto di essere o maschi o femmine. Il sesso ci rende complementari già da un punto di vista naturale, fisico, e quando non si accetta questo limite scritto nella nostra carne, si diventa prepotenti e arroganti.

Lascio in sospeso questo discorso, che ovviamente per esteso mi porterebbe troppo lontano. All'inizio dicevo che donne contro il silenzio tiene uniti due scopi, uno più teorico e uno più pratico con le donne innamorate di preti. E forse non per tutti è così semplice l'aggancio tra queste due realtà, per me almeno non lo è stato.
Allora ecco come la vedo. L'uomo “sacralizzato”, investito del ruolo di mediatore con il divino, esercita un fascino particolare del quale molto spesso non si rende conto. Lui, agli occhi della donna, è diverso dagli altri maschi, quelli che vanno subito al sodo... per intenderci, lui appunto è spirituale, ha dei valori elevati, è quindi uomo, non semplicemente maschio e una donna che ha le spalle piegate da una vita pesante e molto concreta, dove tutti, marito, figli e genitori, passano troppo spesso al fare, al “sodo”, senza chiederle cosa prova e cosa pensa, rimane facilmente folgorata da questa figura misteriosa, rivestita di profondità, non superficiale, che ha studiato e che magari la ascolta e la capisce.
Il problema, il più delle volte, è che scatta una scintilla tra una donna ferita, fragile, che si immagina quel prete migliore e più sacro di quello che in realtà è, e un uomo che è un immaturo, che ha subìto il celibato senza sceglierlo per amore, che ha sublimato il suo bisogno di affetto con il piacere che provoca il mettere le mani sul SACRO. Dio che ti sceglie, che viene tramite le tue mani, che perdona con le tue parole... è un piacere profondo, molto pericoloso, che invade tutta la persona e ponendola a metà strada tra il cielo e la terra, le risparmia la fatica di crescere.
Tante donne che chiedono aiuto a donne-cosi per essersi legate sentimentalmente con preti, sono inconsapevolmente affascinate da un mondo maschile sacralizzato, vorrebbero fondersi con le mani che alzano quel calice e quegli occhi che un po' guardano verso il cielo e un po' verso la loro gonna.
In realtà - ecco il punto di aggancio - lei ha una profonda nostalgia di cosa significhi essere donna e lui non ha mai sperimentato la bellezza di essere in due, diversi e alla pari.
In molti casi lo scoprono insieme, amandosi davvero e unendo le loro strade. Ognuno è per l'altro una benedizione, niente affatto una tentazione. In molti altri casi purtroppo non c'è il coraggio di fare una scelta matura, il sacro continua ad esercitare un potere prevalente e anziché ridimensionarsi, viene alimentato da quelle avventure amorose, atti peccaminosi, che ogni volta rimandano a lui, - sempre il sacro - al suo occhio autoritario che concede e poi torna alla carica con i suoi potenti sensi di colpa.
Sacralizzare è una tentazione che colpisce tutti, ma chi più maneggia il sacro ne è più colpito.
Chi tiene Dio stesso tra le mani deve fare attenzione a ciò che gli accade dentro. Spesso si avvicina a Dio ingenuamente, senza difese, pensa “Dio non può farmi alcun male”. Non riflette sul fatto che lui stesso può farsi del male, pensando al sacramento in modo magico, “elevandosi” un po' alla volta dal resto del genere umano in virtù di quel loro “toccare Dio”.
La religione cristiana non ha lo scopo di elevare o sacralizzare il frutto della terra, quanto al contrario, rivelare l'abbassamento del Divino. “Gesù Cristo pur essendo di natura divina non ha considerato un tesoro geloso la sua uguaglianza a Dio, ma ha spogliato sé stesso, assumendo la condizione di servo“. (Fil. 2) Dio si è fatto come noi: questo è importante, non tanto il rovescio della medaglia, quando si esalta l'uomo perchè ha ricevuto la promessa che sarà come Lui. No, non è questo il punto, l'incontro tra Dio e uomo non avviene in cielo, ma qui sulla terra. E' molto più comodo pensare che siamo dei, o che lo saremo, e come sarà l' al di là, piuttosto che rimanere con le mani nel fango di questa vita, concentrati sull' al di qua, su questi volti e queste storie, e pensare che per Dio questa nostra vita quotidiana, questa banale pochezza di ogni giorno uguale all'altro, QUESTO è importante. E questa teologia è quella che oggi occorre per fare cristiani capaci di accettarsi, di impegnarsi nella realtà, abbassando lo sguardo da quel sacro che non risolve i problemi che possiamo risolvere da soli.

sabato 20 dicembre 2008

L’inizio di un lungo viaggio


Una delle figure più bizzarre che troviamo all’inizio del vangelo di Matteo è quella dei Magi, misteriosi personaggi "giunti dall'oriente" per adorare il bambino appena nato. Personaggi misteriosi perché sono presenti solo qui, nel vangelo di Matteo, all’interno del vangelo dell’infanzia.
Personaggi di spicco dell’antico Oriente, spuntano dal nulla proprio alla nascita di Gesù. Chiedono informazioni, seguono una stella che indica loro la direzione da seguire, poi giunti davanti al bambino lo adorano ed offrono doni. Infine se ne vanno, sempre in silenzio, e di loro non si parla più.
Vista la singolarità e l’inutilità (ai fini del racconto) della loro comparsa nei vangeli è chiaro che la loro presenza ha una funzione simbolica: Matteo vuole dirci qualcosa, e stando a quanto appena esposto è un qualcosa che poi tornerà lungo tutto lo svolgimento del vangelo.
La tradizione ha sentito il bisogno di dare una veste regale, un volto, un nome, un numero a questi uomini e ai loro doni, per poi dare un significato anche a questi elementi aggiunti. In realtà è più importante restare concentrati sul senso della loro presenza piuttosto che sui particolari che il testo tralascia.
Questi uomini, come abbiamo detto, vengono dall'Oriente, cioè da lontano. Probabilmente erano sapienti, studiosi degli astri. Essi nel vangelo parlano ben poco perché è il loro viaggio che parla, la loro presenza e adorazione al bambino è più eloquente dei particolari sulle loro origini e del loro viaggio. Essi non sono ebrei, questo è l’elemento sottolineato da Matteo, e ciò nonostante riconoscono Gesù come loro salvatore. 
Con questi Magi Matteo mette i suoi lettori di fronte ad una verità scomoda: anche tra gli stranieri vi sono persone capaci di riconoscere il messia!
Matteo, ricordiamo, scrive ai cristiani di origine ebraica. A ebrei convertiti al cristianesimo, ma ben legati alle proprie tradizioni. Sappiamo dall’Antico Testamento quanto ci tenesse il popolo ebraico a non confondersi con i popoli vicini, quanto fosse geloso del suo unico Dio, più forte degli altri, al suo Tempio, a quelle pratiche religiose che rinsaldavano il legame tra le tribù nate dai figli di Giacobbe ed unite dalla parola degli stessi profeti. L’”Oriente” per gli ebrei significava Babilonia, ricordo dei tempi in cui furono deportati e sradicati dalla loro terra. Gli orientali, quindi, non erano propriamente visti di buon occhio.
Sappiamo soprattutto dagli Atti degli Apostoli (cap. 15), ma anche da alcune lettere di Paolo, come la Chiesa primitiva fosse ben presto arrivata a scontri interni piuttosto seri proprio sull’apertura del messaggio di Cristo ai popoli pagani, idea appoggiata con grande impeto da Paolo, ma fronteggiata da quegli apostoli che pur avendo vissuto a fianco di Gesù non avevano mai smesso di essere ebrei, e a lungo continuarono a pensare che il regno promesso da Gesù riguardasse esclusivamente i figli di Israele.
In questo contesto nasce il vangelo di Matteo. Il suo problema è: rispettare il passato e l’identità dei destinatari che sono appunto ebrei (per questo si usa un linguaggio a loro adatto, con circa 130 citazioni bibliche e usando i numeri per il loro significato simbolico preso dalla tradizione ebraica), aiutandoli però ad allargare i propri orizzonti ed accettare che il loro Dio è Dio di tutti i popoli, ed il Figlio di questo Dio è venuto per tutti, non solo per loro.
Matteo compie quest’opera utilizzando molti strumenti. Nella genealogia di Gesù (cap. 1), ad esempio, vengono inserite quattro donne straniere1. Grande enfasi poi viene data agli stranieri o alla predicazione di Gesù nei territori di confine (Matteo 4,13-16 e 4,24-25). La casa d'Israele conoscerà per prima l’annuncio del vangelo (missione dei discepoli al capitolo 10 di Matteo), ma l'annuncio sarà esteso a tutti i popoli, dopo la resurrezione. "Andate, e fate discepole tutti le nazioni" (Matteo 28,19).
Un altro strumento per indicare l’universalità del messaggio cristiano è dato dalla figura dei Magi.
Essi compiono un viaggio che tanto tempo prima aveva già fatto Abramo. Anche questo serve per farli accettare meglio. Egli partì come loro, da una terra lontana, sempre da oriente, seguendo la promessa di Dio che lo avrebbe reso "padre di una moltitudine di nazioni". La stella che i Magi seguono richiama fortemente quella fede, quella incoscienza di compiere (a quei tempi!) un viaggio verso l’ignoto. Quella stella diversa dalle altre, li precedeva sempre, ed era come una indicazione divina. Essi al vederla “provarono una grandissima gioia” (Matteo 2,10). Erano astrologi ed interrogavano le stelle (allora si vedevano) per conoscere il futuro. Ma quelle stesse stelle, messaggere divine, non erano soltanto un mestiere, li coinvolgevano nel profondo, li spingevano a partire per luoghi sconosciuti, ed erano capaci di suscitare forti emozioni. Quella stella che avevano visto all’inizio del loro cammino, si era oscurata quando dovettero incontrare il perfido Erode, ma non li aveva abbandonati, eccola di nuovo sul loro cammino: “li precedeva, finchè giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino” (Matteo 2,9).
Trovato il bambino, i Magi entrarono nella casa, e lo adorarono senza proferire parola. Poi consegnarono i loro doni e se ne andarono.

