martedì 15 gennaio 2008

Le spiegazioni del celibato

L’11 marzo 2006 l’Agenzia Fides, l’Agenzia Vaticana della “Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli” ha pubblicato un dossier intitolato “La Chiesa cattolica e l’importanza del celibato”, un testo che ribadisce, con una triste operazione di copia-incolla, quello che è già stato detto abbondantemente sul celibato dei sacerdoti dal Concilio Vaticano II ad oggi.
Non sono un appassionato del tema del celibato e non lo ritengo centrale né prioritario per una riforma della Chiesa. Direi anzi che mi deprime la lotta a forza di insulti tra coloro che sono favorevoli al celibato obbligatorio e quelli che lottano per il celibato opzionale, ma visto che l’autorità magisteriale insiste su tale argomento mi sono messo a riguardare alcuni documenti. Leggendo mi sono accorto che, parlando di celibato, il Magistero parla indirettamente anche di matrimonio, donna, sesso, e allora il mio interesse si è riattivato, anche perché questi argomenti correlati escono da quei documenti un po’ malconci.
E’ sufficiente fermarsi un attimo sul linguaggio usato. Alcune espressioni, infatti, non possono lasciare indifferenti e inevitabilmente suscitano domande su quanto esse dicono senza dirlo esplicitamente.

Scelta di convenienza
Il “dossier fides” torna sul tema del celibato perché lo ritiene “un argomento cruciale”, visto il lassismo morale in cui viviamo oggi. Infatti ogni volta che si propone di discutere su una legge della Chiesa la risposta è sempre quella: la domanda è maliziosamente suggerita dai tempi moderni, da questo mondo corrotto, dallo spirito del male che tenta di indebolire la Chiesa nei suoi capisaldi. Il sacerdote – dice il documento – non è un funzionario, ma un alter Christus e quindi deve somigliare a Gesù in tutto a partire dalla scelta di verginità. Peccato che poi il Sinodo dei Vescovi del 1971 e Paolo VI nella Sacerdotalis Coelibatus abbiano parlato di celibato come di una scelta di “convenienza”. Convenienza secondo me significa che si potrebbe fare anche diversamente, ma si sceglie continuare così perché lo si ritiene appunto, al momento, più opportuno.
Mi pare interessante questo passaggio. Il celibato è sempre stato ribadito come obbligatorio anche nel passaggio del Concilio e da lì in avanti, ma con papa Woitjla ed ora con il suo successore vi è stata una ulteriore stretta di vite. Mentre prima il celibato era “conveniente”, cioè spiegato come funzionale alla missione del prete, ora viene sempre più spesso motivato come scelta dalle implicazioni teologiche, scelta conseguente ai fondamenti biblici e dottrinali: come dire è così e sarà sempre così perché Dio lo vuole (Pastore dabo vobis, 29).

Cuore indiviso
Tornando al dossier noto una certa insistenza sul fatto che il prete celibe ha più tempo, è libero da impegni coniugali e può dedicarsi quindi meglio alla propria missione: argomento che di fatto conferma la tesi della convenienza. Ma ecco che emerge una parola che pare molto cara: il prete celibe segue Gesù e serve la Chiesa “con cuore indiviso”, o anche “con amore indiviso”.
Qui mi sono fermato. Questo termine non era presente nei documenti post conciliari, ma si è diffuso come una formula magica con Woitjla e le sue congregazioni. Lo si trova nella esortazione apostolica Pastore dabo vobis, pubblicata nel 1992, sempre al n° 29; nel discorso dell’udienza generale del 14 luglio 1993; nonché nel “Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri” della Congregazione per il Clero nel 1994.
Sia chiaro: nulla da eccepire verso quei tanti preti che vivono serenamente il proprio celibato e anzi usano questa scelta più per stare con la gente che per starsene in pace, ma indubbiamente il cuore “indiviso” del celibe si contrappone come scelta linguistica a quello “diviso” del coniugato. Questo non significa forse considerare ancora la donna rivale di Dio? Non significa metterla sullo stesso piano? Sarebbe davvero interessante a questo proposito ascoltare un po’ di donne che per essere state innamorate o sposate con un sacerdote hanno vissuto sensi di colpa enormi VERSO DIO, arrivando, in alcuni casi, per sopravvivere, a lasciare l’amato o a non credere più in quel Dio.
Ma ancora: un marito, una moglie, con il loro cuore impegnato nella loro storia familiare, hanno meno possibilità di amare Dio e di testimoniarlo rispetto ad un celibe? E se l’amore per una donna “toglie” qualcosa a Dio, non stiamo forse dicendo che è una cosa sporca e sbagliata? Se il richiamo al cuore indiviso del sacerdote celibe dice tutto questo, io credo che vada ripensato.
All’orizzonte di un tale concetto del rapporto eterosessuale vi è l’idea che la sessualità sia come un vortice che prende per sé le migliori energie, un qualcosa che domina la coppia, quanto più si accondiscende all’appetito sessuale. Chiunque vive un rapporto di coppia sereno potrebbe invece testimoniare che le cose non stanno così e tranquillizzare i vescovi sul presunto dominio del sesso, che di solito, al contrario, alimenta pensieri impuri e consuma preziose energie proprio nella misura in cui non lo si esercita e si cerca di dominarlo con forzati volontarismi.

