giovedì 19 febbraio 2009

Il bene ed il male

Che si parli di surriscaldamento del pianeta, di crisi economica o di testamento biologico, presto o tardi i discorsi mediatici, e ancor più quelli informali, vanno a finire nella schematizzazione più ovvia, che da millenni sembra spiegare tutto: c'è il bene ed il male, bisogna scegliere il bene e combattere il male.
E' un messaggio così semplice, così lampante che viene utilizzato in continuazione non solo da esponenti religiosi ma anche finanziari e politici.

Se però la compresenza di bene e male è spiegabile da un punto di vista psicologico e sociale non lo è per quello che riguarda la fede.
La fede annuncia la buona novella, ma questo non implica che esista il male. Il male è semplicemente la mancanza di bene. Ma posso dire che in mancanza di aria sono in presenza della non-aria? In termini filosofici, all'essere corrisponde l’esistenza di un non essere?
L'ipotesi manichea dell'eterna lotta tra bene e male è comoda e vincente, come i tarocchi e l'oroscopo, perchè permette di spostare lontano da noi il dilemma. E' comodo in fondo pensare che sopra le nostre teste si sta svolgendo una lotta tra titani, un po' alla Star Wars o Il Signore degli anelli, una lotta tra colossi che si disinteressano delle nostre frivole faccende quotidiane e ci usano solo come campo di battaglia per stabilire chi dei due sia il vincitore. Più difficile è pensare che tutta la posta in gioco, in definitiva la riuscita della nostra vita, dipenda da noi.

La fede cristiana è in fin dei conti un qualcosa buttato là dove prima non c’era nulla, un progetto, un disegno amorevole che si svolge con l'aiuto divino ed il nostro consenso. Oggi siamo in una situazione particolare, perchè molti laici sono cristiani senza saperlo e molti cristiani sono pagani senza saperlo; l'appartenenza ad una chiesa e la partecipazione ai suoi riti non è più garanzia di salvezza. A maggior ragione quindi bisogna far doppia attenzione a dividere bene e male, buoni e cattivi. Ma quello che qui mi preme sottolineare è il fatto che la scelta – che avvenga a livello interiore, o sociale – non è tra il bene ed il male, ma tra la scelta del bene e la non scelta. L’immagine evangelica della luce rende visivamente meglio la cosa. La luce che squarcia nelle tenebre non indica una lotta tra luce e tenebre come lascia intuire il prologo di Giovanni a causa dei suoi chiari influssi gnostici. Implica semplicemente l’avvento di qualcosa, una luce, dove prima non c’era niente, un niente che chiamiamo tenebre, ma che rimane niente. La questione educativa di fondo non è quella di scegliere tra un principio positivo ed uno negativo, ma tra il bene e niente.
I ladri, i banditi, gli spacciatori, gli stupratori... nessuno di questi sceglie il male come progetto di vita, come nessuna nazione sceglie la guerra per odio verso la pace.
Ciò che per comodità chiamiamo “male”, o diavolo, dandogli così un volto, altro non è che la possibilità di non scegliere, di sciupare la nostra vita, seppellendo il talento che senza meriti ci ritroviamo tra le mani (Mt. 25,14-30).
Questo niente, o non scelta, è naturale. E’ quello che si svolge in natura, a livello istintuale, e si traduce in atti descritti primariamente da Darwin e volti all’autoconservazione della specie. Non si tratta quindi di vivere brutalmente nelle tenebre, ma solo senza possibilità di scelta morale, o meglio di scelta cosciente e volontaria del bene. Cosa che in natura distingue l’uomo da tutte le altre creature.
Essere coscienti e convinti di questo è fondamentale perchè le conseguenze che ne derivano cambiano radicalmente il comportamento del credente all'interno della comunità e nella società. La violenza, l’aggressione, tutto ciò che banalizzando ci raffiguriamo come male, è semplicemente mancanza di capacità di scegliere il bene. E’ azione ad un livello puramente naturale. Per milioni di anni le leggi che hanno governato il mondo sono state leggi di forza, io mangio te e vivo, o anche all’interno dello stesso nido, io mangio più di te e sopravvivo. Rappresentare questo comportamento come male significa negare la propria natura e discolparsi per meccanismi che, essendo guidati dalle forze del male, non dipendono da noi.