Cosa c’entriamo noi?
Bene, che c’entra con noi tutto questo? I problemi della comunità giudaica di quasi duemila anni fa hanno a che fare qualcosa con noi? Ed eventualmente, la risposta che si trae dal vangelo di Matteo, è attuale?
Direi di sì.
I cristiani a cui scrive Matteo erano in una situazione simile alla nostra, di occidentali che vivono duemila anni dopo. Una religione sicura e con una forte tradizione, la loro, che spesso avevano usato per difendere la propria identità dagli attacchi esterni, dai mescolamenti inevitabili con paesi di cultura orientale, greca, o latina, vista la presenza dei romani. Ora questo Messia pretendeva di ribaltare le carte, dicendo che il “nuovo” Israele, quello cristiano, non aveva confini, né limiti di razza o di cultura.
Ce n’è voluto di tempo per quella Chiesa di allora per rendersi conto che l’apertura “ai pagani” era inevitabile, anzi positiva. Inizialmente sembrava che solo in terra palestinese dovessero compiersi le conversioni richieste dal vangelo, ma nel giro di cento anni il centro del cristianesimo si spostò, dalla terra di Gesù all’attuale Turchia / Grecia, allora definita Cappadocia. E’ lì che si svilupparono le comunità più significative, mentre a Gerusalemme i gruppi cristiani erano sì consistenti, ma sempre in forte minoranza. E’ lì che si svolge in gran parte il ministero di Paolo, l’apostolo delle “genti”, e che cominciò anche la stesura dei vangeli in lingua greca, e già in parte nel modo di pensare greco.
Poi il cristianesimo si spostò ancora verso il nord Africa e verso Roma. A causa delle persecuzioni tardò l’esplosione del cristianesimo a Roma, ma fu grande nel nord Africa. Poi infine, si arrivò a Costantino, la fine delle persecuzioni e la proclamazione del cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero con l’Editto di Milano del 313, che pongono le fondamenta per il cristianesimo occidentale, quello del Sacro Romano Impero prima, e del Medioevo poi.
Oggi la Turchia ed il nord Africa non sono più terre cristiane, è così lontano il tempo in cui lo furono che ci sembra normale così. Il cristianesimo cattolico si è radicato in Europa e sembra avere qui, attorno alla sede di Pietro, le fondamenta della sua fede. La Chiesa scrive in latino, pensa in latino. Ma il mondo è cambiato, e non poco.
Nonostante le profonde radici cristiane, nonostante le cattedrali, i santuari, gli ordini religiosi, l’Europa sembra rimpiangere una fede che non c’è più e si arrocca al cristianesimo solo in quanto baluardo di una cultura del benessere presa di mira dai poveri di tutto il mondo.
La Chiesa di oggi ricorda l’Israele di un tempo, che giocava in difesa, cercava di salvare il salvabile, non leggeva i segni dei tempi. E’ così ogni volta che si deve “difendere” la domenica, “difendere” la famiglia, “difendere” il crocifisso nelle aule, “difendere” il concordato… e non si “attacca”, non ci si concentra sulla propria missione, che è quella di annunciare Gesù.

E’ paradossale vedere come il cristianesimo si sviluppi in paesi come Brasile, Venezuela, Filippine, e ovunque si preoccupi in primo luogo di radicare un centralismo romano che crea non pochi problemi.
Matteo, da vero equilibrista, riesce a mettere insieme un testo profondamente radicato nella tradizione giudaica per stile, linguaggio, metodo, ma allo stesso tempo teso ad andare oltre i propri confini territoriali, capace di leggere i segni della presenza divina in personaggi misteriosi che vengono dal lontano Oriente.
Il vangelo di Matteo, e in questo caso particolare la figura dei Magi, ci dicono che la Chiesa oggi, come Israele allora, devono cambiare, devono lasciar fare allo Spirito, deve leggere i segnali che la storia manda, come segni dei tempi, come “stelle” che indicano la direzione, evitando di arroccarsi su una cultura, un modo di pensare la fede, una sede che decide tutto per tutti.

giovedì 27 novembre 2008

Canto notturno


E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?

Giacomo Leopardi

martedì 11 novembre 2008

Perché non chiedo la dispensa dal celibato

Da tempo ho maturato la consapevolezza che pur avendo una certa divergenza di vedute nei confronti della gerarchia è importante per me far parte della Chiesa attivamente, senza remare contro con prese di posizioni rabbiose, ideologiche, né pretendere da essa cambiamenti che realisticamente richiedono anni, se non secoli.
La mia appartenenza alla Chiesa è spinta da convinzioni profonde, da un mio lavoro interiore. Non da amicizie, calcoli, né tanto meno dai meriti della Chiesa particolare con la quale ho contatti. Sono convinto che essa sia effettivamente fondata da Gesù Cristo, o meglio mi sforzo di credere questo, e “questo” mi basta per sapere che in base al battesimo, alla cresima e perché no, al sacerdozio, il mio è un legame di sangue, direi parentale, con lei. Potrà avere tutti i difetti del mondo, ma come appunto accade per un parente, non la puoi scegliere, né tanto meno abbandonare nel momento del bisogno.
Questo lavoro interiore, non poco faticoso e sorretto dalla lettura dei vangeli, mi ha portato in questi ultimi anni a ricontattare preti, vescovo, ambienti ecclesiali nella speranza di poter un po’ alla volta farmi accettare per quello che sono, più che per quello che sono stato. Inutile dire che molti cattolici rimangono confusi, disorientati alla presenza di un prete che ha lasciato quando lo si incontra in un ambiente parrocchiale o comunque cattolico. Ben altra accoglienza, certo, se ci si incontra per strada, ma nei luoghi tipicamente ecclesiali, lì no, la faccia dei più pone sempre la stessa domanda: ma che ci fa qui?
Di fronte ad un mio esplicito intento di entrare, collaborare, mettermi a servizio della comunità, anche se non più come prete, la risposta altrettanto esplicita delle autorità preposte è stata: chiedi prima la dispensa dal celibato.
All’inizio pensavo di non essermi spiegato bene: come, pensavo, io ti dico che sono disposto a darti una mano e tu mi rispondi di …chiedere la dispensa dal celibato? Ma che c’entra?
Poi invece ho capito che c’entra, eccome.
Il celibato, è lui l’unico vero scoglio. Non è per quello che ho lasciato la veste, ma pur essendo attualmente non sposato, né convivente, sembra che senza dispensa non si possa andare da nessuna parte.
Allora mi sono andato a rileggere il codice di diritto canonico per capire in quali casi viene data la dispensa e ho scoperto che i casi sono due e sono confermati, anzi sottolineati da una lettera circolare dell’agosto 2005 che il neo pontefice Benedetto XVI ha fatto inviare dalla Congregazione per il Culto Divino a tutte le Conferenze episcopali:
1.il primo caso riguarda i preti che “avendo abbandonato già da molto tempo la vita sacerdotale, desiderano sanare una situazione nella quale non possono ritirarsi
2.il secondo caso, più grave, riguarda “coloro che non avrebbero dovuto ricevere l’Ordinazione sacerdotale, perché è mancata la necessaria attenzione alla libertà o alla responsabilità, oppure perché i superiori competenti, al momento opportuno, non sono stati in grado di valutare prudentemente e sufficientemente se il candidato fosse realmente idoneo a condurre perpetuamente la vita nel celibato consacrato a Dio”.
Ora, il primo caso non è di certo il mio, perché non sono in una situazione da cui non posso ritirarmi. Ho una compagna, è vero, ma non siamo legati da matrimonio civile, né da figli, né conviviamo. Da un punto di vista anagrafico, civile, e canonico sono ultracelibe. Certo non sono disposto a perderla, ma a ben guardare non è questo che il diritto canonico mi chiede e le relazioni segrete di tanti sacerdoti stanno lì a sottolinearlo.
Mi rimane il secondo caso. Quello in cui dovrei ammettere di essere stato circuito, sottovalutato, di aver fatto una scelta sbagliata e immatura.
Niente di più falso. Sapevo bene quello che stavo facendo, ero molto motivato e tanti possono confermarlo. Ero entrato in seminario al liceo e quindi il tempo per verificare la mia vocazione non mi era mancato, né ai miei superiori per fare le loro verifiche su di me. Ho ricevuto il parere favorevole all’ordinazione dal Rettore del seminario Regionale di Bologna, dal Direttore spirituale di Bologna, nonché dal Rettore di Rimini e dal mio confessore che mi seguiva da parecchi anni. Nessuno in Diocesi ha messo in discussione la mia candidatura al sacerdozio, avvenuta quattro anni prima dell’ordinazione stessa. E nessuno in cattedrale si è opposto quando all’inizio del rito dell’ordinazione il vescovo ha chiesto al rettore “Sei certo che ne è degno?” ed il rettore ha risposto come da rituale: “Dalle informazioni raccolte presso il popolo cristiano e secondo il giudizio dato da coloro che ne hanno curato la formazione, posso attestare ne sia degno”.
Che si siano sbagliati tutti?
Ogni commento mi pare superfluo. Dico solo che in questi anni io sono stato capace di mettere da parte rabbia e rancore verso una gerarchia ecclesiastica che all’epoca non mi ha saputo capire, né valorizzare, né ascoltare; ma ora dover addirittura chiedere scusa, e prostrarmi fino a dover dire che ero immaturo, non adatto al sacerdozio, e che hanno sbagliato i miei superiori a valutarmi, questo mi pare un po’ troppo.
A proposito di parole dette in chiesa, visto che è quello il momento del non ritorno, ho ricordato anche che nel rito dell’ordinazione sacerdotale non si parla affatto di promesse esplicite di celibato. Ebbene sì, quel giorno vengono fatte al candidato tante domande e lui deve fare tante promesse, ma non quella del celibato. E questo secondo me sarebbe già un cavillo mica da poco per discutere con gente che anziché guardarti in faccia consulta il codice di diritto canonico a colazione pranzo e cena. La promessa in realtà a quel punto è già avvenuta e precisamente nel momento dell’ordinazione diaconale. Si potrebbe obiettare che visto che ho smesso di fare il prete sarebbe giusto riguardare quello che ho promesso quando sono diventato prete, non quando sono diventato diacono, ma sorvoliamo. E andiamo allora a rivedere il rito dell’ordinazione diaconale. In quel giorno mi sono state fatte queste domande:
1.Vuoi esercitare il ministero del diaconato con umiltà e carità in aiuto dell’ordine sacerdotale, a servizio del popolo cristiano?
2.Vuoi, come dice l’Apostolo, custodire in una coscienza pura il mistero della fede, per annunziarla con le parole e le opere, secondo il Vangelo e la tradizione della Chiesa?
3.tu che sei pronto a vivere nel celibato: Vuoi in segno della tua totale dedizione a Cristo Signore custodire per sempre questo impegno per il regno dei cieli a servizio di Dio e degli uomini?
4.Vuoi custodire e alimentare nel tuo stato di vita lo spirito di orazione e adempiere fedelmente l’impegno della Liturgia delle ore, secondo la tua condizione, insieme con il popolo di Dio per la Chiesa e il mondo intero?
5.Tu che sull’altare sarai messo a contatto con il corpo e sangue di Cristo vuoi conformare a lui tutta la tua vita?
6.Prometti a me e ai miei successori filiale rispetto e obbedienza?


Ecco, io a queste domande ho risposto “si, lo voglio”. Sono tutte domande importanti allo stesso modo, non sono in ordine crescente o decrescente. Oggi posso dire che ho rispettato quattro promesse su sei. Lasciando il sacerdozio infatti ho tralasciato la promessa sul celibato e soprattutto l’ultima, quella sull’obbedienza al vescovo (non sul rispetto). Anzi sottolineo il fatto che se cinque/sei anni dopo quel giorno ho fatto fagotto non è stato per una ribellione nei confronti del celibato, ma proprio per quell’obbedienza “verso me e i miei successori” che ad un certo punto non sono più riuscito a sopportare. La rottura del celibato è stata immediatamente seguente, o se vogliamo conseguente, perché la vita continua e dal momento che non facevo più il prete venivano a cadere i presupposti per mantenere una promessa che a suo tempo avevo accettato solo per fare il prete (come gran parte di coloro che desiderano diventare preti). E comunque non è documentata da nessun atto ufficiale o matrimonio civile, se non dalle mie stesse ammissioni di adesso.
Nessuno, questo è il punto, mi ha invitato a chiedere una dispensa dal filiale rispetto e obbedienza, né tanto meno a rivedere le mie posizioni di dissenso. E nessuno ha tenuto in alcun conto che ci sono altre quattro promesse, nel rito, altrettanto solenni, alle quali non ho mancato. Nessuno ha fatto obiezioni su quanto da anni vado scrivendo in vari siti internet, neppure laddove metto in discussione alcuni elementi dottrinali, quali l’infallibilità del papa, la verginità e l’assunzione in cielo di Maria, le apparizioni mariane e molti elementi morali-pastorali, che non sto qui a ridire.
No, solo la questione del celibato conta. Una promessa fatta fuori dall’ordinazione sacerdotale, che conta però quando è un prete ad infrangerla, infatti non fanno tutte queste storie ad un diacono che la infrange.
Per questo io non chiedo alcuna dispensa, non per devoto attaccamento verso quel celibato che – mi rendo conto – ho promesso pubblicamente ed ora nei fatti non sto rispettando, ma per ciò che quella firma implica. Addossarmi tutte le colpe e far cadere in piedi i soliti noti prelati. Tanto per cambiare.

