giovedì 24 dicembre 2009

Santità, almeno tossisca...


«Il Natale – dice Berlusconi a Benedetto XVI in una lettera per il Natale 2009 - è un momento importante di riflessione per tutti gli uomini di buona volontà. Il messaggio di pace e di fraternità di Cristo, che dovrebbe regnare tra gli uomini, purtroppo viene dimenticato quando alla forza delle idee si risponde con la violenza verbale o financo fisica»
«Posso confermare - aggiunge il presidente del Consiglio - che i valori cristiani testimoniati dal Pontefice sono sempre presenti nell’azione del governo da me presieduto, che adotterà tutte le misure necessarie per garantire la serenità e la pace sociale»

Berlusconi ed i valori cristiani
Io mi sforzo di non parlare di Berlusconi su queste pagine, davvero, non è facile, ma ce la metto tutta. Sia perché le mie riflessioni ruotano attorno alla chiesa cattolica e non alla politica, e sia perché Berlusconi ama che si parli di lui, nel bene o nel male, e non parlarne è il peggior dispetto che gli si possa fare. Mi sforzo, dicevo, ma questa volta proprio non ci riesco. Berlusconi scrive al papa e dice che “i valori cristiani testimoniati dal Pontefice sono sempre presenti nell’azione del governo da me presieduto”.
Io penso che sia doveroso ribellarsi, come cattolici, a questa intrusione. Ho resistito quando si autodescrive come il Bene che lotta contro il Male, o quando ci spiega che l'amore vince sull'odio, ma quando si tira in ballo esplicitamente Cristo e la fede cristiana bisogna dire qualcosa.
Rispettare i valori cristiani non significa solo trattare su scuole private, aiuti alla famiglia e aborto. Anche le centrali atomiche sono una questione cristiana, anche lo scudo fiscale, anche il trattamento dell'immondizia, anche la libertà d'informazione, anche l'evanescente forum della FAO fatto nel 2009 a Roma, dove non è stato deciso nulla, è una questione etica. Anche il summit sull'ambiente a Copenaghen dove come se nulla fosse si è condannato a morte il pianeta dei nostri figli, è una questione che ci interpella come cattolici. E tutto questo senza il bisogno di scuotere dalla polvere le questioni private del premier quali rapporti con escort, festini orgiastici, processi evasi, leggi ad personam, questioni che da sole basterebbero per chiedere al pontefice almeno qualche colpo di tosse.
Come politico intrattenga pure rapporti cordiali con Ratzinger, Bertone e Bagnasco, se vuole. Baci tutti gli anelli e si faccia fotografare ad ogni occasione. Ma lasci stare Cristo e non ci spieghi il vangelo.
Bisogna dire qualcosa, - mi riferisco al pontefice - non si può tacere di fronte ad una autosantificazione così plateale del presidente del consiglio. Perché in certi casi il silenzio può davvero essere interpretato come assenso.
Caro presidente, se non glielo dice il papa glielo diciamo noi, cattolici qualunque: non basta dire che si rispettano i valori cristiani per rispettarli davvero. Parli pure male della magistratura e di Di Pietro, ma lasci stare Cristo e si sforzi di non nominarlo neppure, almeno a Natale. In fondo nel suo ruolo, non le è neanche richiesto. Lei deve rispondere del suo operato ai cittadini, non alla chiesa. Perché ripete questa cosa fino all'ossessione quando viene convocato da qualche giudice (cioè che lei deve rispondere solo ai suoi elettori) e se la dimentica davanti al papa?

La letterina di Di Pietro
Una cosa la vorrei dire anche a Di Pietro, che – sempre in questi giorni - non ha scritto al papa, ma direttamente a Gesù bambino. Per favore, Di Pietro, fai la tua opposizione, ma lascia stare Gesù bambino. Non iniziare anche tu ad usare un linguaggio religioso che non ti appartiene, non demonizzare Berlusconi come lui fa con te. Lascia perdere il diavolo e dì quello che devi dire, sul quale io spesso mi ritrovo, senza allusioni bibliche o toni comici che in quanto politico non sai usare. Si può parlare dell'impossibilità di dialogare con questo governo in tanti modi, senza ridicolizzare un evento che per noi credenti è sacro.

Auguri di buon Natale a tutti gli insofferenti verso il perbenismo natalizio e del mercato dei valori cristiani al quale anche quest'anno stiamo assistendo.

sabato 19 dicembre 2009

domenica 29 novembre 2009

Cattolici e politica

Molti cattolici insistono sul voto al centrodestra perchè su “certi valori” non si può scendere a compromessi. I valori in questione sono da oltre trent'anni sempre i soliti: la difesa della vita e della famiglia, e cioè lotta al loro contrario che si è imposto nella vita italiana attraverso due celebri referendum, quello sull'aborto e quello sul divorzio.
Non voglio qui soffermarmi sul fatto che entrambi questi “disvalori” siano ampiamente praticati anche da esponenti del centro destra, né provo ad approfondire le questioni visto che si potrebbe distinguere tra aborto e aborto, e tra divorzio e divorzio.
No, mi limito a segnalare come dal mio punto di vista il centro destra, che lascia fare alla sinistra certe battaglie spinose, tradisca altri valori non meno importanti per il rispetto della vita, della famiglia e del punto di vista cristiano.

Alcune questioni
Prendiamo lo scudo fiscale. Anche qui non entro in merito all'utilità di tale provvedimento: voglio solo darne un giudizio da un punto di vista cristiano. Se qualcuno ha accumulato all'estero dei capitali frutto di guadagni illeciti, per motivi anche gravi quali mafia, rapine, estorsioni... può impunemente far rientrare il tutto nel più completo anonimato, pagando semplicemente allo Stato un lasciapassare del 5% della somma? Non è questo un invito a fare altrettanto a chi stupidamente nello stesso periodo ha denunciato tutte le proprie entrate, facendo le cose alla luce del sole e pagando delle tasse che ormai da sole si portano via la metà del proprio incasso?
Pensiamo al condono edilizio. Va bene, abbiamo bisogno di soldi per ripianare i conti senza aumentare le tasse. Ma questi sistemi non sono forse palliativi che lì per lì danno una boccata di ossigeno alla casse dello Stato, ma poi vi si ritorcono contro per il messaggio che mandano ai cittadini (ruba oggi e ti metterai a posto domani)? Costruire case o pezzi di case senza un regolare permesso è un FURTO. Furto di spazio, di terreno, di sostenibilità ambientale. E il furto non può diventare legge, per un cattolico.
Pensiamo alle persone che ci rappresentano in Parlamento. Grillo urla “vaffanculo”, ma noi cristiani, oltre a scandalizzarci perchè certe parolacce non si dicono, non abbiamo proprio niente da dire sul fatto che 24 condannati in via definitiva siedono in parlamento?
Mi tolgo un altro sassolino: l'indulto che è stato approvato anche sull'onda dell'intervento di Giovanni Paolo II in Parlamento, non è qualcosa che dovrebbe farci ribellare? Non solo, come appena detto chi ruba e costruisce illecitamente non paga, ma anche chi già è in carcere esce! Ma allora perchè un ragazzino non deve provarci a derubare una vecchietta? Tanto, male che vada, in carcere non ci vai e se ritenti sicuramente sarai più fortunato. Ecco, non ho soluzioni alternative da proporre, e non è questo che mi interessa qui. Voglio solo dire che il cristiano, di fronte ad una politica che nega i problemi, deve dire qualcosa. Si, perchè svuotare le carceri non è una soluzione. Domani, di fronte ad un ospedale che non ha abbastanza letti che faranno? Diranno che i malati sono guariti?

Cattolici sempre all'opposizione
Si potrebbe continuare con altre questioni:
Come tacere, sempre da cristiani, sul progetto di costruire nei prossimi anni 100 nuove centrali atomiche in tutto il mondo?
Come giustificare una “missione di pace” in Afghanistan fatta con il fucile in mano?
Niente da dire sui termovalorizzatori? E sul decreto salva Rete4? E le leggi ad personam? E il pugno duro sugli immigrati? E la depenalizzazione del falso in bilancio? E la privatizzazione dell'acqua? Perchè per l'aborto e l'eutanasia veniamo richiamati ai valori cristiani e per queste cose no? Perchè il crocifisso nelle aule è una questione cattolica e queste cose no?
Con tutto questo non intendo fare propaganda per il centrosinistra. Anzi, il centrosinistra ha responsabilità ancora più gravi, ma per ora lasciamo stare. Voglio solo dire che di fronte a queste due opzioni, centro destra e centro sinistra, il cristiano, comunque scelga, sta scomodo. Non può astenersi e non può fidarsi di una parte. Nondimeno deve scegliere. Quello che voglio dire è che non possiamo permetterci più di fidarci, di delegare, né di condannare “dopo”, quando la frittata è fatta. Non lo possiamo in quanto cittadini e a maggior ragione in quanto cristiani. Ognuno, anziché parlare male della parte avversa, dovrebbe essere una forza di opposizione all'interno della coalizione che ha scelto, perché non esiste il voto perfetto, né il politico baciato dalla Provvidenza. Esistono idee perfettibili, coalizioni guidate da uomini che con il tempo possono sbagliare e corrompersi. E noi, che non siamo cattolici solo nel momento del voto ma sempre, non possiamo cadere nell'errore di giustificare i loro errori per giustificare il nostro voto.
Assistiamo da anni ad un balletto di corteggiamento delle parti politiche rivolto alle stanze del Vaticano che non è accettabile. Primo perché sembra che i cattolici siano pecorelle che seguono ancora ossequiosamente le indicazioni di voto del papa, cosa che non deve essere, e non è giusto che sia. Secondo perché la politica è di tutti e non può patteggiare con i valori religiosi: sono i cattolici che devono entrare nella politica, non la politica a patteggiare con qualche porporato!
Assistiamo ad un rispetto formale verso il cattolicesimo che non è corrisposto da un ascolto dei suoi valori fondanti. In questo clima, dove si gioca pericolosamente tra sostanza e apparenza, dove il mezzo televisivo non mostra più la realtà, ma la fa, i cattolici devono sentirsi interiormente divisi, devono dare spazio al dubbio e non cedere alla tentazione della certezza. Devono sentirsi opposizione, perché quando si abbassa la guardia subito chi governa approfitta della propria posizione.