Bene e Male nella religione cristiana
La prima conseguenza è il rapporto con il peccato. Il peccato, inteso come un veleno mortale da evitare messo lì apposta dal maligno per farci sbagliare, ottiene l'effetto tutto religioso di spaventarci. Preghiamo per evitare il male, e usiamo molte delle nostre migliori energie per mantenerci puri, per resistere alla tentazione, per NON dire, NON fare. E' la logica dei comandamenti superata da Gesù con le beatitudini, con il comandamento dell'amore per i nemici, con la croce.
Non voglio sminuire il peccato. Voglio dire che il timore verso il peccato a volte ci fa perdere di vista ciò che in positivo è ben più importante: dare la vita. Se io passo la mia vita a tentare di non fare peccato faccio esattamente come quei farisei che Gesù rimproverava apertamente, perchè tutto preso dalla mia religione e dalla mia salvezza dimentico di ascoltare il bisogno di chi mi passa accanto. Se invece io do meno peso al peccato, vedendolo non come un atto personale indotto dal demonio, ma semplicemente un non atto, una non scelta, un ripiegamento dovuto all'aver scelto me stesso e la mia solitudine, allora la mia attenzione sarà stimolata a valutare la scelta, la proposta che mi porta ad uscire da me stesso e dalle mie sicurezze, perchè Dio non si è comportato così con me ed io non posso fare questo con il prossimo.
Non siamo di fronte al bene e al male, come ci vogliono far credere. Siamo di fronte ad una chiamata. O rispondi o non rispondi. Siamo di fronte alla possibilità di usare questa nostra vita in un modo che non sia puramente animalesco. Siamo cioè di fronte alla sfida della responsabilità. Non starci non significa scegliere il male, certo però è una cosa che ci fa “star male”.
Una seconda conseguenza religiosa è l'immagine dell'al di là. La nostra personificazione del bene e del male ci ha portato a dare ad ognuno un suo habitat, un regno dove collocarli: paradiso ed inferno. Più il purgatorio per le vie di mezzo, ma questo è un problema più complesso che mi allontanerebbe dal discorso, quindi per il momento evito.
Tante discussioni si sono sviluppate attorno all'inferno, perchè giustamente alcuni obiettano che la sua sola esistenza, il fatto che sia stato previsto e preparato significa un limite a priori nella infinita misericordia di Dio. E d'altra parte se neghiamo la sua esistenza sembra quasi che si dia il via libera ad ogni forma di depravazione, perchè tanto non vi sarà alcuna punizione.
E' un labirinto mentale da cui non si esce se non si fa un passo indietro. Ed il passo è quello di considerare che esiste il bene, non il male. Il male è semplicemente mancanza di bene, è così doloroso ed ha conseguenze così nefaste che lo conosciamo meglio del bene, ma in realtà non “è”. Non è nulla, e questa paradossalmente è la sua forza. A mio parere esiste il paradiso, ma non l'inferno, nel senso che scegliere di rifiutare il paradiso è dippersè un inferno. Nell'al di là l'amore per Dio tradotto in amore per l'umanità ed il creato avrà un seguito, una conferma, un godimento continuo. Ma il rifiuto di questa prospettiva non vedrà le fiamme eterne, semplicemente non vedrà nulla.
Un altra traduzione concreta di quanto sto dicendo la vedo nell'attuale dicotomia vita/morte. Quanto parlare attorno alla vicenda di Eluana in questi ultimi mesi, tutti quanti improvvisamente presi dalla vita e dalla morte, dal confine che le separa, sondino si, sondino no, testamento biologico, eutanasia … Tutti a pensarci al suo posto, e alla nostra scelta se fossimo stati al posto di lei. Molto più della morte a me interessa la vita. Non come o quando morirò, ma come sto vivendo, è questa la questione e penso pure che la paura della morte sia proporzionale al nostro egoismo, all'esserci tenuti la nostra vita per noi, come un tesoro geloso. Gesù dice di sé di essere la verità, la via, la vita (Gv. 14,6). Il contrario di queste cose, la falsità, la perdizione, la morte, non sono qualcosa da contrastare o contro cui schierarsi. Non sono, punto e basta. Combatterle, contrastarle, significa dar loro un'identità, una importanza al pari del corrispettivo positivo. Invece non serve combattere il male se si serve il bene. Non serve evitare le falsità se si sceglie la verità, e per tornare a Eluana, non serve definire nei minimi particolari cosa sia la morte, se si è vissuto veramente. I santi sono così pieni di vita che non temono la morte. La teme colui che nella vita non fa niente.