Cara Chiesa, io sono qui. E sono a tutti gli effetti un tuo figlio: battesimato, cresimato, comunicato e validamente ordinato prete, dopo aver ricevuto il ministero del lettorato e dell’accolitato e l’ordine del diaconato. Su alcune cose la vedo in modo un po’ diverso dal papa o dal magistero, ma non su questioni di fede fondamentali e non più di quanto non pensino già tanti cattolici impegnati nelle parrocchie, nei movimenti e negli stessi uffici diocesani. Non puoi continuare ad evitarmi, né a mettere le tue leggi umane davanti alla carità che pure insegni con tanta insistenza. Non puoi farlo per quello che sei e per la missione che hai.

venerdì 24 ottobre 2008

La perfetta letizia

Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò Frate Leone e gli disse: “Frate Leone, scrivi”. Questi rispose: “Eccomi, sono pronto”. “Scrivi – disse – cosa è la vera letizia”.
“Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine; scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’oltr’Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia ed il Re d’Inghilterra; scrivi: non è vera letizia.
E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io abbia ricevuto da Dio tanta grazia da sanare gli infermi e da far molti miracoli; ebbene io ti dico: neppure qui è vera letizia.”
“Ma cosa è la vera letizia?”
“Ecco, tornando io da Perugina, nel mezzo della notte, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che all’estremità della tonaca, si formano dei ghiaccioli d’acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. Ed io, tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta, e dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede “Chi sei?” Io rispondo “Frate Francesco”. E quello dice “Vattene, non è ora decente questa di arrivare, non entrerai”. E mentre io insisto, l’altro risponde: “Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire, ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te”. E io sempre resto davanti alla porta e dico: ”Per amore di Dio, accoglietemi per questa notte”. E quegli risponde “Non lo farò, vattene dai Crociferi e chiedi là”.
“Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell’anima”.

Della vera e perfetta letizia, CF, XLI, 1971, pp. 253-256

Cosa è vera letizia?
Immagina un bel concilio nuovo che apra le porte al mondo, che permetta il matrimonio ai preti, agli omosessuali, la comunione a divorziati, conviventi. E di seguito un ondata di nuove vocazioni, preti, suore, missionari… scrivi: questa non è vera letizia.
E poi magari giunge anche notizia che i lontani si convertono, i non credenti, i musulmani, i tanti sperduti nel mare di sette, ritrovano la via di Cristo, si fanno battezzare. E poi ecco nuovi santi, persone profetiche, carismatiche, fuori dal comune. Veri trascinatori capaci di miracoli, guarigioni. Ebbene io ti dico, neppure qui è vera letizia.
E perché non pensare ad un mondo senza guerre, ad un lungo periodo di pace, una tregua perlomeno. Un periodo di sviluppo, di convivenza, di rispetto per l’ambiente… Un mondo come cantava Dalla vent’anni fa in “L’anno che verrà” dove si augurava che in futuro
sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno,
ogni Cristo scenderà dalla croce, anche gli uccelli faranno ritorno…
E si farà l'amore ognuno come gli va,
anche i preti potranno sposarsi ma soltanto a una certa età
”.
Tutto bello, ma non è questa la vera letizia.
Ma cosa è allora?
Ecco, un uomo è senza lavoro, senza casa, vive nel sotto tetto di un amico compassionevole. Vive da solo da alcune settimane, da quando ha lasciato il sacerdozio per amore di una donna. Vive senza riscaldamento e quando vuole fare una doccia deve chiedere permesso ai padroni di casa.
Quest’uomo fino a ieri stimato e conosciuto gira nella zona artigianale a piedi, bussando alle varie fabbriche e dopo aver a lungo aspettato nelle sale d’aspetto gli chiedono “chi sei?”. Come chi sono, non mi riconosci? Ho fatto catechismo ai tuoi figli, ho battezzato la più piccola, alla festa del paese abbiamo riso e scherzato… “Ah già” rispondono quelli. “Cosa fai adesso?” Beh veramente sarei qui proprio per questo, se ci fosse un piccolo impiego… “Ma vedi l’ultimo bilancio non è andato tanto bene, e poi non è il periodo giusto, per quest’anno sarei già a posto, ci sono altri in attesa di entrare… comunque puoi sempre chiedere alla fabbrica accanto, ho sentito dire che hanno bisogno” E quello, in bicicletta, se ne và chiedendo pure scusa per il disturbo.
Ecco, quell’uomo e quella donna, senza sacramenti, ora in affitto con due lavori da 900 euro al mese, se sapranno amarsi e rispettarsi, e non accusarsi e pensare l’uno al bene dell’altro per tutta la loro vita; quei due, con la loro fede sopravvissuta, con un cuore non amareggiato, ma anzi grato a Dio per la pace che provano; quelli conosceranno la vera letizia.

giovedì 16 ottobre 2008

LA BIBBIA GIORNO E NOTTE


Da domenica 5 ottobre a sabato 11 ottobre 2008 su Rai Educational, canale satellitare della RAI, è andata in onda ininterrottamente la lettura integrale della Bibbia. Rai 1 ha trasmesso in chiaro solo la prima e l’ultima ora. Teatro dell’evento è stata la Basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma.
Il testo è stato letto da più di 1200 persone di ogni età, categoria sociale ed appartenenza religiosa. Chiunque poteva proporsi per leggere un brano, previa iscrizione. Uniche condizioni necessarie avere almeno 11 anni e portare rispetto per la Sacra Scrittura.

Una scelta innovativa, da un punto di vista televisivo, perché si tratta di una trasmissione assolutamente antitelevisiva. Lunga, piatta, senza interruzioni per 139 ore, senza commenti.
Una decisione che testimonia dei buoni rapporti che intercorrono tra Vaticano e Rai e che fa comunque riflettere per il successo della messa in onda, capace a tratti di oscurare, seppur su satellite, fiction di prima serata o importanti reality show.
La discussione degli “intellettuali” si è soffermata a lungo sulla scelta dei lettori, in alcuni casi discutibile come per Andreotti o Marrazzo, o il notevole numero di preti e vescovi, e si è soffermata sul fatto che la RAI con soldi pubblici continua a spalleggiare una religione su tutte. Tutte chiacchiere inutili a mio parere.
Le iscrizioni per leggere erano aperte a tutti, questo è un elemento centrale, chiaro poi che su ognuno si potrebbe discutere. E la RAI è molto più discutibile per altre scelte che per questa che comunque è stata trasmessa sul satellite, non sulle tre reti principali, e senza prediche: la lettura di un testo importante anche per il mondo laico che indiscutibilmente ha segnato la nostra storia e che non tutti conoscono. Più interessante sarebbe stato chiedersi perché tanta gente guarda uno che legge la Bibbia. Che segno è. Ma forse è chiedere troppo ai nostri giornalisti.
Personalmente credo che il fatto in sé abbia fatto più parlare che altro. Essendo trasmesso su satellite la cosa non è stata molto invasiva rispetto alla tv pubblica, più interessante sarà vedere in seguito se la RAI avrà il coraggio di trasmettere almeno alcune letture sulle reti nazionali, e come lo farà (in che orari, con quale presentazione del testo biblico, con quale atteggiamento verso atei e religioni non cattoliche e non di radice biblica).
Io penso che il mezzo televisivo non debba essere né sempre super partes, né sempre schierato verso una parte. Credo in una tv in cui uno paga per vedere quello che vuole, e non per vedere quello che vogliono gli altri. E finchè questa tv non c’è è di certo più interessante conoscere la bibbia che l’isola dei famosi.

Un ultimo pensiero. Le commissioni vaticane sempre più spesso intervengono in grande. Fanno gesti visibili ed incontestabili. Curano i rapporti ufficiali, le dichiarazioni pubbliche, le relazioni di Stato... Ma che non pensino che basta fare di queste celebrazioni mediatiche per aver assolto alla propria missione. Il seme marcisce e cresce sotto terra. Il vangelo si diffonde dal basso. Nel caso della diffusione della Parola di Dio non si pensi che basta un programma televisivo per poter dire di aver annunciato la buona novella al mondo moderno. Vedo a tal proposito con una certa preoccupazione la posizione di Mons. Vincenzo Paglia, vescovo di Terni e presidente della Federazione biblica cattolica, che da questo recente intervento sembra preoccupato più delle cifre che della sostanza.
Ha detto “Se si calcola che le Società bibliche hanno distribuito nel 2006 circa 26 milioni di Bibbie, vuol dire che si è raggiunto solo l’1 o il 2 per cento dei 2 miliardi di cristiani. La Bibbia è stata già tradotta in 2.454 lingue diverse (interamente in 438, il solo Nuovo Testamento in 1168, e solo alcuni libri, ad esempio i Vangeli o i Salmi, in altre 848); restano ancora altre 4.500 lingue in attesa di essere confrontate con le Sante Scritture”.

domenica 5 ottobre 2008

San Francesco, prega per noi


Il santo d’Assisi ha sempre esercitato un fascino particolare su di me. Mai la tentazione di farmi frate, no niente del genere, ma proprio lui come persona rappresenta qualcuno che ha qualcosa da dirmi.
Francesco ha una intuizione che lo folgora, e si spoglia di tutto ciò che vi si mette in mezzo, tra lui e quella intuizione.
Và contro suo padre in un tempo in cui non tutti avevano la fortuna di nascere in una famiglia come la sua.
Và contro la logica, abbracciando lebbrosi e persone contaminate.
Và incontro al papa in un tempo in cui nascevano movimenti di contestazione che non riconoscevano l’autorità del pontefice. Và e gli chiede la benedizione, andando contro le aspettative degli innovatori e dei ribelli.
Và a predicare la conversione ad un sultano, in tempo di crociate, come andare verso morte certa. Come andare da Bin Laden a dirgli di farsi battezzare.
Fonda un ordine in cui c’è posto per le donne, il secondo ordine, e per gli sposati, il terz’ordine. Una cosa decisamente nuova per i suoi tempi.
Poi il suo stesso Ordine, fondato da lui, prende una strada che non è quella della sua intuizione, e si spoglia anche di quello, del frutto più grande, più prestigioso, della sua santità. Muore cieco e malato, incompreso, vicino a quei pochi fedelissimi che lo seguivano dalla prima ora.
Sperimenta l’assenza di Dio, perché nel momento di maggior bisogno non sa cosa fare, e nessuno – a quanto dice lui stesso – gli suggerisce cosa fare. Sperimenta la solitudine, la croce, diventa l’immagine di un crocifisso.
Non è la povertà di Francesco che mi colpisce. Non il suo amore per la natura. Non i suoi fioretti, i suoi miracoli, i canti che lo inneggiano. E’ lui.
La sua scelta così radicale. La sua capacità di guardare dritto alla metà senza lasciarsi distrarre da niente, neanche quando la sua creatura, il suo Ordine francescano, lo implora di scendere a compromessi, essere un minimo più accomodante, disposto a fare qualche eccezione sulle proprietà, sulle ricchezze, sulla formazione.
Ogni svolta nella sua vita è una specie di bivio, dove da una parte potrebbe scegliere di fermarsi e godersi i frutti del suo lavoro e della sua fama, e dall’altra c’è il vuoto, la solitudine, c’è lui e nessuno che gli dice “vieni qua”, tranne quell’intuizione degli inizi. Pure Dio tace.
E’ questo che lo fa grande, e me lo rende così attuale. Questa sua passione, questa sua fedeltà al Francesco delle origini, l’amore per quel Dio che non si vede, che continua a lasciare che gli uomini si perdano, si ammalino, si arricchiscano a danno di altri. Questo Dio che tace è però il Dio che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo; è il Dio che nasce bambino e muore in croce per amore nostro e niente gli impedisce di pensarlo così, di vedere questo di Lui, prima della sua assenza.