Castità e Verginità
A partire dal dossier fides, andando a ritroso nei documenti che hanno trattato questo argomento, noto una confusione, non so quanto voluta, tra il termine castità e il termine verginità.
Vocabolario alla mano, castità significa “puro, che si astiene da piaceri carnali illeciti” (Vocabolario della lingua italiana - European Book Milano). Non quindi dai piaceri carnali in assoluto, ma da quelli illeciti.
Ma si sa i vocabolari non passano il vaglio della Congregazione della Fede, vediamo allora cosa dice il Nuovo Dizionario di Teologia Biblica delle Paoline alla voce “verginità”: “Preferiamo parlare di verginità … l’uso di castità (anche se “perfetta”) deprimerebbe lo stato matrimoniale e dimenticherebbe che anche quest’ultimo è tenuto alla legge di castità”.
Dunque anche gli studiosi cattolici hanno chiaro che la scelta di consacrazione che comporta la rinuncia delle proprie facoltà sessuali si chiama “verginità”, l’uso cristiano della sessualità invece si chiama “castità”. Si può infatti essere vergini, ma non casti nel cuore, nello sguardo, nei doppi sensi… Oppure si può al contrario essere casti, ma non vergini, come nel caso di chi vive in modo appagante il proprio rapporto sessuale e proprio per questo non ne cerca altri.
I documenti che trattano il celibato sacerdotale invece parlano di “castità perfetta”, “castità celibe”. Ma cosa implica “castità perfetta” usato come sinonimo di celibato? Non significa forse che esiste una castità “non perfetta” tipica dei fedeli sposati? Una castità che è non perfetta non perché vive la sessualità in un modo scorretto, ma semplicemente perché esercita la sessualità! Questo linguaggio implica che meno si fa l’amore e più la castità è perfetta, meno si fa l’amore e più si è assimilati a Cristo. Con tutti i discorsi sul valore della famiglia, con la riabilitazione dell’eros che ha tentato l’Enciclica "Deus caritas est" di Benedetto XVI, credo che vi sua una grossa incongruenza logica.

Vocazione e Legge
Un’altra considerazione che desumo direttamente dalla lettura dei documenti già citati deriva dal fatto che il Magistero parla in modo distinto di “vocazione al sacerdozio” e “legge del celibato”. Cioè, giustamente, dice che tanti possono ricevere una chiamata al sacerdozio, sia celibi che sposati, ma la Chiesa tra tutti questi sceglie di ordinare, per motivi suoi, solo quelli che hanno anche la chiamata al celibato.
Il “Direttorio…” del 1994 dice “La Chiesa ha ribadito … la ferma volontà di mantenere la legge che esige il celibato liberamente scelto e perpetuo per i candidati all’ordinazione sacerdotale nel rito latino”.Ma ancor più chiaramente la Sacerdotalis caelibatus così si esprime: “Il carisma della vocazione sacerdotale … è distinto dal carisma che induce alla scelta del celibato”.
A questo punto mi sorge spontanea una domanda. Come può Dio fare una chiamata e la Chiesa decidere di non ascoltarla addirittura stilando una apposita legge? Come si può ammettere che Dio chiama al sacerdozio anche persone che vogliono sposarsi o sono sposate, e allo stesso tempo decidere con un decreto che tra tutti quelli che Dio chiama si accettano solo coloro che hanno anche la chiamata al celibato? A me sembra un piccolo abuso della facoltà data ai discepoli di “legare e di sciogliere”. Non credo sia lecito neppure alla Chiesa arrivare a vagliare perfino tra le scelte di Dio.