Fare
Un ultima cosa. Penso che politica e religione siano due cose che devono rimanere separate, ma questo non può significare per i cattolici un disinteresse per la cosa pubblica. Oggi più che mai il cattolico deve fare politica. Ogni cattolico. E fare politica significa proprio “fare” nel proprio piccolo, una società migliore. Non possiamo lamentarci davanti alla tv, o al bar con gli amici della scuola, degli ospedali, dei clandestini, e non fare nulla. La bassezza morale delle nostre istituzioni ci chiama ad un impegno vasto, capillare, dal basso. Ci chiama ad entrare dentro, ad approfondire le questioni, a prendercele a cuore, perché lamentarsi davanti ad un telegiornale non basta e non serve a nessuno. Non è necessario sedere al Parlamento per fare politica, basta guardarsi attorno, seguire le vicende della propria città, dei propri servizi pubblici. Basta non fregarsene quando c'è una manifestazione, non voltare pagina quando ci capita davanti un articolo di approfondimento, non spegnere il cervello quando facciamo la spesa.

venerdì 30 ottobre 2009

Ma CHI me lo fa fare?

L'incontro quotidiano con l'immaturità mi pone domande sulla percezione che la maggior parte degli esseri umani ha di sè stesso, e se per "maturità" si può intendere qualcosa di oggettivo e verificabile.
Quando l'uomo è maturo? Possiamo definire un uomo maturo quando ha una fede incrollabile? O quando ha un buon lavoro, una famiglia numerosa o un matrimonio duraturo? No. L'uomo è maturo quando raggiunge la pace dei sensi, e per così dire riesce a controllare ogni impulso naturale, dalla fame, al sesso, alle emozioni più istintive? Anche qui la risposta è no. Tutto questo, in sé, non ci da la certezza dello spessore umano che vi sta dietro.
Un uomo è maturo, penso io, quando diventa capace di fare qualcosa per un altro senza ricevere, né sperare di ricevere, il minimo contraccambio. Un uomo è maturo quando lascia spazio ad angoli di gratuità.
Fare qualcosa per il bene dell'altro senza prevedere alcun guadagno per me è la cosa più straordinaria che la vita mi propone. E' la cosa più assurda, stravolgente, ma allo stesso tempo anche più quotidiana e vicina che mi possa accadere.
Tutto il resto non dipende da me, cade dall'alto, oppure fa parte dei miei doveri, della mia professione o più subdolamente della mia “morale”.
Fare qualcosa perchè lo chiede la morale significa restare al livello dei comandamenti, dove l'idea di fondo resta: “meglio tenerselo buono, quello lassù”. Fare, invece, qualcosa che non mi è richiesto, sfugge dalla sfera del “mi conviene”, e anche da quella del “devi”, per aprirmi alla domanda vera, che apre alla maturità e a mio parere anche al divino, e cioè: “ma CHI me lo fa fare?” Questa domanda che può avere solo una risposta egoistica nell'adolescente ancora troppo concentrato su di sé, mette al muro la persona che sa di poter fare qualcosa di più, oltre al dovuto. Mette al muro l'adulto che, raggiunto il proprio equilibrio, la propria posizione sociale, i propri obiettivi affettivi e professionali, tocca con mano, se è onesto, che tutto questo non gli basta.
Non sai Chi te lo fa fare, ma in attesa di saperlo, puoi iniziare a farlo. Anche poco, pochissimo, purchè completamente gratuito, senza che ti possa tornare indietro il minimo grazie, compenso economico o affettivo. Fallo e poi vedi come ti senti, come questa cosa ti fa sentire. Vedrai anche cose strane accadere attorno a te. Qualcuno che ne approfitta, qualcuno che fraintende, molti che si ribelleranno perchè esci dal branco e si sentono giudicati, pochi che verranno a dirti un inutile ma sincero grazie.
Paradossalmente è proprio quello il momento in cui ti si spalanca davanti agli occhi il rovescio della medaglia: “Qualcuno ha fatto per me una vita, una storia, per la quale non so come ricambiare, posso solo sussurrare un inutile GRAZIE”.
Nella mia vita incontro tanta immaturità, ma non mi scandalizzo: essa è tanto diffusa che ormai la ritengo normale, in fondo è anche dentro di me, la capisco e non la giudico. Ma che bello quando quasi per caso vedi dei lampi di gratuità, che non hanno spiegazione e però danno vita ai sorrisi e ai rapporti più belli.

sabato 17 ottobre 2009

Verità fragili


E' tutto così fragile. Il lavoro, gli amici, la donna che ami: non c'è nulla di definitivo, di certo, scontato, duraturo. E così è per tutte le cose, anche la salute, la sicurezza per strada, il tempo che farà tra dieci minuti.
E mentre tutto parla di fragilità noi cerchiamo qualcosa di solido, ostinatamente, contro ogni evidenza. Ripetiamo i comportamenti che funzionano una prima volta, pensando che funzioneranno ancora, ci fidiamo della nostra esperienza come se fosse l'unica e indiscutibile fonte di verità.
La vita invece procede in nome della precarietà, a seconda di quel che viene fuori dal cappello del destino, ove dentro, mescolati, stanno condizione sociale, ambiente, epoca storica, geni, educazione familiare.
Ogni qual volta qualcuno grida una soluzione definitiva scuoto la testa: che si tratti di religione, di politica o semplicemente del segreto della felicità. Scuoto la testa perchè tutto è fragile, e noi, come bambini, ancora a correre dietro alle favole.
Tutto questo rinvigorisce in me la sete di Dio. Non come ennesima verità definitiva, ma come verità che non finirò mai di scoprire, come Interlocutore che mi parla coi fatti e spesso travolge le mie certezze. In definitiva come Assoluto che mi fa sperare in qualcosa di bello e perfetto che qui si intravvede, talvolta, ma che non si riesce ad afferrare, a fermare e mettere in gabbia. La mia fede può godere di Dio, ma non può appropriarsene. Il credente resta debole, in balìa degli eventi. Ma è proprio questa debolezza il luogo dell'Incontro.

Un prete dal cuore laico

Non credo nelle aggressioni verbali o nelle accuse rabbiose, ma ci sono momenti in cui serve anche la denuncia. E sono molto felice di notare che nella mia chiesa c'è ancora qualche prete che parla come Farinella. Un prete dal cuore laico, come lui si definisce, che “non può essere prete senza essere Paolo”, e che in definitiva non dice chissà quali novità: denuncia gli scandali di una politica fine a sé stessa, in mano a uomini “corrotti, corruttori e clericali”, la necessità di una chiesa separata dallo stato, le intrusioni di CL e dell'Opus Dei nei rapporti tra chiesa e istituzioni, la religione che troppo spesso non è al servizio della fede, ma “l'uso prostituito che si fa di Dio”... Cose che sappiamo tutti, ma che mi colpiscono in quanto dette da un prete.
So che sono tanti i preti e ancor più i laici credenti a pensare queste cose, ma vi è un grande timore a dirle apertamente. Ci dicono che così dividiamo la chiesa, che in questo modo non siamo in comunione con il papa, che diamo scandalo: ma se il prezzo dell'unità deve essere la falsità, la rinuncia alla voce della propria coscienza, ne vale davvero la pena?

domenica 27 settembre 2009

Quando sono debole, è allora che sono forte.


No, non è molto logico quello che dice san Paolo, non sta in piedi. Se sei debole sei debole, punto.
Ma il Dio dei paradossi e si fa trovare quando meno te lo aspetti, dove meno lo cerchi. E' fatto così, in barba a tutta la nostra devozione, in barba a dottrine sicure e plurisecolari. Lo incontri quando decide Lui, e non c'è pozione né formula magica capace di stanarlo.
Se vi è un luogo al mondo dove possiamo essere certi di trovarvi Dio, quello può essere solo la debolezza.
Nessuno vuole essere debole. Il debole in natura muore. Aspiriamo al potere, anche piccolo, circoscritto, ma reale. Poter decidere, poter muovere la realtà, le scelte delle persone: questo ci fa sentire protagonisti, attivi, importanti, ci fa sentire un pochino Dio.
Ma a ben guardare... quando sei potente le persone non ti vedono più per quello che sei ma per il potere che rappresenti. Quando sei potente non sei più quello che provi, non hai più una interiorità, ciò che conta, anche per te, è solo ciò che si vede, il tuo portamento, le tue parole, le tue decisioni. Nessuno sa se vi è una corrispondenza con quanto pensi davvero, e dopo un po' non lo sai più neppure tu. Quando sei forte è la tua forza che conta, non tu, e alla forza ci si abitua, ci si consola, ci si allinea fino ad interpretare con le sue categorie tutte le cose. E quando la forza se ne va?
Mi è capitato negli ultimi anni almeno un paio di volte di passare da fasi in cui tutti ti cercano perchè ricopri un ruolo, al momento in cui il ruolo scompare e attorno a te ecco il nulla totale. Eppure io sono sempre io: ma prima sorrisi, complimenti, suppliche, poi nulla, e quando sei tu che chiami ecco il sospetto, la fretta, le scuse... Per me è stata un' esperienza importante perchè ho capito sulla mia pelle che quando tutti ti cercano non è detto che cerchino proprio “te”, e quando nessuno più ti cerca non è detto che tu non valga niente.
Ecco, quando sei debole, e da un punto di vista umano non sei più così tanto influente, quando rimani con te stesso, senza punti fermi d'appoggio, è lì che se non fuggi dalla cruda realtà si vede davvero chi sei. Se tu “tieni” o no.