mercoledì 24 settembre 2008

Le scuse a Darwin


Il 2009 sarà il 200° anniversario della nascita di Charles Darwin ed il 150° della prima pubblicazione del suo famoso studio su “L’origine della specie”.
In preparazione a tale commemorazione fervono preparativi e si riaprono dibattiti sul rapporto tra scienza e fede. Recentemente il reverendo dottor Malcolm Brown, responsabile degli Affari Pubblici della Church of England ha ufficialmente espresso le scuse da parte della Chiesa anglicana a Darwin pubblicato il 15 settembre 08 sul sito ufficiale www.cofe.anglican.org. Queste le sue parole: “Charles Darwin, la Chiesa Anglicana ti deve delle scuse, anche per il fatto che la sua incomprensione iniziale ha portato a numerosi fraintendimenti … la gente e le istituzioni commettono errori e i cristiani e le Chiese non fanno eccezione... si sentono sotto attacco quando emergono nuove idee che cambiano il modo di vedere il mondo”.
Il 17 settembre 08 Andrea Tornelli scrive su Il Giornale un articolo titolato “Scuse a Darwin? No, grazie”. Il famoso giornalista cattolico sostiene che “La Chiesa cattolica non intende chiedere scusa a Darwin, come ha fatto nei giorni scorsi quella anglicana, né far nulla per riabilitarlo, per il semplice motivo che non l’ha mai condannato, né le sue opere sono all’indice”.
Di certo la posizione del mondo cattolico è cambiata parecchio, in particolare dopo un intervento di Giovanni Paolo II, del 12 ottobre ’96 all’Accademia delle Scienze, che ha esplicitamente detto che l’evoluzione non è più considerata “una mera ipotesi”, ma una “teoria che si è progressivamente imposta all’attenzione della ricerca”. E poi nella enciclica Fides et Ratio sostiene: “l’ottimismo nei confronti della scienza può purificare la religione dalla superstizione, … la religione può purificare la scienza dai suoi falsi assoluti”.

Personalmente ritengo comprensibile la fatica delle chiese ad accettare la teoria dell’evoluzione, soprattutto nei decenni dal 1860 a fine secolo, ma credo sia anche onesto chiedere scusa quando si sbaglia. La Chiesa cattolica non si è espressa in modo ufficiale (?) su Darwin, ma di certo non l’ha avuto in simpatia per molti anni, deridendo in ogni modo l’idea che l’uomo possa in qualche modo derivare dalla scimmia.
Non so cosa intenda Tornelli per “ufficiale”, ma nel 1860, un anno dopo la prima edizione del testo di Darwin, l’episcopato cattolico tedesco si è riunito in Concilio ad Oxford per dibattere tale questione e nel documento finale si legge “Noi dichiariamo del tutto contraria alla Sacra Scrittura e alla fede l’opinione di coloro che non esitano a sostenere che, per quanto riguarda il corpo l’uomo è il risultato dell’evoluzione spontanea e continua di una natura imperfetta verso una più perfetta…”
Detto questo è fuori dubbio che le scoperte di Darwin creano qualche problema alla teologia cattolica che se vuole davvero accettare un confronto sul piano della ragione, come l’attuale pontefice continuamente auspica, deve rivedere le sue formulazioni sulla creazione, come pure deve fare i conti con un catechismo per bambini in cui si parla ancora di intervento diretto di Dio nella creazione di Adamo ed Eva.
Soprattutto la questione della selezione naturale deve far riflettere. Essa, che pare ormai un dato acquisito da tutti, consiste nel fatto che in natura l’individuo, la razza, la specie vincente, è stata sempre quella più forte, più robusta, più adattabile all’ambiente. Frutto di una lotta vera e propria durata milioni di anni tra gli animali, ma anche tra ominidi e poi uomini primitivi, dove la tua morte voleva dire la mia vita, o viceversa. Un sistema “naturale” che oltre ad aver ispirato una cosetta come il nazismo con la sua ricerca della razza ariana perfetta, ed il relativo diritto naturale di conquistare il mondo, fa un po’ a pugni con l’idea cristiana di un Dio che viene riconosciuto nei più piccoli e nei più deboli. “Tutto quello che farete ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25,40)
Forse, al di là delle scuse a Darwin che ormai sta bene anche senza, sarebbe ora di separare la legge naturale da quella rivelata, e rinunciare a trovare continuamente intrecci tra le due prospettive, quasi a voler “dimostrare” la sensatezza della fede, o addirittura l’esistenza di Dio.

sabato 20 settembre 2008

Quanto costa la Chiesa agli italiani


Curzio Maltese, editorialista de La Repubblica, ha pubblicato nel maggio 2008 il libro “LA QUESTUA – Quanto costa la Chiesa agli italiani”. Il testo edito da Feltrinelli ha riscosso un notevole successo editoriale giungendo in due mesi alla terza edizione. Anche diversi dibattiti televisivi di inizio estate se ne sono occupati.
Per chi volesse ne ho segnalato uno interessante presente su YouTube al post precedente

La mia posizione negli ultimi anni è molto severa verso le posizioni assolute, verso quindi chi difende a prescindere la Chiesa, come verso chi la combatte, sempre in modo ideologico e pregiudiziale.
Questo libro temevo facesse parte della seconda categoria, ed invece – purtroppo – l’ho apprezzato tantissimo. Dico purtroppo perché la Chiesa, o meglio il Vaticano e la CEI, ne escono piuttosto malconci.
L’autore non entra nel merito a questioni morali o teologiche, ma riporta dati che attinge da fonti cattoliche ufficiali quali www.chiesacattolica.it e www.8x100.it .
In particolare esplora tutti quei canali che la Chiesa ufficiale adotta per alimentare il proprio bilancio economico che vanno ad attingere alle tasche di chi cattolico non è, e non lo sa neppure che per vie indirette contribuisce al sostentamento della Chiesa cattolica.
Parliamo ovviamente dell’8 x 1000, e del meccanismo secondo il quale le quote di chi non fa preferenze vengono suddivise in proporzione a chi ha avuto più preferenze. Concretamente significa che se nel 2008 solo il 37% ei contribuenti ha scelto di destinare l’8 x mille alla Chiesa cattolica, ad essa arriverà in realtà il 90% del gettito complessivo.
Ma parliamo anche del sostentamento alle scuole cattoliche, delle agevolazioni fiscali sull’ICI per strutture che fanno turismo “religioso”, degli insegnanti di religione scelti dai vescovi e ora passati di ruolo dallo Stato, dei misteri legati alla banca vaticana dello IOR, per concludere con tutti i regali che Roma fa al Vaticano: acqua e fogne gratis, auto con permesso di transito in centro, privilegi fiscali alla farmacia e allo “spaccio” interno al Vaticano che fanno concorrenza sleale ai negozi circostanti.
Altri argomenti vengono toccati (là dove l’accesso ai dati lo permette) quali la gestione della “carità” che molte volte si concretizza in costruzione di chiese o sale per il catechismo in terra di missione, e della pubblicità ingannevole dell’8 x 1000, dove viene dato un rilievo sostanzioso all’aiuto ai poveri che poi concretamente ne usufruiscono per il 10 %. Eclatante è il caso della pubblicità televisiva del 2005, interamente incentrata sugli aiuti alle popolazioni colpite dallo tsunami ai quali poi sono concretamente arrivati 3 milioni di €, … e la stessa pubblicità ne è costata 9!

Argomenti che fanno soffrire un cattolico, di certo non gioire. Ma che non per questo vanno taciuti in quanto anche da queste cose si vede come un rinnovamento profondo, cioè spirituale, evangelico, della Chiesa fin nei suoi vertici sia sempre più necessario perché ha conseguenze molto visibili e pensati, tanto da alleggerire le nostre tasche. Giustamente l’autore ci invita ad una certa coerenza:
“Se davvero le questioni etiche – il divorzio, l’aborto, la procreazione assistita, le coppie di fatto- fossero così centrali e dunque non negoziabili, la Chiesa non dovrebbe più accettare di ricevere finanziamenti e privilegi fiscali da parte di coloro – Stato ed enti locali – che giudica nemici dei valori cristiani”.

Un libro che non parla male per il gusto di parlar male. Ma riporta dati ufficiali e offre qualche interpretazione sulla quale si può anche non essere d’accordo. Di certo ha il pregio di suscitare una discussione su un tema che è tabù e che invece per noi cristiani è di centrale importanza perché ne và della nostra coerenza e della nostra credibilità.

domenica 24 agosto 2008

C.Maltese e costi della Chiesa

un bel dibattito tra Curzio Maltese e Davide Rondoni.

sabato 9 agosto 2008

Il metodo conciliare

Se c’è una costante nella storia della Chiesa che mi è sempre piaciuta è quella sana abitudine di riunirsi ogni tanto in un Concilio ecumenico.
Il Concilio è importante non solo come segno visibile, perché vede riuniti i vescovi cattolici attorno al papa, ma anche perché rappresenta un metodo veramente ecclesiale. Attraverso esso la Chiesa intera si riunisce per ascoltare tutte le voci e discernere il volere dello Spirito Santo.