Chi si ferma a piangere sul latte versato facilmente rimarrà impantanato nei sensi di colpa, mentre invece chi costruisce sono le persone protese verso il futuro.
Questa divisione tra bene e male pervade tutto, ed inesorabilmente la paura del male è più potente dell'attrazione verso il bene. E questo è un bel guaio perchè ci fa vivere la vita come un incubo e non ci fa sperimentare la bellezza della scelta per la vita. Temere il male rafforza il male stesso, lo posiziona al centro dei nostri pensieri e ci porta ad agire sulla difensiva.
Ogni volta che ci dicono di non dire, non fare, noi per sicurezza, non diciamo e non facciamo neppure il bene. L'esatto contrario della parabola del grano buono e della zizzania.
La confessione dovrebbe essere questo, l'incontro con un Dio che ci toglie il peso e ci invita a distogliere lo sguardo da quel peso per andare avanti. Invece come pesa il suo perdono! Quanto lo abbiamo fatto soffrire! Quanto piange per i nostri peccati! E intanto che misuriamo al microscopio quanto siamo o non siamo degni di accostarci alla sua mensa, ci passano sotto il naso occasioni d'oro per vivere. Pensare ai nostri peccati in fondo è un esercizio di egoismo, un pensare a sé stessi e alla propria bravura. Quando invece ti trovi di fronte ad uno che ha bisogno puoi essere bravo o non bravo, puro o impuro, ma fatto sta che lì ci sei tu: o lo aiuti o … niente.
Davvero illuminante da questo punto di vista il film “La leggenda del santo bevitore” di Ermanno Olmi.
Vorrei fare anche un esempio più personale.
Quello che mi ha colpito di don Oreste Benzi, parlo di circa 20 anni fa, non è stata la sua purezza..., anzi era così imbarazzato in presenza di donne che mi faceva quasi tristezza. Non è stata la sua preghiera continua, le sue prediche, la sua vita integerrima. No, lui faceva una montagna di errori, faceva andare su tutte le furie chi gli stava dietro perchè non sapeva collaborare. Ma sapeva di essere un peccatore, sapeva di aver tutti questi difetti e chiedeva sinceramente a Dio il suo perdono. Certo però non passava la vita a piangere sulle proprie mancanze, perchè i poveri lo chiamavano e lui non aveva tempo... doveva andare da loro. Curarsi della propria santità era un lusso che non poteva permettersi. Di fronte alle proprie colpe quasi di fretta commentava “speriamo che Dio abbia pietà di me”. Ecco, questo è l'esempio di un uomo che non aveva tempo da perdere con il “male”. Aveva da fare. C'era gente che aspettava al freddo della stazione ferroviaria.
Nelle mie giornate mi occupo di disabili come coordinatore di un centro diurno. Anche qui è la stessa musica che si ripete. Ci vengono affidati ragazzi con diagnosi terrificanti. Ognuno è catalogato per il suo “handicap”. Io stesso li chiamo “dis-abili”, perchè non c’è una parola positiva per chiamarli. Tanti sono affetti da “ritardo” mentale. Vediamo insomma i disabili per quello che non hanno, per quello che non sanno fare e che noi normodotati possiamo fare al posto loro per nostra gratificazione.
Come se non avere intelligenza fosse qualcosa, o non avere l'uso delle gambe, o della parola, o della vista... Tutte cose che sono niente rispetto alla grandezza di desideri, di aspirazioni, di cuore che si portano dentro. Ma il limite, il male, l'errore, è più facile da vedere, da misurare, da giudicare.
Tutto questo discorso può risultare un pò “filosofico” o campato per aria, e forse non mi sono preso il tempo sufficiente per una elaborazione più efficace, ma per me è stato davvero liberante. Quante energie bloccate quando allo specchio si rimane troppo a lungo a guardare ciò che non va. E quanto tutto diventa più scorrevole quando invece di pensare a te, ai tuoi peccati, al tuo caratteraccio, cominci a preoccuparti veramente dell’altro, a prendertene cura non in modo sporadico, ma responsabilmente.
E’ proprio questo in senso di quanto Gesù voleva dirci quando a casa del fariseo spiega il gesto di quella “peccatrice” che gli lava i piedi con le sue lacrime e li asciuga con i capelli: “le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato ...” (Luca 7,47)