Cristo non aiuta in forza della sua onnipotenza, ma in forza della sua debolezza, della sua sofferenza! Qui sta la differenza decisiva rispetto a qualsiasi religione. La religiosità umana rinvia l’uomo nella sua tribolazione alla potenza di Dio nel mondo, Dio è il Deus ex machina. La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio; solo il Dio sofferente può aiutare
Bonhoeffer


E' per questo che credo in Dio. Perchè non credo in nulla di tutto ciò che è finito, umano e tangibile, e allo stesso tempo ho bisogno di punti di appoggio robusti, che tengano bene tutto il peso del mio bisogno di felicità. Dio non lo vedo, ma solo Lui può vedermi in quei momenti, e se la storia di Gesù Cristo è vera, allora esiste davvero un aggancio robusto tra la nostra vita umana e ciò che non deperisce.
Quando sono debole, sono nelle Tue mani.

sabato 29 agosto 2009

Etica laica?

E' di pochi giorni fa l'articolo di Mancuso di cui riporto un passo centrale.
"Sono i nostri stessi giorni a rivelare che un umanesimo ateo si rivela alla lunga teoreticamente impossibile. Attenzione, non sto sostenendo che non vi siano atei dal comportamento eticamente cristallino; so bene che ce ne sono, io stesso ne conosco non pochi. Sto sostenendo piuttosto che persone così manifestano con la loro assolutezza etica un livello dell' essere che non è conforme con la loro negazione di un' assolutezza a livello ontologico. E quanto alla prospettiva specifica dell' umanesimo, io ritengo che sia possibile sostenere un primato dell' uomo all' interno della natura solo da una prospettiva spirituale, solo cioè da parte di chi riconosce lo spirito quale dimensione dell' essere non riducibile alla materia, perché è esattamente lo spirito ciò che fa dell' uomo qualcosa di diverso rispetto a tutti gli altri esseri viventi."

E' un argomento a me molto caro che fa da sfondo a molte delle mie pagine. 
Può un ateo, o un agnostico, avere un fondamento etico per il proprio agire? O meglio, come credenti, possiamo ammettere un fondamento etico per i non credenti? 
Non me lo chiedo per amore della filosofia o del puro ragionamento astratto. Me lo chiedo perchè la mia fede deve aprirmi gli occhi sulla realtà, non chiudermeli orientandoli solo verso il cielo. Io non vedo differenze sostanziali di comportamento, quindi etiche, tra credenti e non credenti. Tra gli uni e gli altri si trovano slanci di generosità pura, rispetto delle norme, ma anche falsità, egoismo, ipocrisia. Non posso negare, come credente, questa omogenea distribuzione del bene tra credenti e non credenti.
Ratzinger dice che l'agire morale deve necessariamente fare riferimento a Dio (vedi il recente intervento in cui si accosta il nichilismo al nazismo). Anche Mancuso dice di no, pur ammettendo che esistono atei virtuosi.
Io non ne sono del tutto convinto.
Ciò che più mi blocca sono le conseguenze del pensiero di Mancuso e ancor più del pontefice: la prima inevitabile conseguenza è quella di guardare il non credente dall'alto al basso.
La seconda è quella di non mettersi in discussione.
Terzo, la dimensione spirituale non è affatto in declino, moltissimi cercano spiritualità in gruppi esoterici, esercizi yoga, tecniche orientali... i più deboli purtroppo finiscono nelle sette. Ora se vogliamo vedere un pericolo per il mondo cattolico, io non mi fisserei tanto sui non credenti, perchè alla fine è molto difficile non credere in niente; farei invece attenzione a quel mondo di spiritualità che, con tutto il rispetto, dimentica la parte ecclesiale, comunionale della fede e trasforma il rapporto con il divino in una questione privata, intima, individualistica.
Questa spiritualità sta spopolando perchè nella chiesa non c'è. E la gente va a cercarla dove c'è.
Ma se qualcuno ha risposte più coerenti dica pure...

lunedì 10 agosto 2009

Rifondazione della fede


Considero Vito Mancuso uno dei teologi più interessanti del nostro tempo. Ho già avuto occasione di parlarne in una lunga lettera che ho pubblicato su questo blog, commentando il suo testo “L'anima ed il suo destino”. Torno ora su quegli stessi temi dopo aver letto la nuova edizione di “Rifondazione della fede”, testo che come spesso accade ha fatto discutere più per la presunzione del titolo che per gli effettivi contenuti.
Perchè impelagarmi in questioni piuttosto difficili, sofisticate, che presuppongono una base filosofica buona, quando restando terra terra ci sarebbero tanti argomenti su cui ragionare in modo più diretto e semplice su chiesa, vaticano e coerenza cristiana?
Mi pongo questa domanda perchè so che articoli lunghi che faticosamente arrivano ad una conclusione non piacciono a nessuno. D'altra parte credo che scrivere e leggere serve per fare un passo avanti, non per confermarci in quanto già sappiamo. Scrivere per scrivere, per attirare più gente, con effetti speciali e un linguaggio spregiudicato, non mi interessa. Quando non sei pagato sei veramente libero di scrivere quello che ti pare, ed io ho scelto in questo ambito di non inseguire il numero o il consenso, ma solo la coerenza con me stesso e con le mie domande.
Quando Mancuso parla di rifondare la fede fa lo sforzo di andare al di là delle solite critiche alla chiesa, si solleva da un piano puramente orizzontale, per andare ad intaccare le fondamenta, l'impianto teologico e dogmatico da cui la chiesa attinge le proprie linee guida.
Mancuso attualmente è uno dei pochi teologi che critica la chiesa per il bene della chiesa, con la passione di chi vuole cambiarla dall'interno, proponendo in modo costruttivo (e questo davvero pochi lo fanno) una alternativa possibile. E', in fondo, lo stesso spirito che anima questo blog.

Perchè credere?
La questione potrebbe essere così espressa: come mettere insieme le verità della fede con quelle della scienza? Come conciliare i dogmi cattolici con le poche certezze che la ragione ha raggiunto a proposito del mondo, della natura, dell'universo?
Il papa attuale non ha dubbi: elogia in continuazione la ragione, quale via privilegiata per giungere a Dio. E del resto lo stesso Concilio Vaticano I si era già espresso in modo definitivo su questo. Qualche problema rimane sul metodo, perchè a fianco di questo martellante elogio della ragione, non si tirano le dovute conseguenze come invece Mancuso tenta di fare con tanta cura e senza timore di andare a mettere in discussione anche verità di fede mal poste o nei secoli mal interpretate.
Vediamo allora come procede.
Come suo stile non parte dall'alto, non pratica un ragionamento discendente, da Dio verso noi, (come continuano a fare i documenti del magistero) ma al contrario parte dal basso, dalla realtà che vede, e di lì sale, come in una ferrata di montagna, utilizzando alcuni agganci offerti dalla fede e criticandone altri inutili per l'uomo concreto.
La domanda di partenza è sul senso e il fondamento della fede. “Perchè credere?”, un cristiano può e deve chiederselo senza timore, perchè la ragione ci dice che dobbiamo sempre cercare una spiegazione e spesso purtroppo la fede nasce dalla paura di vedere le cose come sono. Dobbiamo chiederci perchè crediamo, a che bisogno va in soccorso il nostro credere, se ci rende più obbedienti o più liberi. Vi è infatti una fede fondata sull'obbedienza ed un'altra fondata sulla libertà.
La fede originata dall'obbedienza è rassicurante e non aiuta l'uomo a crescere, ma solo a delegare ad altri il compito di pensare. La fede che nasce dalla spinta verso il bene che l'uomo ritrova in sé, comporta un cammino di ricerca e liberazione interiore.
Al fondo del suo ragionamento sta l'idea che il BENE, la volontà del bene “è l'unica ragione per aderire alla fede”. Altre ragioni sono fuorvianti e portano a conclusioni disumane. “La vera questione dei nostri giorni non è l'esistenza del male, ma l'esistenza del bene”. Del male nessuno dubita: E' sotto gli occhi di tutti. Su cosa sia il bene siamo meno d'accordo, ed è su questo che una religione gioca la propria identità. Il bene è il concetto chiave di Mancuso. Non va pensato in modo semplicistico come forza contrapposta al male alla quale aderire dopo aver ben riflettuto da una posizione equidistante. Il bene è una forza, una legge, che sta oltre la natura, più forte delle leggi di natura. E' una forza trascendente della quale solo l'uomo sente il richiamo, e tra gli uomini solo coloro che hanno la possibilità di maturare una propria libera autocoscienza, dopo aver rispettato quei bisogni di base (nutrimento, sonno, affetto...) che la natura detta per tutte le creature viventi.
Il bene, non Dio, è scritto nel cuore dell'uomo: Dio è davvero il Dio cristiano solo se vuole il bene dell'uomo.
La legge della natura, si afferma nel capitolo intitolato “Il mondo”, non è in sé bene o male, è spinta all'autoaffermazione, ed è chiaro che rispondendo a logiche di forza governa tutto ciò che avviene in natura come una lotta, una selezione naturale, dove per forza appunto, la vita mia significa la morte tua e viceversa. Dagli atomi alle galassie, fino ad arrivare alle emozioni degli uomini. Ma la natura è fatta in modo da svilupparsi e organizzarsi in modo sempre più complesso. Sempre più la materia si trasforma in energia, e l'apice di questo processo è l'uomo stesso, che per la prima volta nella storia dell'universo è capace di pensare e fare il bene, cioè qualcosa che addirittura và contro le leggi di natura.
Prima di affrontare nello specifico la forza opposta ed irrinunciabile del bene, l'autore si sofferma su un elemento dottrinale che nel cattolicesimo pone un impedimento alla retta comprensione del cammino dell'uomo verso il bene. E' il dogma del peccato originale.