Un po’ di storia
In venti secoli sono stati fatti 22 Concili, comprendendo anche quello della Chiesa nascente narrato in Atti degli apostoli 15.
Questi 22 Concili hanno visto una evoluzione che segna un cammino difficile, ma positivo. I primi Concili, che a livello dottrinale sono i più importanti, nascono in seguito a tensioni e liti interne, con lo scopo di definire una volta per tutte questioni che vedono divisi i vescovi tra loro. Sono Concili che escludono le dottrine sbagliate attraverso i famosi “anatema sit…” perché i cattolici non si perdano in esse. E’ il sistema della potatura: si tagliano i rami laterali per rafforzare il tronco principale.
L’ultimo Concilio, il Vaticano II, ha mostrato chiaramente una decisa virata in questo senso: da esclusivo, il Concilio è diventato inclusivo, momento in cui la Chiesa più che condannare si adopera per fondare le basi per un possibile dialogo, con i cristiani separati, con le altre religioni monoteiste, e addirittura con gli atei.
Altra evoluzione sta nel rapporto con la modernità. Mentre Trento, nel ‘500, ed il Vaticano I, alla fine dell’800 si erano posti su un piano più difensivo rispetto agli attacchi che venivano dal mondo protestante, poi dal modernismo, vediamo ora che il Vaticano II esce dalla logica dell’attacco o della difesa, per riscoprirsi più capace di ascolto sia al suo interno che nei confronti delle provocazioni che vengono dall’esterno. La Chiesa per la prima volta si rivolge al mondo intenzionata a dare il suo messaggio, certo, ma anche a ricevere i semi buoni che anche al di fuori di essa lo Spirito elargisce.
Il Concilio rappresenta la vivacità di una Chiesa che non basta a sé stessa, non si siede sulle sicurezze raggiunte, non rimanda ogni questione all’infallibilità del papa o del Magistero, ma convoca tutti attorno ad un tavolo ed invoca l’assistenza dello Spirito Santo.
Il Concilio di Costanza (1414-18) arrivò addirittura a sostenere la superiorità del Concilio all’autorità del papa. La risoluzione fu approvata, ma non promulgata dal papa (tra l’altro in quel periodo ci sono stati anche tre papi contemporaneamente… ma questo è un altro problema). Tale idea fu in seguito definita come un errore: il “conciliarismo”. Come spesso accade, quando nella Chiesa emerge un‘ idea veramente nuova, poi segue un periodo di ritorno al passato, e timore di aver osato troppo. Con il Vaticano I la Chiesa torna sui suoi passi affermando l’infallibilità del papa su questioni dottrinali. Tale affermazione sembra per un certo periodo la tomba di ogni futuro Concilio, ed invece nel 1962 papa Giovanni XXIII convoca quel grande Concilio che senza rispettare le aspettative di curia, senza decretare dogmi, né mettere all’indice eretici, ha visto il più grande raduno di vescovi i tutti i tempi.
Il Concilio dunque è vita. In seguito ai Concili la Chiesa ha sempre vissuto periodi di rinnovato entusiasmo e slancio missionario (penso in particolare al Concilio di Trento e al Vaticano II). Ciò è constatabile anche in senso negativo. Nei “secoli bui” – dal 870 al 1123 – la Chiesa non ha vissuto alcun Concilio, ma tante vicende oscure, fino alla grave separazione dalla Chiesa d’Oriente (1054).
Nei 100 anni che seguirono ci furono invece ben quattro Concili (lateranensi). Inoltre i Concili, da Nicea in avanti, hanno visto anche una progressiva compromissione con i poteri imperiali, per tornare poi a liberarsene con la caduta dell’Impero Romano e riscoprire la loro propria natura ecclesiale e spirituale in tempi più moderni.

Il Concilio Vaticano II
L’ultimo Concilio ha rinnovato molti aspetti della Chiesa, dal culto, al rapporto con le Sacre Scritture, al superamento delle divisioni tra clero e laici, al dialogo con il mondo e con le religioni, ma un cambiamento così radicale sembra a aver spaventato i vertici della Chiesa che negli ultimi 40 anni è sembrata nei suoi vertici istituzionali molto preoccupata di rimediare ai “danni” fatti dal Concilio.
I movimenti studenteschi del 68 e le agitazioni sociali dei primi anni 70 fecero fare marcia indietro al Vaticano per il timore che le frange estremiste avessero il sopravvento, e si assistette, a partire dalla Humanae Vitae, all’inizio ad una stagione di “no”, a destra e a sinistra, che oggi è ancora in corso e sembra diventata la norma.
Il clima ecclesiale oggi è ovviamente notevolmente cambiato, ma quel grande evento ecclesiale degli anni 60 continua a far discutere e a dividere, anche se tale discussione con il tempo si è sempre più spostata dalle piazze e dalle sale parrocchiali, alle scuole di teologia e alle riviste specializzate.
Ho letto qualcosa di Giuseppe Alberigo che dal 1995 al 2001 ha pubblicato per il Mulino cinque grossi volumi sulla “Storia del Concilio Vaticano II”, dando vita ad un dibattito su quello che viene definito lo “spirito” del Concilio, in contrapposizione alla “lettera” dello stesso. A queste pubblicazioni sono seguiti in particolare quelli di mons. Marchetto, vescovo giurista del Vaticano, e quelli dello stesso pontefice che nel natale del 2005 prese pubblicamente le distanze da Alberigo e dalla “scuola di Bologna” (che fonda le sue radici nel pensiero di don Giuseppe Dossetti) pur senza citarli esplicitamente, con un discorso in occasione del 40 anniversario della chiusura del Concilio.
In quel discorso Ratzinger definisce negativamente la corrente di Alberigo perché sostenitrice di una ermeneutica della discontinuità. Cioè lo mette tra coloro che hanno interpretato il Concilio come una specie di nuovo inizio, che si sbarazza del passato e tenta di costruire una nuova Chiesa, in discontinuità ed “alternativa” a quella precedente, come piace dire a me. Lui al contrario contrapponeva a questa una ermeneutica della riforma, che vedeva il Concilio in una certa continuità con quanto lo ha preceduto e soprattutto con quanto ha seguito (cioè il Magistero di Woitila ed il suo).
Questa distinzione tra discontinuità e riforma sembra oggi diventato l’unico terreno di confronto per una riflessione sul Concilio. Per quanto continui a guardarmi intorno vedo oggi solo specialisti che si esprimono su come vada interpretato il Concilio, sul pericolo più o meno condiviso di interpretarlo alla lettera e di ritenerlo un nuovo inizio che fa piazza pulita di tutto il resto della storia della Chiesa.
In tutto questo però provo una sorta di disagio: comunque lo si interpreti, comunque lo si legga o non lo si legga, ho l’impressione che questo grande Concilio abbia finito le sue cartucce. Oggi solo gli anziani si ricordano di quell’evento, e gli adulti lo ritengono un fatto passato, che non appartiene alla loro vita, e di cui non hanno nessun ricordo. Non parliamo dei giovani. Il Concilio è diventato una serie di documenti storici da studiare ed analizzare, come facciamo per tutti i documenti del passato. Oggi conta molto di più una affermazione a braccio del pontefice che un documento del Concilio, e continuare a parlare del Concilio non so quanto possa essere utile.

Un nuovo Concilio
Forse ce ne vuole uno nuovo!
Non uno di quei convegni - tipo Verona 2006 – dove prima di cominciare i testi finali sono già tutti scritti e pronti per la stampa. Non un raduno mondiale per i giovani dove il papa parla e tutti gli altri al massimo gli offrono un balletto tribale o qualche bambino da accarezzare. No, un confronto vero. Una cosa come il Concilio Vaticano II, ma nuovo, perché i cristiani che oggi hanno 18 anni lo sentano come “loro”, dove si parla di loro e dove anche loro possono parlare. Una grande assemblea dove si possa parlare di tutto ciò che un cristiano oggi vive con disagio: rapporti prematrimoniali, omosessualità, celibato facoltativo, sacerdozio femminile, forme alternative alla confessione auricolare di remissione dei peccati, contraccezione, eutanasia. Ma anche del proprio rapporto con la società, della libertà di coscienza, della convivenza con l’Islam, di ambiente, di boicottaggio di certe multinazionali, di guerre preventive, e perché no, visto che il papa ci tiene tanto anche di ragione e insostituibilità della cultura greca come base per un pensiero cristiano.
Vorrei che le energie che vengono mosse per agire sul piano emotivo, come ad esempio si fa per le grandi giornate della gioventù da ormai 25 anni, venissero mosse anche per smobilitare il piano razionale del mondo cattolico, che è troppo assente, troppo dipendente, troppo comodamente delegante verso preti e vescovi per ciò che riguarda il “date ragione della fede che è in voi”.
Sono ben convinto che un nuovo Concilio non risolverebbe i tanti problemi che non stiamo affrontando, anzi forse metterebbe il dito nella piaga e ne creerebbe di nuovi e di nuove spaccature. Come è successo subito dopo il Vaticano II. Ma almeno appassionerebbe. Mi farebbe sentire vivo in questa Chiesa. Partecipe, protagonista. Qualcuno finalmente, scandalizzatissimo, deciderebbe di scuotere la polvere dai suoi sandali e di andarsene, ma altri da fuori si avvicinerebbero. E Dio sa quanto abbiamo bisogno di questo!

La richiesta di un nuovo Concilio non è la fantasia di un pazzoide isolato. Vi sono petizioni sottoscritte da migliaia di persone e da decine di vescovi, consultabili ad esempio in www.proconcil.org. Significativo è l’intervento del cardinal Carlo Maria Martini nel 1999, al Sinodo dei Vescovi Europei:
“…Penso alla carenza in qualche luogo già drammatica di ministri ordinati e alla crescente difficoltà per un vescovo di provvedere alla cura d’anima nel suo territorio con sufficiente numero di ministri del vangelo e dell’eucaristia. Penso ad alcuni temi riguardanti la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, la sessualità, la disciplina del matrimonio, la prassi penitenziale, i rapporti con le Chiese sorelle dell’Ortodossia e più in generale il bisogno di ravvivare la speranza ecumenica, penso al rapporto tra democrazia e valori, tra leggi civili e legge morale.
Non pochi di questi temi sono già emersi in Sinodi precedenti, sia generali che speciali, ed è importante trovare luoghi e strumenti adatti per un loro attento esame. Non sono certamente strumenti validi per questo né le indagini sociologiche né le raccolte di firme. Ma forse neppure un Sinodo potrebbe essere sufficiente. Alcuni di questi nodi necessitano probabilmente di uno strumento collegiale più universale e autorevole, dove essi possano essere affrontati con la libertà, nel pieno esercizio della collegialità episcopale, in ascolto dello Spirito e guardando al bene comune della Chiesa e dell’umanità intera.
Siamo indotti ad interrogarci se, quaranta anni dopo l’indizione del Vaticano II, non stia a poco a poco maturando, per il prossimo decennio, la coscienza dell’utilità e quasi della necessità di un confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali emersi in questo quarantennio. V’è in più la sensazione di quanto sarebbe bello e utile per i vescovi di oggi e di domani, in una Chiesa ormai sempre più diversificata nei suoi linguaggi, ripetere quella esperienza di comunione, di collegialità e di Spirito Santo che i loro predecessori hanno compiuto nel Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni…”

Per il prossimo futuro la speranza è che davvero si cammini verso un Concilio come quello invocato dal cardinal Martini. Un Concilio dove per ogni uomo presente ci sia anche una donna, dove per ogni celibe vi sia anche uno sposato, dove per ogni europeo, vi sia anche un indiano, un africano, un americano, un asiatico, un australiano…

sabato 2 agosto 2008

Humanae Vitae – 1968-2008


La Humanae Vitae è una enciclica scritta da papa Paolo VI e pubblicata il 25 luglio 1968: il suo scopo è quello di specificare la dottrina sul matrimonio cristiano. Nel documento viene ribadita la connessione inscindibile tra il significato unitivo e quello procreativo dell'atto coniugale; si ricordano anche l'illiceità dei metodi per la regolazione della natalità (aborto, sterilizzazione, contraccezione).
L’Enciclica è scaricabile sul sito del Vaticano a questo link


Nel 40esimo anniversario della Humanae Vitae il sito della rivista Micromega presenta una serie di interviste audio a mio parere molto interessanti di cui ripropongo l’ascolto

Il commento di Vittorio Bellavite
• Il commento di don Walter Fiocchi
• Il commento di don Aldo Antonelli
• Il commento di Giovanni Franzoni
• Il commento di don Andrea Bellavite


"Nessun fedele vorrà negare che al Magistero della Chiesa spetti di interpretare anche la legge naturale" (HV 4)

"Sorgono tensioni nocive nella Chiesa quando, richiamandosi al Magistero di origine divina, essa dichiara valide, senza eccezione, tutta una serie di norme morali secondarie, e perciò esige con forza una fiducia acritica nel Magistero, come se in passato e nel presente non si fosse mai sbagliato e non si fosse mai arrivati a imporre pesi eccessivi" Bernhard Hàring, Pastorale dei divorziati, EDB

venerdì 18 luglio 2008

Quello che non si dice


Quello che non si dice è ben più importante e più grave di quel che si dice. A tutti i livelli. A livello personale, a livello socio politico, a livello ecclesiale. E quando i dibattiti si fermano all’apparenza, alla notizia di cronaca, alla dichiarazione fatta, occorre stare all’erta perché molto spesso quel dibattito è un parlarsi addosso, un modo per sviare l’attenzione, un giudizio pesante verso altri temi riguardo ai quali non si vuole che vi sia alcun dibattito.