Configurati a Cristo Capo
Ovviamente la Chiesa dà motivazioni fondate per spiegare la sua scelta a favore del celibato obbligatorio. Motivazioni pastorali e di convenienza, certo, ma anche bibliche e teologiche. Prima tra tutte spicca ovviamente quella che Gesù stesso era celibe. Tra le principali motivazioni teologiche però viene ripetutamente sottolineato il fatto che siccome il sacerdozio configura una persona a Cristo capo della Chiesa, a Cristo che sposa la Chiesa, il celibato sarebbe il segno visibile di tale legame “intimo” (anche questo è un termine che và alla grande nel recente Magistero), perché mostra che il sacerdote sposa la Chiesa, come fa Cristo, e come Cristo mostra questo legame non sposando nessun altra.
E’ sempre la Pastore dabo vobis che insiste. Il legame tra ordinazione e celibato “configura il sacerdote a Cristo Capo e Sposo della Chiesa. La Chiesa come Sposa di Gesù Cristo, vuole essere amata dal sacerdote nel modo totale ed esclusivo con cui Gesù Cristo Capo e Sposo l’ha amata”.
Penso che anche questo ragionamento non sia proprio così scorrevole e logico come sembra al papa polacco.
Innanzi tutto la Chiesa non dovrebbe mai dimenticare che essa è certamente stata amata e fondata da Gesù, ma non in prima istanza per essere ancora amata dai suoi ministri. Egli li chiamò a sé per mandarli ad annunciare il vangelo e perché stessero con Lui. La configurazione a Cristo, casomai, consiste nell’amare come Cristo, non nell’essere amati come ci ha amato Cristo.
Si insite poi nell’usare l’analogia del matrimonio per esprimere il legame tra Cristo e la Chiesa. Ma forse sarebbe tempo di trovarne una migliore visto che oggi come oggi è diventato impensabile dire che lo sposo è il capo della sposa, anche se così si esprimeva san Paolo. Dire che il sacerdote è il “capo” della sua sposa, la Chiesa, è offensivo per le spose, che solitamente cercano un marito e non un capo, ma è offensivo anche per la Chiesa che nel Concilio Vaticano II ha parlato di sacerdozio comune di tutti i fedeli (Lumen Gentium 10). Un conto è dire che Cristo è capo e posso pure capire che nel ministero del sacerdote vi sia una certa missione ad essere “capo” nella comunità, ma da qui a paragonare tale rapporto a quello matrimoniale tra un uomo e una donna, dove l’uno è capo dell’altra mi pare ce ne passi. Questa terminologia oltretutto è mantenuta nel rito del matrimonio dove viene esplicitamente paragonato il nascente rapporto tra gli sposi con quello che c’è tra Cristo e la Chiesa.
E’ chiaro che
1. se la Chiesa è la sposa di Cristo
2. Il sacerdote è Cristo
3. ovvio che il sacerdote è sposato con la Chiesa.
Ma forse, dico io, stiamo usando immagini che necessitano di una rispolveratina, oggi non credo sia più incisivo, nè utile,
1. parlare del sacerdote come di un altro Cristo, anche se certamente egli ha un ruolo determinante come mediatore dei misteri della salvezza e ministro dei sacramenti,
2. parlare della Chiesa come “sposa” del sacerdote. La Chiesa è sposa di Cristo, ammesso e non concesso che l’analogia con il matrimonio sia la migliore, ma non sposa del sacerdote, il quale è esso stesso parte della Chiesa, e non sta come Cristo “di fronte” alla Chiesa.
3. parlare dello sposo come capo della moglie.

Conclusioni
Non era mia intenzione denigrare il celibato in sé, e spero sia emerso che personalmente rispetto ogni vocazione liberamente scelta. Anzi sono ben d’accordo con il Magistero quando sostiene che il celibato, come il matrimonio, è un dono di Dio e và custodito con cura. Molti sacerdoti amanti del proprio celibato mi sono stati d’esempio e di aiuto. Non è questo il problema, mia intenzione era discutere sul legame obbligatorio tra il celibato e il sacerdozio ordinato.
Abbiamo visto quanto certi termini siano ambivalenti e forieri di un giudizio piuttosto severo nei confronti della sessualità e della donna. Penso quindi, che prima di decidere sul celibato dei preti la Chiesa debba fare chiarezza sul concetto di sessualità. Finchè non vi sarà un approccio sereno a tale argomento assisteremo ad una dicotomia piuttosto imbarazzante tra un Magistero che detta regole, da una parte, ed una Chiesa che regolarmente non le ascolta, dall’altra… preti compresi. Prima si deve cambiare filosofia di fondo, e poi spontaneamente vedremo una minor rigidità su rapporti prematrimoniali, omosessuali, masturbazione, comunione ai divorziati risposati e anche celibato obbligatorio.
Sarebbe tempo di chiarire che la vocazione al matrimonio non ha niente di meno rispetto a quella al celibato. Anzi oggi è diventata una vera sfida controcorrente. Amare una donna, un uomo, un figlio, è oneroso e degno e difficile tanto quanto consacrarsi ad una intera parrocchia. Anche perché se non ci sono tanti padri e madri che con la loro piccola Chiesa domestica testimoniano l’amore di Cristo, sarà ben difficile poi radunare gruppi parrocchiali e amministrare sacramenti.

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