Il peccato originale
E' un argomento già affrontato nel libro sull'anima, sul quale Mancuso torna, e a ragione, considerandolo l'equivoco degli equivoci, l'errore di partenza da cui ripartire per tentare appunto di rifondare la fede cattolica. Anch'io mi sono soffermato su questo argomento (cfr post del 17 maggio 2008).
Il peccato originale, impone al cattolico una visione negativa della vita, macchiata ancor prima dell'uso della ragione di una colpa che viene trasmessa per generazione dagli albori dell'umanità, e di cui ci si può liberare solo tramite il battesimo. Mancuso torna a contestare l'interpretazione cattolica di Genesi 3 che sta alla base di tale dogma. Il brano biblico della caduta dei progenitori sarebbe stato letto alla luce del Cristianesimo ed in particolare per giustificare la morte in croce di Gesù. Da ciò se ne è dedotto l'atto di disobbedienza di Adamo ed Eva come peccato che solo la croce del Figlio di Dio poteva risanare (Romani 5,12-21) ed il serpente come Satana: conclusioni però, non ratificate nelle interpretazioni che l'Antico Testamento fa di sé stesso. Conclusioni colpevolizzanti per l'uomo dalla nascita, che lo mettono di fronte al battesimo come ad una pezza inventata all'ultimo momento perchè ogni nato non andasse dritto dritto nelle fauci del demonio, una specie di antidio, o Dio del Male, uguale e contrario al Dio buono.
Mancuso dice che, stando alle interpretazioni mitologiche dell'epoca, il serpente è la vita così come è, con le sue contraddizioni e fatiche, e la “caduta” non va slegata dal contesto biblico della creazione. Secondo una corretta esegesi, Creazione e Caduta sono un tutt'uno, nel senso che l'uomo è così, e lo è da sempre, e non ha colpa di essere fatto così e di essere dominato dalle leggi della natura e della forza. Cristo certamente interviene in tutto questo, dando con la croce all'uomo la possibilità di seguire una legge ancor più forte (ed opposta) alla legge di natura: la legge dell'amore, del dono, del bene dell'altro. Ma questo non deve portarci a concludere che l'uomo nasca con una colpa da redimere, quanto piuttosto con un cammino da fare, con una maturazione da compiere. Il dogma del peccato originale non va distrutto, dice Mancuso, ma rifondato. Lui preferisce chiamarlo “peccato del mondo”, come fa l'evangelista Giovanni (Gv 1,29) “che non ha nulla a che fare con il peccato di un singolo uomo storicamente accaduto, ma che è la condizione dell'essere, la necessità sotto cui si nasce”. Poco prima “L'errore della concezione teologica tradizionale sul peccato originale sta nel chiamarlo peccato. Non abbiamo nessun peccato, non abbiamo nessuna colpa che preesiste sulle nostre vite indipendentemente da noi. E' la vita che è fatta così” (cfr L'anima …, par. 61).
Se tutti nasciamo bisognosi di una madre, non significa che abbiamo una colpa nei confronti di quella madre. Il fatto che ci partorisce non è un gesto di allontanamento e inimicizia, ma di faticosa maturazione. Così è con Dio: abbiamo bisogno di Lui, ma questo non deve portarci a credere che vi sia una colpa, una Lite primordiale che rende Dio contrariato verso ogni essere umano già alla sua nascita, addirittura a causa della sua nascita.

Il bene
Il peccato originale inteso come peccato del singolo al suo concepimento significa immediatamente l'intervento divino tramite il battesimo per riparare al danno dei progenitori.
Questa interpretazione nasce dal bisogno di giustificare la morte in croce di Gesù. E' sotto questa luce che i primi cristiani rileggono il racconto della creazione e fanno l'errore di disgiungere la creazione dalla caduta.
Da qui ne esce un'idea distorta di bene. “L'errore di quella teologia consisteva nel porre il bene non come originario e assoluto, ma come sottoposto all'autorità, prima di Dio, poi della Sacra Scritura, infine della chiesa quale interprete ufficiale” (cfr Rifondazione della fede, par. 49)
Il bene, invece, secondo Mancuso è originario e assoluto.
Liberiamo la mente dai luoghi comuni, cioè da quelle affermazioni che ci sviano da una retta comprensione del bene:
1.devi fare il bene perchè sarai più felice (eudemonismo)
2.devi fare il bene perchè così vuole Dio (posizione teologica)
3.devi fare il bene perchè così vuole la struttura del mondo (via ontologica o metafisica)
Si tratta di argomenti che non funzionano più” e che non corrispondono alla realtà, dice l'autore. Non funzionano più perchè sono motivazioni esteriori: “l'unica motivazione (che tiene) è di tipo interiore, concerne il nostro intimo, e dice che il bene è meglio del male perchè noi siamo fatti per il bene”. Il bene non necessariamente mi porta più felicità, anzi... ma ugualmente mi chiama a sè. Non necessariamente mi porta ad approvare ed obbedire a tutto ciò che Dio chiede (o mi dicono che Lui chiede). Non necessariamente la natura è così razionale da risultare normativa anche per la nostra morale.
La vita dell'uomo deve essere letta come “antinomia”, cioè scontro inconciliabile tra due leggi. La legge della forza, come abbiamo detto, che governa la natura, e la legge della libertà della quale la natura è diventata capace quando è arrivata all'uomo: “solo se l'uomo si pone in ascolto di qualcosa al di fuori di sé, solo se obbedisce al richiamo di qualcosa di più alto rinunciando al suo appetito naturale, la sua libertà si compie”. La legge della libertà viene detta anche come “terza intelligenza”, una facoltà spirituale diversa dai sensi e dal pensiero razionale, che non fa a meno ma indirizza le prime due. Più in profondità ecco parlare di anima: “E' l'origine divina dell'anima dell'uomo... che può fondare l'azione che sceglie liberamente il bene”.
Ma attenzione, quest'anima di origine divina “non viene pensata da me come una sostanza separata rispetto alla dimensione materiale del corpo, una sostanza di altra origine che giunge direttamente da Dio nel preciso istante in cui la nuova vita umana viene concepita, come la dottrina cattolica ancora oggi invita a fare” (Compendio CCC art. 70). Così spiegava Mancuso nel libro precedente (L'anima ed il suo destino” par. 18). Quando si parla di anima, piuttosto, va intesa come qualcosa “che viene dal basso”, un “surplus” di energia che a vari livelli deriva dalla materia, un surplus che ha portato dapprima alle piante, poi ha fatto il salto verso gli animali, poi alla mente ed ultimamente allo spirito. “Certo che l'anima è creata da Dio, ma allo stesso modo del corpo e di ogni altro oggetto del mondo, cioè indirettamente... se si vuole evitare il pericoloso e insostenibile dualismo tra materia e spirito, si deve pensare la sua origine proprio così” (L'anima ed …, paragrafo 33).
Qui il Vaticano si straccerebbe le vesti. Si nega infatti l'intervento diretto divino che ad ogni concepimento umano crea direttamente l'anima spirituale del nascituro (Pio XII, DH 3896, e CCC 366). Per Mancuso la posizione cattolica crea dualismo, divisione tra corpo e anima, e richiede un continuo intervento miracoloso, appunto ad ogni concepimento. Questo continuo richiamo all'intervento miracoloso di Dio non è sostenibile a fronte di una scienza che ormai spiega l'evoluzione della vita come un processo lento e progressivo, senza salti improvvisi o inspiegabili. Lui invece parla dell'anima come di una maturazione che compie sia il mondo verso creature sempre più capaci di fare il salto della spiritualità, e sia il singolo uomo, che crescendo e maturando si apre progressivamente al richiamo del bene.

Il bene e il male
A proposito di dualismo scopro con piacere che per altre vie ero giunto a conclusioni simili in un post precedente (“Il bene ed il male”, del 19 febbraio 2009) dove sostenevo l'inconsistenza del male, e quanto fosse fuorviante contrapporlo, quasi ad armi pari al bene. Il bene esposto da Mancuso non si contrappone al male, ma alla “forza”, cioè alla legge naturale che non conosce bene o male, ma solo autoaffermazione, per cui ciò che è bene per me è male per te, e viceversa. “Il bene puro non ha a che fare con la natura” (Rifondazione della Fede, par 63). Finchè un essere animato non è stato capace di bene, non ha potuto nemmeno pensare il male. Prima dell'uomo e della aspirazione spirituale al bene vi era solo la forza della natura, non il male. Nel momento invece in cui diventiamo capaci e coscienti del bene, allora scegliegliere di rimanere al livello della forza, è male. Il male, quindi è rinuncia positiva al bene. "Il male nasce quando si vede il bene, si sente il suo richiamo, e lo si rifiuta, anzi lo si utilizza per sè. Il male è sempre un tradimento del bene e della grazia che ne ha generato il richiamo. Il male è sempre spirituale (...) Il bene è originario, il male è parassitario. Non si tratta di due realtà contrapposte, di due principi sullo stesso piano; il male lo si potrebbe chiamare il ritorno allo stato naturale dopo aver visto il bene" (Rifondazione... par. 79).
Il bene di Mancuso è in fin dei conti Dio stesso. O meglio, il bene conduce inevitabilmente a Dio, e solo il bene può condurre a Dio. Dio non può che chiedere il bene dell'uomo, e spingere al bene, e chi segue il bene puro, inteso come rinuncia a sé per l'altro, segue Dio. Questa ascesa verso il bene è il cammino di santità, è ciò che ci rende cristiani a prescindere dal fatto che a parole accettiamo o no la religione cristiana.
Sono affermazioni cariche di conseguenze se pensiamo ad una formazione cristiana più volta ad avere fede, ad accettare certe prassi rituali (la tanto invocata "pastorale ordinaria")come via principale per la salvezza, piuttosto che la pratica del bene. Una prospettiva parte dall'alto: se credi in Dio sarai nel giusto, farai il bene. L'altra dal basso: fa il bene e scoprirai Dio. I sostenitori della prima rischiano di nominare il nome di Dio invano, anzi di usarlo per giustificare vere e proprie nefandezze, perchè “Dio lo vuole” e accusano i secondi di gnosticismo e mancanza di punti fermi. I sostenitori della seconda rischiano di non arrivare a Dio, di fare a meno di Lui almeno a livello verbale/ razionale: ma senza rischio che gusto c'è?
Dunque vi è una antinomia che caratterizza le due leggi fondamentali dell'universo, quella presente a livello gravitazionale, atomico, biologico, dettata dalla forza e quella tipica dell'uomo, dettata invece dalla ricerca del bene disinteressato.