A livello personale
Questa regola di vita è vera innanzi tutto a livello personale. Ognuno di noi può constatare come il fatto di evitare certi giudizi, certi discorsi, evitare certe persone e situazioni sia forse conveniente nell’immediato, ma disastroso sui lungo tempo. Se lavoro in un ufficio che divido con due colleghi ed ogni mattina saluto uno e passo indifferente davanti all’altro non è vero che a quest’ultimo non faccio nulla di male: quel mio silenzio lo pugnala ogni volta, perché lui vede che con l’altro mi trovo a mio agio e comincia a pensare quali possono essere i motivi per cui non faccio altrettanto con lui, e di sicuro pensa a motivi poco carini.
In famiglia poi, è molto più diseducativo quello che non si dice di quello che si dice magari con troppa enfasi, magari in modo sbagliato. La nostra educazione basata sul non dire parolacce, non rispondere male, non urlare… troppo spesso dimentica che ben più importante di tutto questo è quello che trasmettiamo con il nostro silenzio. Un bambino piccolo che non piange mai ci sta segnalando un problema, anche se di certo il suo pianto non è piacevole da ascoltare. Ma anche tra i più grandi: quando c’è un argomento di cui non si può parlare o di cui per qualche tacito accordo di fatto nessuno parla (un lutto, un handicap, una separazione…) la tempesta è solo rimandata e a suo tempo presenterà il conto con interessi da strozzino.

A livello socio politico
Pensiamo alle notizie che giungono nelle nostre case attraverso i telegiornali più noti. Pensiamo a quanto è grande il mondo a quanti fatti importanti avvengono ogni giorno e a come sia riduttivo e ideologico sceglierne solo sei o sette, gli stessi per ogni rete, e informare su quelli. E magari tra questi vi troviamo la nascita dei gemellini di Brad Pitt, l’ultimo amore di Anna Falchi o le vacanze di Briatore. Dove è quello che non mi dicono?
Pensiamo anche alla tattica di Berlusconi che sta facendo scuola in Parlamento, e cioè cambiare rapidamente argomento presso l’opinione pubblica, quando le cose si mettono male. Il Popolo della Libertà si sta sfasciando per le dichiarazioni di Casini? Eccolo sul tettuccio di una decappottabile che annuncia la nascita del Partito unico. Ci sono problemi con l’Alitalia? Ecco spuntare dal cappello una dichiarazione sulle toghe rosse e sui processi che gli impediscono di governare.
Un breve focus anche su questioni di natura non prettamente politica. In questi giorni vi è un gran discutere su tutti i media sul caso Eluana Englaro e la relativa sentenza del Tribunale di lasciarla morire. Non entro nel merito della questione, ma anche qui mi chiedo: perché si parla di questo? O meglio, perché si parla così tanto di questo e così poco, per esempio, dello scioglimento dell’Artico? Forse che l’innalzamento dei mari ed il cambio di temperature non sta causando abbastanza morti? In realtà dei morti, che si chiamino Eluana o migliaia di Birmani travolti da un ciclone di proporzioni enormi, non importa granchè a nessuno. Semplicemente quello di Eluana è un argomento che in questo momento vende, e non crea fastidi a nessuno. Il clima invece qualche fastidio a qualcuno lo crea.

Non è mia intenzione criticare qui questo governo o fare una lezione di psicologia aziendale. Voglio solo dire che in una epoca pluri informatizzata, dove una notizia in un secondo fa 12 mila chilometri e dove si sa tutto di tutti telefonate comprese, il problema non è più sapere le cose, ma filtrarle, trattenere quelle rilevanti e tralasciare le altre. E magari fare una certa attenzione proprio a quelle notizie che per qualche strano motivo non ci inondano la casa, ma dobbiamo andarcele a cercare con santa pazienza.
Oggi infatti il modo nuovo di non far sapere una cosa è parlare d’altro, dando all’argomento di facciata grande enfasi, catalizzando l’attenzione in modo che ci si distragga da altri temi. Per questo ritengo che sarebbe molto più profetico stanare gli argomenti proibiti piuttosto che prendere posizioni sulle questioni su cui ci vengono propinate opinioni, sondaggi e via dicendo.

A livello ecclesiale
La cosa vale ovviamente vale anche per la Chiesa. Io molto spesso provo una certa frustrazione non tanto perché il Magistero si esprime in modo differente da come mi esprimerei io, ma per il fatto che le mie idee e quelle di tanti altri come me, non sono proprio prese in considerazione. Per il Vaticano i cattolici “critici” non esistono, semplicemente non sono cattolici per il solo fatto che contestano qualcosa.
Altrettanto problematico mi sembra un certo atteggiamento di omertà per cui spesso ci viene detto che è bene “non dare scandalo”, e quindi non dire, non pubblicare, non approfondire. Che grande autogol sia stato questo modo di fare ad esempio nel caso dei preti pedofili è sotto gli occhi di tutti. Non sarebbe stato meglio dire: “guarda che prima che alla legge canonica hai mancato verso la legge civile e quindi è giusto che paghi. Vatti a costituire, altrimenti ti denunciamo noi”?
Oppure prendiamo la grande fatica che la Chiesa intera fa a chiedere scusa per le proprie colpe. C’è riuscito a stento papa Woitila nel giubileo del 2000 andando un po’ contro tutti i pareri della curia vaticana. D’altra parte è ovvio che se si continua a sostenere che alcune persone sono infallibili, è difficile poi mettere in discussioni le loro affermazioni. No, ammettere di aver sbagliato è segno di debolezza, i semplici ne verrebbero scossi, “scandalizzati”. Guai dare scandalo! Come se non fosse uno scandalo su scala planetaria la stessa divisione dei cristiani tra cattolici, protestanti e ortodossi!
Oggi nella Chiesa non si dice che nessuno arriva vergine al matrimonio. Non se ne parla, ci si confessa prima del matrimonio, e poi via, a posto. E con questo sistema si benedice l’unione di due perfetti “pagani” come Briatore e la Gregoraci, dando per scontato che con una bella confessione prima del matrimonio si sono pentiti della loro vita precedente, e non si da alcuna benedizione ad un matrimonio dove si sa già che i due non possono avere figli (vedi la recente vicenda di Viterbo). Non si dice che molti sacerdoti non rispettano il celibato oppure lo rispettano in mezzo a mille tormenti. Anche qui basta confessarsi e tutto torna come prima. Si afferma con orgoglio che l’Italia è un paese cattolico, che ascolta le direttive dei vescovi quando è ora di non partecipare a certi brutti referendum proposti dai Radicali, ma ci si dimentica di andare a vedere in cosa credono questi cattolici che prevalentemente non vanno neanche a messa la domenica (quanta varietà di posizioni se si indaga sulle affermazioni del Credo!).
Oggi nella chiesa si continua a parlare dei divorziati risposati come di “situazioni irregolari” come se fossero poche mosche bianche in un mare di coppie felicemente sposate ed in procinto di festeggiare il 25°, il 40°, il 50° di matrimonio. Verso conviventi, divorziati, omosessuali, preti sposati c’è tanta misericordia e comprensione pastorale, ma nessun tentativo di andarli a cercare, di confrontarsi sulle loro ragioni e le loro esigenze.
Oggi nella Chiesa vi è un sistema di autosostentamento, il famoso 8 x 1000, molto discutibile perché attinge anche alle tasse di tante persone che non fanno alcuna scelta esplicita per la Chiesa cattolica. Ma anche su questo pare non sia possibile alcuna discussione, come se i soldi fossero un problema a parte, che riguarda qualche Dicastero del Vaticano nei suoi rapporti burocratici con lo Stato italiano e non qualcosa che invece compromette la nostra credibilità e coerenza evangelica come comunità di credenti.

Conclusione
Tirando un po’ le fila di tutto questo discorso dico a chi ha resistito fin qui che a mio parere il futuro della Chiesa è fatto di valori come il dialogo, la schiettezza, l’ascolto. Non dico che debba essere sempre così. I tempi cambiano, ed anche le priorità cambiano. C’è stato un tempo in cui era prioritario annunciare nelle piazze, a gran voce il messaggio del vangelo. C’è stato il tempo in cui la Chiesa è stata chiamata a governare la società tenendo insieme il potere temporale e quello religioso. Oggi il mondo è ben diverso. E’ diverso da quello che ha visto Pio IX quando ha scritto il Sillabo, è diverso ormai anche da quello con il quale ha tentato un nuovo approccio il Concilio Vaticano II. E siccome l’atteggiamento “profetico” è quello di guardare più al “dove stiamo andando” che al “da dove veniamo”, io credo sia davvero giunto il tempo, di imparare a dialogare, a dire le cose come stanno, e ad ascoltare.
Di certo la via per far questo inizialmente non potranno essere né la tv né i giornali.
L’informazione quotidiana a cui siamo sottoposti e nei confronti della quale pensiamo di mantenere una certa libertà di pensiero, forma la nostra mente non meno di quanto non faccia la scuola, il lavoro, e la vita in generale. Tante notizie mordi e fuggi, una dietro l’altra, con qualche pubblicità in mezzo, un po’ alla volta ci insegnano a dire molte cose e a non approfondirne nessuna. Anche nei talk show, dove si spera di assistere ad un dibattito in cui si confrontano voci differenti, gli invitati hanno sempre i minuti contati. Il tempo per lanciare degli slogan, delle frasi ad effetto, ma non per ragionare. Non è questo che serve. E non è questo che semina il Vangelo.
L’informazione cambia argomento velocemente e passa dal serio al faceto, dalla politica alla disgrazia in un battibaleno, senza dare tempo al nostro cervello di elaborare ciò che gli è rimasto impresso.
Una volta ho sentito un teologo, Enrico Chiavacci mi pare, dire che da un po’ aveva cominciato a rifiutare di parteciapare ai dibattiti televisivi a cui era invitato, se non gli garantivano di poter parlare almeno tre quarti d’ora senza essere interrotto. E in questo “metodo” c’è una grande verità.

sabato 12 luglio 2008

Come, se non così?