Passaggi dalla materia all'energia
Mancuso a mio parere non spiega bene il perchè in natura ad un certo punto si presenti l'esigenza di superare le proprie stesse leggi, però illustra in modo convincente come la materia si sia organizzata nel tempo arrivando periodicamente a produrre un surplus in energia (ed Einstein ha dimostrato il collegamento diretto tra materia ed energia) che ha comportato dei passaggi ontologici della materia (Mancuso le chiama “discontinuità”). Ne intravvede almeno quattro,
- il passaggio dal puntino cosmologico iniziale alla vastità dell'universo tramite il big bang
- il passaggio dalla materia inanimata alla vita
- il passaggio dalla vita all'intelligenza
- il passaggio dall'intelligenza alla morale e alla spiritualità
(cfr L'anima ed il suo destino, par. 43)

Sono passaggi per i quali si può invocare ogni volta l'intervento diretto di Dio, come fa una certa teologia. Oppure si può pensare, come fa Mancuso rispettando le incertezze e le certezze della scienza, che Dio abbia scritto già tutto nell'atto creativo e che la natura compia questi passaggi perchè... è nella sua natura. “...è l'energia stessa a contenere, nella sua capacità di produrre legami, una tendenza intrinseca all'organizzazione e alla stabilità
Questo significa per l'uomo, in definitiva, ritrovare in sè il richiamo al bene. Un richiamo che va coltivato, allenato, e che se non ascoltato può portare anche a compiere nefandezze, male, cosa che non era possibile senza l'idea del bene. Un richiamo che non può appoggiarsi a miracoli o interventi diretti di Dio, ma solo alla propria capacità di liberarsi di sé e superarsi volgendosi al bisogno dell'altro. “A chi intende conciliare l'amore per il cielo con l'amore per la terra non servono né interessano i miracoli: non parliamo neppure di apparizioni, messaggi segreti, statuette che piangono, case che volano, ecc. Questa mentalità del miracolo (e dello straordinario) fa molto male all'autentica spiritualità, e rende inevitabile che forti intelletti come quello di Nietzsche, e di molti altri prima e dopo di lui, abbiano sentito la necessità di proclamare la morte di Dio per far vivere l'uomo” (cfr L'anima ed il suo destino, par. 43)

Si tratta solo di appunti, credo però in conclusione che vi sia del buono nella prospettiva di Mancuso e magari grazie al mio interesse altri lo andranno a leggere.
Non mi è tutto chiaro, ma la sensazione finale è di aver letto qualcosa di nuovo.
Finalmente uno che và al di là dei luoghi comuni e che prova a pensare senza dover scegliere tra fede e ragione.
Finalmente un tentativo di andare all'origine dei problemi che attanagliano la chiesa.
Finalmente uno che rischia la propria faccia dicendo qualcosa di nuovo, criticabile di certo, ma nuovo. Non con la pretesa di affondare la teologia, la storia o la chiesa stessa, ma con il desiderio di fare un passo avanti tenendo in una mano il vangelo e nell'altra quel poco che sappiamo del nostro universo.

giovedì 11 giugno 2009

APPELLO


In seguito alla chiusura del sito donne-cosi.org e del relativo blog faccio un appello a quanti e quante volessero dare vita ad una esperienza simile, a mandarmi proposte, candidature, idee.
Quanto è stato realizzato da Ausilia in questi anni è prezioso e non sostituibile, e quello che eventualmente può nascere ora è qualcosa che si ispira alle sue intuizioni di fondo, ma che di certo diventerà anche qualcosa di diverso. Io ho collaborato strettamente con lei e mi rendo disponibile a continuare, ma non da solo.
Le idee di fondo che vorrei continuare a sostenere sono
Da un punto di vista teorico: cercare fondamenta per una spiritualità laica, non clericale, nelle sue specifiche caratteristiche maschili e femminili.
Da un punto di vista pratico: continuare l'aiuto personalizzato e in rete verso donne che vivono una relazione segreta con preti, mogli di ex preti in difficoltà, religiose o ex religiose in difficoltà, preti in crisi, ex preti abbandonati a sè stessi.
Ovviamente per fare questo ho bisogno di un valido sostegno da parte di uomini e soprattutto donne preparate e disponibili.
Per ora direi che intendo impostare il lavoro in particolare su un tipo di dibattito che punta ad approfondire articoli di un certo rilievo, nonché passi biblici e libri da noi consigliati.
Non che io abbia le idee così chiare, ma sicuramente l'esperienza di coordinamento a fianco di Ausilia è stata per me molo preziosa e vorrei non venisse sciupata, tanto più che vi è un gran bisogno di questo tipo di aiuto che pochi sanno dare senza cadere negli eccessi di chi sentenzia a priori contro la chiesa o a suo favore.
Questo blog potrebbe essere trasformato nella sede stabile per il nuovo progetto, ma se dovessero arrivare finanziamenti e disponibilità di webmaster si potrebbe pensare anche a qualcosa di più professionale.

giovedì 14 maggio 2009

Signore, dove sei?


Ti ho cercato in seminario,
ti ho cercato nel sacerdozio.
Nella preghiera, nella carità, nell'essenzialità.
Mi sono fidato dei maestri che ho incontrato.

Ho portato la tua Parola,
sono stato convinto e convincente,
e ho insistito perchè altri facessero come me.

Ti ho cercato nella musica,
musica sacra, musica per bambini, musica per giovani.
Ho suonato e cantato
per trovarti, per dire agli altri dove ti trovi.

Ti ho cercato tra le stelle,
ho passato notti a guardare le costellazioni,
e studiarne i miti che le hanno dato il nome
Ho goduto per le fasi di Venere, i satelliti di Giove, gli anelli di Saturno.
Ho comprato un telescopio, riviste e carte stellari
sono rimasto incantato a guardare galassie, ammassi, nebulose.

Mi sono poi messo a studiare,
libri ufficiali ed eretici nella mia casa,
cattolici e protestanti, atei e credenti,
romanzieri e saggi, antichi e moderni.

Ho letto i vangeli più volte,
ho chiesto ad altri di dirmi cosa loro avevano capito,
ho girato per librerie, biblioteche, università, sul web.

Ho ripreso in mano il breviario, sono tornato in chiesa,
mi sono rimesso in ginocchio.
Ho guardato da vicino miracoli e miracolati,
sforzandomi di non essere prevenuto.

Ho lavorato. Ho avuto la fortuna di incontrare persone bisognose.
Ho visto cose rivoltanti, persone odiose,
storie incredibili, dolori che portano alla pazzia.

Ho fatto sport. Prima giocando a calcio, ora sui pedali della bici.
Ho apprezzato la fatica fisica, la sfida con i miei limiti,
la salita contro il sole, la discesa nella pioggia.

Ho amato. Ho legato il mio cuore ad una donna,
ho lasciato da parte le teorie sull'amore,
ed ho provato ad amare completamente.

Ho fatto tutto questo, Signore, senza pause.
Non l'ho fatto per gli altri, non l'ho fatto neppure per Te.
L'ho fatto per me, perchè io sono la mia domanda.
L'ho fatto per non lasciare nulla di intentato,
per cercarti ovunque, nella speranza di trovarti, finalmente.

Signore, dove sei?
Io non ti ho trovato.
Vedo le tue orme, la tua ombra,
"le tue spalle", come dice Mosè:
ma non mi basta, io ho bisogno di vedere Te.
E mentre qui si continua a nominare invano il tuo Nome,
a creare barriere nel tuo Nome,
partiti, confini, verità, nel tuo Nome,
io provo smarrimento e mi sento solo:
Che cosa vuoi da me? Che cosa mi stai dicendo?

Non sono triste e non dispero,
nelle mie domande non c'è paura.
C'è incertezza, ignoranza, ma anche fiducia.

mercoledì 8 aprile 2009

La revoca delle scomuniche



(trascrizione del video)

Vorrei proporre una riflessione riguardo alla recente revoca della scomunica compiuta dal pontefice Giovanni Paolo II nei confronti dei quattro vescovi ordinati da mons. Lebfevre nell'88; revoca recente ad opera di Benedetto XVI.
I testi a cui farò riferimento sono la lettera apostolica “Ecclesia Dei” di Giovanni Paolo II, poi la revoca di tale scomunica operata recentemente, il 21 gennaio 2009 da Benedetto XVI ed infine la lettera, sempre dell'attuale pontefice, datata 12 marzo, in cui, in seguito alle reazioni che ci sono state dentro e fuori la chiesa spiega perchè è arrivato a questa decisione.

La scomunica
Cominciamo con la Ecclesia Dei pubblicata il 2 luglio 1988, due giorni dopo l'ordinazione dei quattro vescovi da parte di Lebfevre, definita dal Vaticano valida, ma illecita. Il pontefice motiva la scomunica dicendo che in sé stessa tale ordinazione è “un atto di disobbedienza al romano pontefice in materia gravissima e di capitale importanza per l'unità della chiesa, quale è l'ordinazione dei vescovi”. Questa ordinazione “porta con sé un rifiuto pratico del primato romano” e “costituisce un atto scismatico”. Sempre nella stessa lettera il papa invita tutta la chiesa a non sostenere in alcun modo il movimento che fa riferimento a Lebfevre e anzi istituisce una commissione che ha proprio lo scopo di aiutare tutte le persone indecise, a metà strada tra il movimento di Lebfevre e l'obbedienza a Roma. La creazione di questa commissione è un segnale importante perchè in sé stessa ci indica che il Vaticano intende dialogare con il mondo dei lebfevriani, ma non con Lebfevre ed i quattro neo ordinati. Loro sono scomunicati, con la loro ordinazione hanno compiuto un atto scismatico, mentre il mondo dei loro “simpatizzanti” è un mondo ancora recuperabile.
Io nell'88 avevo 22 anni e mi ricordo che il Vaticano spiegò fino alla noia come questa scomunica non dipendesse da loro, come la scomunica fosse avvenuta in modo automatico nel momento stesso in cui Lebfevre aveva proceduto a quella ordinazione episcopale senza permesso. Nel momento in cui uno disobbedisce alle regole di una società si mette da solo fuori da essa, e questo stava facendo il vescovo francese già sospeso a divinis nel '76 per ordinazioni sacerdotali altrettanto illecite.

La revoca
Questo tipo di spiegazione mi torna alla mente soprattutto ora che leggo il secondo documento che vado a presentare, appunto il decreto di revoca della scomunica. In questo documento si dice testualmente “sua Santità Benedetto XVI paternamente sensibile al disagio spirituale manifestato dagli interessati a causa della sanzione di scomunica... ha deciso di riconsiderare la situazione canonica dei vescovi Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Galarreta sorta con la loro consacrazione episcopale”. Più sotto viene detto che “Questo dono di pace … vuol essere anche un segno per promuovere l'unità nella carità della Chiesa universale e arrivare a togliere lo scandalo della divisione”.
Ecco, qui io faccio un po' fatica a mettere insieme questi due documenti. Nel primo sembra che la scomunica sia una sanzione automatica, che avviene per un atto di disobbedienza. Da ciò deduco che potrà venire sanato solo da un relativo atto di obbedienza. Se io disobbedisco e mi metto fuori, solo nel momento in cui chiedo scusa posso sperare di fare ritorno, invece nel decreto di revoca vediamo che il papa successivo a quello che aveva decretato la scomunica decide che quell'atto scismatico non merita il proseguimento di tale sanzione e ben più utile ora è tentare la via dell' “unità nella carità” cercando una conciliazione basata sul perdono.
Non si può non notare alcuni nodi problematici. I quattro vescovi in vent'anni non hanno mai chiesto perdono di nulla e anzi hanno confermato le loro posizioni originarie in piena polemica con alcuni documenti del Concilio Vaticano II e con tutti i papi successivi a Pio XII. Benedetto XVI adotta la via del perdono facendo indirettamente passare per “cattivo” Giovanni Paolo II che invece a suo tempo le provò veramente tutte e appunto giustificò quella scomunica come una cosa decisa in ultima istanza dallo stesso Lebfevre. Lo “scandalo della divisione” investe la chiesa da ormai un millennio: ben più grave infatti è la divisione con ortodossi e protestanti verso i quali il Concilio aveva chiesto passi di avvicinamento. L'avvicinamento invece sembra più urgente verso chi l'ecumenismo lo vede come la sabbia negli occhi. Comunque.

La spiegazione
Passiamo al terzo documento e cioè alla lettera di Benedetto XVI di chiarimento riguardo la remissione della scomunica, datata 12 marzo, motivata dalla grande risonanza di tale revoca di scomunica, in particolare in seguito alla notizia che uno dei quattro vescovi lebfevriani, mons. Williamson, aveva poco prima rilasciato dichiarazioni negazioniste riguardo l'olocausto degli ebrei. Nei motivi che Benedetto XVI porta per spiegare il suo gesto vi è la constatazione che “a vent'anni dalle ordinazioni questo obbiettivo (richiamarli all'ordine) purtroppo non è stato raggiunto”. Aggiunge “la remissione della scomunica ha lo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro vescovi ancora una volta al ritorno”. In altre parole, prima li abbiamo scomunicati per vedere se questa esclusione dalla chiesa li avrebbe aiutati a ravvedersi e adesso li riammettiamo alla comunione della chiesa con una decisione unilaterale, senza che questi quattro abbiano fatto niente per meritare la riammissione, con lo stesso scopo per cui prima li avevamo scomunicati, cioè cercare una strada per ricomporre l'unità. Andando avanti incontriamo affermazioni ancor più sorprendenti: “dobbiamo avere a cuore l'unità dei credenti... la loro discordia infatti, la loro contrapposizione interna, mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio”.
Io avverto qui un tono diverso da quello usato da Giovanni Paolo II vent'anni prima. Prima si sosteneva che con l'atto dell'ordinazione i vescovi si mettevano praticamente fuori da soli, qui invece si tira in ballo la “cura per l'unità dei credenti”, la cura per la credibilità della chiesa più che della soluzione formale di alcune questioni interne. Non è finita qua, infatti più avanti dice “pensiamo ad esempio ai 491 sacerdoti (tanti sono attualmente i preti lebfevriani) non possiamo conoscere l'intreccio delle loro motivazioni, penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se ACCANTO A DIVERSI ELEMENTI DISTORTI E MALATI non ci fosse stato l'amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente”. Quel “accanto a diversi elementi distorti e malati” è nuovo nel linguaggio del magistero che mostra un'apertura e una capacità di soprassedere agli errori insperata. Non è più possibile buttare il bambino con l'acqua sporca.

A me piace molto questo modo di ragionare di papa Benedetto, però vorrei che fosse coerente nell'usarlo non soltanto verso i vescovi lebfevriani ma anche verso tutte quelle realtà che invece al momento continuano ad essere piuttosto castigate dalle autorità della chiesa cattolica.
Immaginiamo che cosa succederebbe se questo stesso criterio venisse usato per interpretare le proibizioni elencate nella Humanae Vitae. Dai rapporti prematrimoniali ai metodi contraccettivi come il preservativo. Un mondo in cui sicuramente molti cattolici faticano a seguire i divieti calati dall'alto, ma non per questo non vivono l'amore con spirito autenticamente cristiano. Pensiamo alla pastorale per i divorziati risposati e al relativo divieto di accostarsi all'eucarestia, pensiamo a tutti quei teologi che negli ultimi trent'anni sono stati colpiti da sospensione a divinis, interdizione, divieto di insegnamento in scuole cattoliche per aver provato a dire cose un po' nuove, un po' azzardate, al limite dell'ortodossia, che comunque hanno il pregio di aprire una discussione, un approfondimento, domande nuove. Pensiamo se questo tipo di lungimiranza, benevolenza, compassione... fosse stata usata nei confronti di Piergiorgio Welby, o verso il padre di Eluana, e ancora, perchè non usare lo stesso metro di giudizio nei confronti di mons. Milingo, del quale io non sono affatto un sostenitore, ma che nel 2006, quindi in tempi recenti, è stato colpito da scomunica latae sententiae allo stesso modo di Lebfevre per aver ordinato dei vescovi in modo illecito, senza il permesso di roma. Nel suo caso si tratta di una battaglia all'avanguardia, per superare il celibato obbligatorio, ha infatti ordinato vescovi dei preti sposati. E' una questione che si può discutere finchè si vuole, ma nel caso di Lebfevre non siamo messi molto meglio, con un atto simile di disobbedienza al sommo pontefice, e un giudizio perlomeno polemico nei confronti del Concilio Vaticano II. L'impressione finale è sinceramente che si usino due pesi e due misure.

Vorrei concludere citando ancora una volta Benedetto XVI nella sua lettera di spiegazione della revoca, che se fosse preso sul serio a partire da chi l'ha pronunciato sarebbe un testo davvero rivoluzionario: “non dovrebbe la grande chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede?... Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell'ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura?” Io penso che queste parole ci possano condurre a fare un passo in avanti importante. Spero che non siano parole di circostanza, come invece purtroppo mi sembra di comprendere, usate soltanto nel caso dei lebfevriani.

sabato 21 marzo 2009

Quale formazione per il celibato?


Leggendo numerose storie di relazioni clandestine in cui sono coinvolti preti, spesso si finisce per incriminare il celibato come causa di tutti i mali, nemico dell’amore e del vangelo. Queste storie, perlopiù raccontate dalla parte femminile, sembrano cercare un colpevole, un nemico da definire e colpire senza pietà, e la cosa è comprensibile, perché quando si è dentro a situazioni stagnanti, immersi in un conflitto senza via d’uscita, senza neppure la possibilità di poterlo dire, è chiaro che con qualcuno o qualcosa bisogna prendersela.
Altrettanto ragionevole però penso sia il tentativo di andare un pochino oltre, da parte di chi non si trova nel centro del ciclone e vuole però andare oltre al livello emozionale di chi è troppo coinvolto.
Ed è per questo che propongo questa riflessione.

Conoscere la realtà
I preti vengono formati a “stare attenti” alle donne, alla tentazione, ecc... Non vengono però formati a conoscere i meccanismi psicologici che sottostanno all’avvicinamento tra un uomo ed una donna. Li vediamo spesso che aiutano, ascoltano, accolgono evangelicamente le pecorelle che spinte da sante intenzioni li cercano, ma non si rendono conto che la loro persona passa molto di più dei loro contenuti e delle loro parole. Sono così addestrati alla dimensione verbale dell’annuncio, al “dire” la verità che non conoscono affatto la comunicazione non verbale, che invece è molto più efficace e veritiera di quella verbale.
Pensano che la gente che va in chiesa ci vada perchè cerca Dio. Ma mica è facile incontrare Dio, molto più facile incontrare un prete ...che parla di Dio, ma intanto lì con te c'è lui, il prete. Questi preti sono così candidi ed innocenti nei loro intenti! Sono così buoni e disponibili a "dare a tutti una parola buona" e non sono per niente furbi da capire che tante volte si usano Dio, la bibbia, i sacramenti, per cercare qualcos'altro. Affetto, per esempio. Essere apprezzati, considerati, …visti.
Una donna che passa un brutto momento come madre, come figlia, come moglie e si sente sfruttata e scontata come donna… è una realtà frequentissima, te la devi aspettare, è quello che accade in tantissime case. E un prete lo deve sapere. Deve sapere che oltre ad essere prete, come gli dicono milioni di volte, è anche un bel single, e che la sua disponibilità può essere fraintesa. Non può cadere dal melo un bel giorno ritrovandosi a provare sentimenti nuovi per una persona in particolare, senza aver fatto nulla di male.
Dicevo in un’altra riflessione:
L'uomo “sacralizzato”, investito del ruolo di mediatore con il divino, esercita un fascino particolare del quale molto spesso non si rende conto. Lui, agli occhi della donna, è diverso dagli altri maschi, quelli che vanno subito al sodo... per intenderci, lui appunto è “spirituale”, ha dei valori elevati, è quindi uomo, non semplicemente maschio e una donna che ha le spalle piegate da una vita pesante e molto concreta, dove tutti, marito, figli e genitori, passano troppo spesso al fare, al “sodo”, senza chiederle cosa prova e cosa pensa, rimane facilmente folgorata da questa figura misteriosa, rivestita di profondità, non superficiale, che ha studiato e che magari la ascolta e la capisce.
Il problema, il più delle volte, è che scatta una scintilla tra una donna ferita, fragile, che si immagina quel prete migliore e più sacro di quello che in realtà è, e un uomo che è un immaturo, che ha subìto il celibato senza sceglierlo per amore, che ha sublimato il suo bisogno di affetto con il piacere che provoca il mettere le mani sul SACRO. Dio che ti sceglie, che viene tramite le tue mani, che perdona con le tue parole... è un piacere profondo, molto pericoloso, che invade tutta la persona e ponendola a metà strada tra il cielo e la terra, le risparmia la fatica di crescere.