Quale Chiesa alternativa? E’ da questa domanda che è partito questo blog, e su di essa ciclicamente ritorno. Perché tutti sono capaci di criticare la Chiesa, di dire che è corrotta, presuntuosa, schierata con i potenti, ma poi, quando si tratta di proporne un’altra, alternativa, pochi fanno lo sforzo di pensare a proposte costruttive.

Una Chiesa povera?
Ad esempio: ci lamentiamo che la Chiesa è ricca e collusa con i potenti della terra? Bene. Immaginiamo allora una Chiesa povera e che non accetta incontri con i capi di Stato. Ma immaginiamo veramente, fino in fondo!
Essa di certo diventerà nel giro di qualche anno molto meno visibile sui mass media. Sarà soppiantata da altre religioni anche in Occidente. Una Chiesa povera porterà a vivere delle sole offerte dei fedeli, quindi a dover rinunciare a tante opere che ora si sostengono con l’8 x 1000. Non avremo più fondi per costruire chiese nuove, ad esempio, al massimo riusciremo a riparare alcune delle vecchie, ma si sa, prima o poi ricostruire diventa più conveniente che rappezzare… Dovremo rinunciare a dare un po’ di stipendio ai nostri preti, che di conseguenza dovranno andare a lavorare per vivere e così avranno meno tempo per la pastorale.
Una Chiesa povera forse sarà più evangelica, ma realisticamente perderà tanti fedeli perché verrà vista come qualcosa di troppo provocatorio, troppo diverso da ciò a cui siamo abituati. Ma diventare una minoranza, aver meno fedeli al proprio seguito significherà anche essere meno corteggiati da partiti politici e capi di Stato, che non troveranno più di grande utilità una convergenza con le vedute del pontefice.
Una Chiesa povera sarà fatta di chiese poco riscaldate, poco sicure e più facili prede per ladri, con poche opere d’arte custodite al suo interno.
Bene, siamo sicuri di volere una Chiesa così? Se la Chiesa fosse così, ci impegneremmo di più al suo interno o ne staremmo fuori ancora un po’ di più?

Una Chiesa aperta?
Ma facciamo un altro esempio. Tanti cristiani “critici”, quelli del partito “io credo a modo mio”, dicono che la Chiesa dovrebbe essere più comprensiva ed aperta verso coppie di fatto, omosessuali, divorziati risposati, preti poco coerenti con la scelta di celibato, donne che vorrebbero il sacerdozio. E poi facciamola finita con una Congregazione della Fede che mette all’Indice ogni teologo che si discosta un po’ dalla fede ufficiale, basta con dogmi come l’infallibilità del Papa o del Magistero. Con verità non rintracciabili nei vangeli come la verginità di Maria, la sua Assunzione in cielo, e tutto quel vocabolario greco che ci portiamo dietro da duemila anni come l’unico possibile per parlare della nostra fede. Apriamoci. Accogliamo tutti, diamo i sacramenti a tutti, andiamo a braccetto con musulmani, buddisti, agnostici e riconosciamo un po’ di ragione anche a loro.
Beh, di certo se la Chiesa imboccasse questa strada la confusione aumenterebbe. La fede perderebbe in semplicità, le persone comuni ne uscirebbero confuse e deluse. In fondo ognuno potrebbe dare la sua interpretazione delle Scritture e dei fatti di cronaca, arrogando il diritto di vedersela riconosciuta e rispettata al pari di quella del papa.
In una Chiesa simile, per collegarmi ad un fatto di attualità, uno come Berlusconi potrebbe benissimo fare la Comunione, e con lui tanti che capitano in chiesa una volta ogni tanto per un matrimonio o un funerale, e non danno alcuna importanza a quel gesto. E’ questa la Chiesa che vogliamo?

Se di fronte a queste domande rimaniamo perplessi significa che finora siamo stati tra quelli che giudicano dal di fuori, seguono ragionamenti ideologici, senza compromettersi, senza arrivare alle conseguenze di ciò che diciamo.
E lo sforzo che invito a fare è quello di pensare fin nelle sue conseguenze alla Chiesa che vorremmo.
Io spesso mi sento un po’ tra due fuochi, o se vogliamo tra la padella e la brace. Da una parte una Chiesa che ha visibilmente bisogno di convertirsi perché al di là delle parole rende con le sue scelte una controtestimonianza; dall’altra un mare di credenti che le tirano sassi perché è peccatrice, perché è stata sorpresa in adulterio, e non sentono le parole di Gesù: chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra. Non comprendono soprattutto che il modo migliore per correggerla non è dirle cosa è sbagliato, ma in positivo, cosa sarebbe giusto fare.
Provo quindi a buttar giù una traccia dove elenco alcuni punti (senza pretesa di completezza) su cui a mio parere sarebbe importante cambiare rotta per essere più credibili, più coerenti e più affascinanti. Accanto ad ogni “problema” ovviamente ci sarà una bozza di proposta risolutiva.

Autosostentamento
CRITICA: No al sistema dell’ 8 x 1000 perché utilizza i proventi di persone che non fanno alcuna scelta.
PROPOSTA: Diversa organizzazione:
Si potrebbe mantenere l’8 x 1000 di chi sceglie esplicitamente la destinazione per la Chiesa Cattolica, ma solo di quelli. Dalla quota totale si potrebbe evitare di pagare lo stipendio a diaconi e preti, lasciandolo solo per i vescovi. I preti ed i diaconi potrebbero essere stipendiati lavorando come tutti. Ovviamente la loro disponibilità al servizio pastorale sarà minore, ma sarà compensato da una maggiore responsabilizzazione dei laici e da uno snellimento in pratiche appartenenti ad una società cristiana ormai passata, quali le benedizioni pasquali.
Anche le confessioni natalizie e pasquali, che tanto tempo prendono ai preti, potrebbero essere ripensate con formule di perdono comunitario non escluse dalle Scritture e dai Padri della Chiesa.

Evangelizzazione
CRITICA: Lo strumento della parrocchia non mi appare più adeguato (costano e mancano preti e sono vuote)
PROPOSTA: Alcune parrocchie più grosse si potrebbero certamente mantenere. La vita sacramentale e catechetica però potrebbe svilupparsi su canali alternativi, dove le persone scelgono di andare e non sono indotte da motivi non religiosi. Luoghi quali Movimenti, Comunità di Base, Case famiglia, Gruppi di quartiere, sarebbero più piccoli e più “scelti” dalle persone. Ed in essi forse potrebbero incontrare anche testimonianze più interessanti.

Responsabilità
CRITICA: No tutto in mano al clero. L’attuale impostazione è preconciliare, ed il prete è ancora simbolo dell’intera Chiesa. Troppo spesso le capacità o la credibilità personale di un prete incide sull’evangelizzazione di tutta la parrocchia.
PROPOSTA: Il clero, bisognoso di lavorare per mantenersi, viene chiamato in causa per la somministrazione dei sacramenti. L’evangelizzazione non ruota più attorno al prete, che volendo potrebbe anche sposarsi, e avrebbe un ruolo esclusivamente sacramentale nella Chiesa. La programmazione, le strategie, le responsabilità maggiori andrebbero in mano ai laici (senza escludere del tutto i preti che resterebbero nel consiglio pastorale come una voce tra le altre).

Celibato obbligatorio
CRITICA: Troppi problemi legati ad un celibato subito dal clero. Il problema delle donne segrete dei preti. Il problema dei preti pedofili.
PROPOSTA: Un prete decentrato dalla pastorale, che lavora per mantenersi e che vive in una casa e non in una canonica, potrà anche sposarsi e dedicarsi alla propria famiglia. Ciò non toglie valore al celibato, ma lo accresce, lasciandolo come una libera scelta per coloro che sentono effettivamente la chiamata alla verginità.

Morale
CRITICA: La dottrina morale attuale è causa di grandi sofferenze e pochi benefici, perché è subita, calata dall’alto, non capita nelle sue motivazioni religiose.
PROPOSTA: Una morale non più oggettiva creerà un certo disorientamento, ma d’altra parte non vi è niente di peggio che imporre proibizioni in nome di un Dio verso il quale ci si sta avvicinando gradualmente. E’ necessario insegnare ai cristiani a giudicarsi da soli e puntare un una morale positiva, legata al fare il bene, più che al non fare il male. La nostra morale troppo spesso colpevolizza su atti che sono male e fonte di altro male e non dice niente su quegli atti tralasciati che sono bene e fonte di altro bene.

Ecumenismo
CRITICA: E’ oggi impedito nel confronto con gli altri cristiani in gran parte per interpretazioni diverse non riguardo al Vangelo, ma riguardo al ruolo del Pontefice. Non aiuta di certo il fatto che il papa oltre ad essere sopra tutti gli altri vescovi, è ritenuto anche infallibile dal Concilio Vaticano I.
PROPOSTA: Con le altre confessioni cristiane è importante accettare di ridiscutere il ministero petrino. E’ più importante l’unità dei cristiani che la supremazia del papa. La Chiesa che spesso si preoccupa di non dare scandalo svelando le proprie pecche, in questo da uno scandalo enorme mostrandosi incapace di riunirsi per divisioni avvenute molti secoli fa. E’ evangelico ammettere i propri errori ed è presuntuoso difendere una presunta infallibilità che obbliga a non poter mai negare quanto si è affermato in precedenza, anche a distanza di secoli. Il Concilio Vaticano II ha introdotto il criterio dell’interpretazione delle Scritture tramite i generi letterari (DV12), ma la stessa cosa si potrebbe benissimo fare per gli scritti papali, Magisteriali e Conciliari.
Con ebrei, musulmani, ma anche buddisti e atei (è una fede anche quella) è doveroso un dialogo fondato non sui contenuti ma sulla civile convivenza ed il rispetto.

Dicevo, sono solo appunti, che pubblico più per indicare un metodo costruttivo, alternativo nei modi ma non nella sostanza dell’essere Chiesa, e mi piacerebbe continuare questa pagina in modo più approfondito con l’aiuto di altri.

Madre Teresa: non importa...

Questo "non importa" è il modo nuovo per dire la fede oggi

domenica 8 giugno 2008

Quale dialogo tra Cristianesimo e Islam?