Certamente il fatto che i preti siano obbligati a scegliere il celibato rimane una questione aperta, ma ciò non basta a spiegare tante storie sommerse. Esiste il problema di una formazione che non sia tempestata di soli buoni propositi e devote intenzioni. La vera spiritualità non dimentica l’umanità. Spesso tendiamo a puntare il dito contro il celibato obbligatorio che però non è l’unica causa, perché il prete resterà tale e quale anche dopo, quando i preti si potranno sposare: il matrimonio infatti non li preserverà da tradimenti, cotte, avventurelle, esattamente come succede a tutti gli altri uomini. Un prete sposato incontrerà, come quello celibe, tante donne, tante realtà di sofferenza dove con il solo istinto viene naturale intervenire, risolvere, dire “ci penso io”… e dimenticare che non è quello il tuo ruolo. Per questo penso che il celibato non più obbligatorio sarà certo una buona cosa, ma sposterà il problema affettivo dei preti, senza risolverlo.

Che significa “formazione”?
Dire che esiste un problema di formazione dei preti, significa accettare innanzitutto nei seminari la dimensione affettiva non come un problema da arginare, ma come una energia da indirizzare. Il celibato è una scelta estremamente dignitosa, feconda, che merita tutto il rispetto possibile. Certo però, una volta stabilito che un seminarista ha la vocazione al celibato (e sarebbe interessante andare a fondo sui criteri che portano a questa certezza) non ci si illuderà che per salvaguardare questa vocazione sarà sufficiente “non guardare e non toccare”. In realtà ci si può sempre innamorare, da celibi come da sposati. Uno può davvero essere portato per il celibato ed innamorarsi, così come ci si può sposare, avere figli, sognare una famiglia felice e poi avere un momento in cui non se ne vuole sapere più niente e si desidera solo rimanere soli. La crisi, ovunque arrivi, non significa dippersè che la scelta fatta in precedenza sia sbagliata. Quindi affrontare la questione del celibato dicendo in continuazione che non deve essere obbligatorio è fuorviante, semplicistico. Perché liberalizzando il celibato i problemi resteranno gli stessi, per chi lo sceglie e per chi non lo sceglie.
Formare al celibato significa non evitare la tentazione chiudendo gli occhi e sgranando rosari, ma scegliere, tra due beni, quello più adatto a sé. Quando li ho conosciuti e ho capito dove posso sentirmi più a posto, allora scelgo. Ma scelgo cosciente che offerte per passare sull’altra sponda me ne arriveranno sempre, e che un momento di difficoltà non necessariamente lo risolverò con un cambio radicale delle mie scelte di vita antecedenti. A volte potrà bastare uno stacco, una pausa, una presa di distanza da una realtà in cui siamo troppo dentro o dentro da troppo tempo.

Il seminario
Per fare questo occorre che gli anni di preparazione al sacerdozio siano una presa di coscienza della propria sessualità e delle proprie potenzialità, anziché una protezione dai pericoli che questa può procurarsi. Occorre accettare il rischio che la maggior parte dei seminaristi, entrati con le più buone intenzioni, se ne vadano. Occorre infine imperniare maggiormente la formazione sul potenziamento delle capacità della singola persona e meno sulla disciplina e la rinuncia non motivata, fine a sé stessa e a rafforzare la volontà.
Il seminario, roccaforte in cui si costruisce l’uomo celibe coi mattoni della volontà, in realtà troppo spesso non cura affatto il celibato, e si preoccupa dell’apparenza, di quello che il singolo fa o non fa pubblicamente, e non delle motivazioni che vi stanno dietro.
Occorre poi che, al di là dei seminari, la chiesa smetta di vedere nel sesso la porta per far entrare il diavolo nel mondo. Il diavolo di porte ne conosce quante ne vuole, e chiusa una ne trova subito un’altra. Liberare la sessualità non significa concedere tutto e non avere più inibizioni: significa potersi esprimere come ci si sente dal di dentro e non solo come ci viene richiesto dal di fuori, perché se uno può far questo non è vero che diventerà un pervertito. Nella maggioranza dei casi io credo sarà una persona più fedele a quanto sceglie, proprio perché lo sceglie veramente.

Curarsi dell’amore
Andare al di là dei seminari allora significherà occuparsi non solo seriamente del celibato, ma anche del rapporto di coppia. Quel corso prematrimoniale che si sta facendo adesso non è formazione. Ben che vada è una rispolverata di catechismo. Ma chi si sposa è lasciato solo, deve capire da solo se sposarsi o no; se con quella persona o no. E se sono lasciate sole le coppie eterosessuali, figuriamoci quelle “non regolari”, con divorziati o omosessuali. La chiesa si esprime su un livello giuridico: puoi o non puoi. Ma non entra in merito al “come stai in questa relazione”, come la vivi, come ti senti, la scegli o la subisci, perché e per chi la stai facendo.
Di queste cose la chiesa non parla, non ne sa parlare. Lei che quando vieta il preservativo ricorda a tutti come vi sia un problema educativo prima ancora di profilassi, poi se ne dimentica quando vede due persone tenersi per mano o qualcuno scegliere il celibato.
Io tremo ogni volta che assisto ad un matrimonio: tremo per l’emozione ed il profondo rispetto verso una scelta così grande ed impegnativa, ma tremo anche perché non ho la sensazione che ci si renda conto di quale responsabilità, quale pazienza, forza, tenacia, autocontrollo… comporti l’amore di coppia.
Come al solito c’è tanta carne al fuoco, troppa. Mi rendo conto che faccio fatica a scindere gli argomenti e a fare un discorso ordinato, però sono davvero convinto che – per sintetizzare - il problema dei preti non sia il celibato, ma la formazione, e che parlare di formazione affettiva significhi mettere le mani anche nella vita di coppia.

lunedì 2 marzo 2009

Paolo e le donne


incontro a Sorrivoli con la biblista Rosanna Virgili, svolto il 15 febbraio 2009. Appunti non rivisti dall'autrice di Mauro Borghesi

Paolo viene spesso visto come un autore biblico misogino, poco disponibile verso il mondo femminile. Questo in particolare a causa di un versetto (1Cor 14, 34-35) tristemente famoso in cui l'apostolo impone “le donne nelle assemblee tacciano perchè non è loro permesso di parlare... è sconveniente per una donna parlare in assemblea”.
In realtà Paolo valorizza molto le donne. Come vedremo Paolo condivide l'esperienza di marginalizzazione culturale delle donne all'interno del gruppo degli apostoli, e una volta accettato come apostolo affida addirittura intere comunità alle donne o alle coppie.

Innanzi tutto una nota sul suo stile. Sa essere materno, semplice, umile (2 Corinti). Dà grande importanza al corpo (1 Corinti) e alla sua resurrezione.
Annuncia la “debolezza” della fede (1 Cor. 3,18). Sono aspetti importanti perchè nella sua formazione essere maschio e avere un figlio maschio era molto importante.