Qualcosa si muove... da Ratisbona alla lettera dei 138.

venerdì 6 giugno 2008

La Via Crucis di Paolo VI

gli ultimi anni del suo pontificato (1974 - 78).

mercoledì 4 giugno 2008

La ragione cristiana

Riflessioni sul discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona, del 12 settembre 2006

La lezione di Ratisbona nel settembre 2006 ha suscitato un certo scompiglio: agitazione nel mondo islamico, con reazioni anche violente contro chiese e cristiani, fino ad arrivare all’uccisione di una suora italiana in Somalia. In Italia grande polemica tra i sostenitori del papa e coloro che invece lo accusano di aver suscitato un gran vespaio con la citazione, nella sua lezione a Ratisbona, di un passo in cui viene messa in cattiva luce Maometto e si lascia intendere la diffusione dell’Islam come una conversione forzata di intere popolazioni.
Certo quella citazione non è stata molto felice, ma col tempo quel discorso ha di fatto posto le basi per un abbozzo di dialogo con i rappresentanti più significativi della religione islamica, per cui ho pensato valesse la pena andarlo a leggere per intero. Bene, la mia impressione è che dopo l’infelice citazione su Maometto il papa abbia fatto un discorso sulla ragionevolezza della fede cristiana, contestando coloro che oggi dividono troppo nettamente tra fede e ragione. Il riferimento va:
1. al mondo protestante (il papa, tedesco, in quell’occasione era in Germania) in seguito alla polemica, nata con Lutero e sviluppatasi fino alle soglie del cattolicesimo moderno, sul rapporto tra fede e ragione inteso secondo la filosofia greca.
2. al mondo scientifico, o meglio verso ciò che oggi in Occidente intendiamo per “ragione”.
Non intendo qui ripercorrere tutto l’intervento del papa, sul quale sono stati scritti fiumi di pagine, ma solo riprendere in sintesi quanto dice, per vederne poi alcune applicazioni attuali.
Io penso che l’argomento sia molto interessante, perché mette il dito su un nodo cruciale della nostra epoca, in cui tutti dicono che bisogna dialogare, ma nessuno lo sa fare; in cui si dice che ragionando si possono trovare soluzioni, ma poi i ragionamenti non trovano un punto di incontro; in cui le religioni vengono viste come un bene o un male assoluti e si passa dal volerle eliminare in nome della Ragione, al voler convertire il mondo intero in nome del proprio dio.
Fondamentalmente il papa teologo dice due cose: innanzi tutto smonta un concetto di ragione basato esclusivamente sul modello di conoscenza scientifica e poi ne propone uno che è quello che all’opposto trova la sua piena realizzazione nel procedere di pari passo con la fede cristiana.
Io trovo molto valido e controcorrente il primo argomento, mentre non posso approvare il secondo. Ed ora mi spiego meglio.

Fondamentalismo ateo
Siamo così abituati ad associare il fondamentalismo alla religione e la ragione alla scienza che dimentichiamo un pezzo di verità. Anche i detentori della dea ragione corrono il rischio delle religioni, cioè di porsi al di sopra. Non va mai sottovalutato l’istinto di onnipotenza dell’uomo. Che egli si faccia papa, o re, o capo di Stato o sapiente, egli resta un uomo che non possiede la verità per intero.
Fondamentalista può essere anche l’ateo, il filosofo, lo scienziato. Ed è contro questo tipo di ragione che Ratzinger grida ad ogni occasione e per questa parte io lo apprezzo molto perché è forse l’unica voce autorevole che mette in guardia contro i pericoli di una certa fiducia cieca nella ragione. Già perché quella ragione che intende spodestare la fede, poi chiede a sua volta fede alle masse nelle sue capacità.
Il metodo sperimentale scientifico infatti porta a discutere solo gli esperti di un settore (tutti gli altri si fidano delle loro conclusioni) e solo ciò che è in qualche maniera misurabile, sperimentabile, e riproducibile in laboratorio, togliendo importanza a tutto ciò che sfugge a tale verifica. Invece ciò che non è verificabile o dimostrabile, come le verità religiose, o le scelte affettive, non per questo sono falsi, o comunque non per questo sono poco importanti. La realtà va ben al di là di ciò che l’uomo riesce a spiegare, ed è per questo che ha senso continuare a cercare di capire sempre meglio il funzionamento della natura.
Tanto più che molte “verità” dimostrate con prove di laboratorio spesso finiscono di essere tali quando qualcuno non riesce a fornire una prova che va nella direzione opposta. Popper diceva infatti che lo scopo della scienza non è tanto quello di “verificare” le teorie scientifiche, quanto al contrario di “falsificarle”: una prova del fatto che i buchi neri non esistono affatto al centro delle galassie peserebbe come un macigno di fronte ai tanti indizi che fino ad ora ci hanno indotto a supporre il contrario.

Difesa dalla “dis-ellenizzazione”
La ragione dunque, per essere una “sana” ragione, deve conoscere e accettare i suoi limiti. E’ vero quel che dice Ratzinger, “chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente”, ma anche questo non basta. Lo sa chi si è convertito in mezzo ai poveri, chi fa cose insensate per amore, chi “cambia” nell’incontro con i disabili, cioè con quella parte di umanità che meno ha potuto sviluppare la capacità di ragionamento “corretto”. Un mondo che comunque parla, pur usando lingue diverse, e converte, manda in crisi, purifica, molto più della logica e del sillogismo. Ma non solo il papa dà alla “ragione” un ruolo molto centrale: egli fa di più, qualora insiste sulla ragione “greca”.
Questa a suo parere è la migliore possibile e quindi non è da cambiare: egli parla del pensiero cristiano così come si è sviluppato nell’incontro tra la fede delle prime comunità ed la filosofia greca. “Il patrimonio greco” è “parte integrante della fede cristiana” e per questo egli intende difendere tale patrimonio dalle tre ondate di “dis-ellenizzazione” che hanno colpito in vari periodi e vario modo il pensiero cristiano degli inizi. Con questa parola si vuole esprimere il tentativo interno alla fede attuale di eliminare ogni influenza del mondo greco sui contenuti dei vangeli e anche sulle formulazioni dogmatiche dei primi secoli.
Il riferimento è innanzi tutto alla Riforma Protestante del XVI secolo, poi alla Teologia liberale di inizio Novecento ed infine al tentativo odierno di spogliare i testi biblici della cultura di cui sono imbevuti in nome di un multiculturalismo odierno in cui a suo parere ognuno porta a tradurre i vangeli un po’ come gli pare.
Io trovo questo discorso non accettabile. Per quanto il pensiero greco, in particolare con la sintesi che san Tommaso fa di Aristotele, abbiano arricchito e dato basi solide per un approfondimento “razionale” di una fede nata in un contesto ebraico, quindi estranea al procedimento filosofico, ciò non può significare che quello sia l’unica sintesi, la migliore possibile, e ogni altro tentativo venga vissuto come un attacco. Il Cristianesimo soffoca se si concentra solo sul “patrimonio greco”. Vi è un patrimonio Indiano, uno latino americano, uno africano, e sono tutti da valorizzare, non da piegare dentro quello greco antico.
Ha ragione Ratzinger quando dice che “il Nuovo Testamento è stato scritto in lingua greca e porta in sé stesso il contatto con lo spirito greco”, questo però significherà che il discernimento tra vangelo e cultura che lo ha ospitato per prima non sarà semplice, ma non che non si possa o non si debba fare.
Il mondo è cambiato un bel po’ dai tempi in cui il cristianesimo nascente sposava la cultura greca con le comunità paoline, e la compilazione dei vangeli e degli altri testi del Nuovo Testamento in greco. E ciò che a quel tempo poteva apparire come azzardato e coraggioso (l’apertura ai “pagani” comportò uno scontro di rilievo tra Pietro e Paolo, vedi Atti 15), oggi rischia di essere riduttivo, per la varietà di filosofie che si sono sviluppate, per la varietà di popoli sulla terra, per la diversità dei problemi che dobbiamo affrontare, per le conoscenze sulla natura che nel frattempo abbiamo acquisito.
La difesa ad oltranza del binomio ragione/fede così come è stato sintetizzato dall’incontro con il mondo greco e poi con l’opera di san Tommaso rischia di essere una violenza nei confronti di quelle culture e di quegli approcci al divino che attingono ad esperienze diverse e che pure potrebbero accettare il messaggio cristiano. Senza parlare del fatto che questa insistenza su nostra fede = ragionevolezza = Europa risulta piuttosto offensiva per musulmani ed ebrei con i quali si stava cucendo da 50 anni un difficile dialogo.

Sviluppi
E’ piuttosto indicativo il fatto che un gruppo di 38 leader musulmani abbia voluto rispondere ad un mese di distanza dal discorso di Benedetto XVI di Ratisbona, precisando come un certo modo di esporre il rapporto fede/ragione risulti offensivo per loro perché si fanno citazioni islamiche non autorevoli, perché si lascia intendere che l’Islam si è diffuso con l’uso della forza e con le conversioni forzate e senza la forza della ragione; perché si traduce “jihad” con “guerra santa” e non con il significato più profondo di “lotta” interiore; perché infine la Chiesa sta abbandonando la strada imboccata nel Concilio Vaticano II con le importanti parole della Nostra Aetate, improntate sul rispettoso riconoscimento ecumenico verso le altre religioni monoteiste, un riconoscimento non finalizzato alla loro conversione (vedi anche la disputa recente sulla preghiera “Et pro Iudaeis”), ma alla valorizzazione di ciò che ci accomuna.
Ad un anno di distanza poi il mondo islamico è tornato con una seconda lettera, questa volta firmata da 138 rappresentanti (scaricabile all’indirizzo http://www.acommonword.com) dove si incoraggia il pontefice e tutto il mondo cristiano, quindi anche protestante e ortodosso, ad un dialogo religioso ritenuto ormai imprescindibile perché “Insieme Musulmani e Cristiani formano ben oltre metà della popolazione mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una
pace significativa nel mondo. Il futuro del mondo dipende dalla pace tra Musulmani e Cristiani”.
La lettera dei 138 musulmani ha avuto una spettacolare risposta collettiva in un messaggio pubblicato sul "New York Times" del 18 novembre 2007, firmato da 300 studiosi. I firmatari appartengono per la maggior parte a confessioni protestanti. Il messaggio approva e loda la lettera dei 138. Ne fa propri i contenuti, ossia l'indicazione dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" tra musulmani e cristiani, al centro sia del Corano che della Bibbia.
Bene, sembra che una storia iniziata tanto male non potesse prendere strada migliore di questa, ma che fa il Vaticano? Temporeggia. Christian W. Troll, un tedesco esperto dell’Islam molto stimato dal papa, fa notare che la lettera dei 138 musulmani, col suo insistere sui comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" sia del Corano che della Bibbia, sembra voler portare il dialogo sul solo terreno dottrinale e teologico. E proprio questo sembra essere il problema. Il papa con i musulmani non vuole parlare di teologia, ma aspetta che prima recepisca i valori dell’Illuminismo (si, ha detto proprio così) Queste almeno sarebbero le basi per un dialogo con l’Islam esposte nel discorso natalizio alla curia romana il 22 dicembre 2006.
Per questo motivo il Vaticano, pur vedendo positivamente le intenzioni della lettera, non ha ancora elaborato una risposta formale ed il tutto rischia di scemare in un niente di fatto. Il chè sinceramente sarebbe alquanto triste: da una lezione a Ratisbona piuttosto azzardata era comunque nato, insieme a tante polemiche e reazioni violente, un nuovo bisogno di confrontarsi. Che poi questo confronto fosse partito dalla teologia o dalla morale, secondo me, poco importa, purchè ci fosse, perché il dialogo è un segno in sé per il mondo che guarda.
Vi è un altro motivo per cui è importante cogliere il segnale lanciato da questa lettera: il papa non fa altro che dire che la fede ha una base razionale, che il sano ragionamento è aperto e conduce alla fede, che fede e ragione hanno bisogno l’una dell’altra. Mi pare contraddittorio in seguito a queste affermazioni l’atteggiamento scettico verso i 138. Loro sono forse i primi a dire “ok, ci stiamo, ragioniamo su Dio” e noi che facciamo? Rispondiamo che nessun dialogo teologico è possibile con l’Islam? Che al massimo si può parlare di diritti umani e convivenza pacifica, ma non dell’al di là? Non avevamo appena detto il contrario? E questa improvvisa lode dei valori “veri” dell’Illuminismo, poi, che fino a ieri era la fonte di ogni male… Mah…
Speriamo non sia finita qui. Speriamo che queste lettere tra capi religiosi non finiscano in una scomunica vicendevole destinata poi immancabilmente a reazioni violente e atti di intolleranza.