Paolo vive sulla sua pelle l'emarginazione della donna. Fatica a prendere la parola nell'assemblea, a ottenere autorevolezza e titolo di apostolo. L'autorità nella chiesa all'inizio si basa sul contatto con Gesù, poi diventa sacramentale. Paolo stesso ha bisogno di una comunione con la chiesa di Gerusalemme. Ciò lo renderà sensibile verso le minoranze e lo aiuterà ad associare il messaggio evangelico all'abbattimento di tutte quelle differenze sociali che portano gli uomini a fare categorie di valore.
In Galati 3,28 dice “Non c'è più giudeo né greco, non c'è più schiavo né libero, non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo”. Questa affermazione di Paolo rappresenta il DNA del Cristianesimo. Ci soffermiamo per capirla meglio:
1.giudeo/greco: Non ci si salva più per elezione. I giudei escludevano dalla salvezza tutti i pagani, erigevano un muro di appartenenza che Paolo abbatte.
2.schiavo/libero: Paolo interpreta la Legge in Galati 4,21-31 (e in questo ci indica un metodo attualmente visto con molto sospetto dalle autorità religiose). Facendo questo da una parte mostra di tenere in seria considerazione l'Antico Testamento, ma anche di leggerlo secondo una luce nuova, opposta a quella dei farisei. Essi infatti insistevano molto sul fatto di essere figli di Abramo, figli della promessa, non figli della schiava. Paolo allora riprende il discorso della discendenza per dire che la discendenza di Abramo è Gesù, e solo chi ha fede in Gesù è davvero figlio di Abramo. Paradossalmente per Paolo i figli di Agar, la schiava, sono proprio quelli che stanno nel Tempio, “schiavi” della Legge. Mentre i figli nella discendenza di Sarah e di Isacco, sono i figli della fede (la promessa ad Abramo è frutto della sua fede), figli liberi dalla Legge. Siamo noi.
3.uomo/donna: in 1 corinti 11,7-16 Paolo commenta la creazione della donna dalla costola dell'uomo. Interessante l'interpretazione che lo porta a dire che la donna non è cosa diversa dall'uomo perchè come la donna viene dall'uomo (costola) così anche l'uomo viene dalla donna per nascita. Peccato che la liturgia non citi questi versetti 11-12 ma si fermi a quelli 8-9 dove viene troncato il discorso a metà, dicendo solo della nascita della donna dall'uomo.
la chiesa di Paolo sceglieva i vescovi in maniera orizzontale, non calati dall'alto. (Parentesi: il Concilio Vaticano II ha tentato una riscoperta della “collegialità” dei vescovi, ma oggi vedono bene di starsene zitti, non hanno alcuna libertà di parola. La chiesa di oggi non ha ancora affrontato due grosse questioni: la democrazia e la donna).
I testi autentici di Paolo ci parlano di donne importanti. In Atti 16,15 Lidia dice “se avete giudicato che io sia fedele al Signore, venite ad abitare nella mia casa”. Abitare nella sua casa significa formare una chiesa nella sua casa. Questo fatto ci dice che c'erano donne che facevano lo stesso che faceva lui. Lavoratrici, “collaboratrici”. Stessa autorevolezza, stessi compiti. In Romani 16,2 vediamo Febe definita “diaconessa” (nella nuova traduzione ora tradotto con “al servizio”). Paolo invita a considerarla come lui. Sull'importanza del diacono nelle comunità di Paolo basterebbe leggere Atti 8. Esemplare è poi la descrizione di Stefana in 1 Corinti 16,15-18 come responsabile di comunità o anche Giunia in Romani 16,6-8 che con il marito è definita apostola “prima di me”.
A questo punto sorge spontanea la domanda su quel versetto che impone il silenzio alle donne in assemblea. In base a quanto detto finora in particolare osservando l'atteggiamento di Paolo verso Stefana e Giunia è difficile pensare che si tratti dello stesso autore. E' facile che quel versetto così duro e severo verso le donne sia una glossa posteriore palesemente in contrasto con lo spirito di fondo di Paolo verso le donne. La glossa è stata fatta dall'autore della lettera prima a Timoteo, lettera sicuramente non paolina, che risente di una impostazione successiva, posteriore al periodo di Paolo, in cui la chiesa si era strutturata maggiormente (anni 80/90), aveva inserito il sacerdote (figura sacra di radice ebraica) tra vescovi e popolo ed allontanato le donne da posizioni di autorità. L'autore ha un linguaggio diverso da quello di Paolo, pur spacciandosi per lui, e impone alle donne di non insegnare e non avere posizioni di autorità nelle comunità. Il contrasto fra i due paolo è forte, ma anche in questo vi è un bell'insegnamento. La Scrittura non cestina niente. Sopporta testi tanto diversi, tenendoli a fianco, senza doverne sopprimere uno a favore dell'altro. E' anche questo un aspetto che viene dalla mentalità ebraica che è inclusiva, come anche accade per i due racconti della creazione in genesi.

Efesini 5
Per concludere qualche considerazione su un altro brano piuttosto discusso a proposito di donne, che è il famoso Efesini 5. Paolo qui non intende parlare di morale domestica come erroneamente titola la bibbia di Gerusalemme, ma della chiesa.
Il concetto di fondo è “siate sottomessi gli uni agli altri”, cioè non ci sia un capo, siate legati gli uni agli altri … nel timore del Signore. Che non è paura, ma la reazione dell'uomo quando si trova a tu per tu con Dio.
Il matrimonio viene usato come metafora, e la moglie è metafora della chiesa per una ragione biblica, sempre infatti i profeti hanno usato questa immagine popolo/moglie. “Voi mogli siate sottomesse” significa “voi mogli siete come la chiesa sottomesse a Cristo, il quale Cristo però è salvatore del suo corpo. Il rapporto di dominio è scardinato alla base. Ai mariti dice “amate come Cristo”, dove l'accento di Paolo è sul “come”, non sul matrimonio. E lui ha amato “consegnando” il proprio corpo. Non dice “sacrificandosi” come siamo abituati a dire, ma “consegnando”. Cristo per Paolo fa un atto di resa, consegnare significa dire: il mio corpo ha bisogno di qualcuno che l'abbracci. L'amore è questo scambio, e non uno solo che dà e l'altro che riceve.

giovedì 19 febbraio 2009

Il bene ed il male

Che si parli di surriscaldamento del pianeta, di crisi economica o di testamento biologico, presto o tardi i discorsi mediatici, e ancor più quelli informali, vanno a finire nella schematizzazione più ovvia, che da millenni sembra spiegare tutto: c'è il bene ed il male, bisogna scegliere il bene e combattere il male.
E' un messaggio così semplice, così lampante che viene utilizzato in continuazione non solo da esponenti religiosi ma anche finanziari e politici.

Se però la compresenza di bene e male è spiegabile da un punto di vista psicologico e sociale non lo è per quello che riguarda la fede.
La fede annuncia la buona novella, ma questo non implica che esista il male. Il male è semplicemente la mancanza di bene. Ma posso dire che in mancanza di aria sono in presenza della non-aria? In termini filosofici, all'essere corrisponde l’esistenza di un non essere?
L'ipotesi manichea dell'eterna lotta tra bene e male è comoda e vincente, come i tarocchi e l'oroscopo, perchè permette di spostare lontano da noi il dilemma. E' comodo in fondo pensare che sopra le nostre teste si sta svolgendo una lotta tra titani, un po' alla Star Wars o Il Signore degli anelli, una lotta tra colossi che si disinteressano delle nostre frivole faccende quotidiane e ci usano solo come campo di battaglia per stabilire chi dei due sia il vincitore. Più difficile è pensare che tutta la posta in gioco, in definitiva la riuscita della nostra vita, dipenda da noi.

La fede cristiana è in fin dei conti un qualcosa buttato là dove prima non c’era nulla, un progetto, un disegno amorevole che si svolge con l'aiuto divino ed il nostro consenso. Oggi siamo in una situazione particolare, perchè molti laici sono cristiani senza saperlo e molti cristiani sono pagani senza saperlo; l'appartenenza ad una chiesa e la partecipazione ai suoi riti non è più garanzia di salvezza. A maggior ragione quindi bisogna far doppia attenzione a dividere bene e male, buoni e cattivi. Ma quello che qui mi preme sottolineare è il fatto che la scelta – che avvenga a livello interiore, o sociale – non è tra il bene ed il male, ma tra la scelta del bene e la non scelta. L’immagine evangelica della luce rende visivamente meglio la cosa. La luce che squarcia nelle tenebre non indica una lotta tra luce e tenebre come lascia intuire il prologo di Giovanni a causa dei suoi chiari influssi gnostici. Implica semplicemente l’avvento di qualcosa, una luce, dove prima non c’era niente, un niente che chiamiamo tenebre, ma che rimane niente. La questione educativa di fondo non è quella di scegliere tra un principio positivo ed uno negativo, ma tra il bene e niente.
I ladri, i banditi, gli spacciatori, gli stupratori... nessuno di questi sceglie il male come progetto di vita, come nessuna nazione sceglie la guerra per odio verso la pace.
Ciò che per comodità chiamiamo “male”, o diavolo, dandogli così un volto, altro non è che la possibilità di non scegliere, di sciupare la nostra vita, seppellendo il talento che senza meriti ci ritroviamo tra le mani (Mt. 25,14-30).
Questo niente, o non scelta, è naturale. E’ quello che si svolge in natura, a livello istintuale, e si traduce in atti descritti primariamente da Darwin e volti all’autoconservazione della specie. Non si tratta quindi di vivere brutalmente nelle tenebre, ma solo senza possibilità di scelta morale, o meglio di scelta cosciente e volontaria del bene. Cosa che in natura distingue l’uomo da tutte le altre creature.
Essere coscienti e convinti di questo è fondamentale perchè le conseguenze che ne derivano cambiano radicalmente il comportamento del credente all'interno della comunità e nella società. La violenza, l’aggressione, tutto ciò che banalizzando ci raffiguriamo come male, è semplicemente mancanza di capacità di scegliere il bene. E’ azione ad un livello puramente naturale. Per milioni di anni le leggi che hanno governato il mondo sono state leggi di forza, io mangio te e vivo, o anche all’interno dello stesso nido, io mangio più di te e sopravvivo. Rappresentare questo comportamento come male significa negare la propria natura e discolparsi per meccanismi che, essendo guidati dalle forze del male, non dipendono da noi.

Bene e Male nella religione cristiana
La prima conseguenza è il rapporto con il peccato. Il peccato, inteso come un veleno mortale da evitare messo lì apposta dal maligno per farci sbagliare, ottiene l'effetto tutto religioso di spaventarci. Preghiamo per evitare il male, e usiamo molte delle nostre migliori energie per mantenerci puri, per resistere alla tentazione, per NON dire, NON fare. E' la logica dei comandamenti superata da Gesù con le beatitudini, con il comandamento dell'amore per i nemici, con la croce.
Non voglio sminuire il peccato. Voglio dire che il timore verso il peccato a volte ci fa perdere di vista ciò che in positivo è ben più importante: dare la vita. Se io passo la mia vita a tentare di non fare peccato faccio esattamente come quei farisei che Gesù rimproverava apertamente, perchè tutto preso dalla mia religione e dalla mia salvezza dimentico di ascoltare il bisogno di chi mi passa accanto. Se invece io do meno peso al peccato, vedendolo non come un atto personale indotto dal demonio, ma semplicemente un non atto, una non scelta, un ripiegamento dovuto all'aver scelto me stesso e la mia solitudine, allora la mia attenzione sarà stimolata a valutare la scelta, la proposta che mi porta ad uscire da me stesso e dalle mie sicurezze, perchè Dio non si è comportato così con me ed io non posso fare questo con il prossimo.
Non siamo di fronte al bene e al male, come ci vogliono far credere. Siamo di fronte ad una chiamata. O rispondi o non rispondi. Siamo di fronte alla possibilità di usare questa nostra vita in un modo che non sia puramente animalesco. Siamo cioè di fronte alla sfida della responsabilità. Non starci non significa scegliere il male, certo però è una cosa che ci fa “star male”.
Una seconda conseguenza religiosa è l'immagine dell'al di là. La nostra personificazione del bene e del male ci ha portato a dare ad ognuno un suo habitat, un regno dove collocarli: paradiso ed inferno. Più il purgatorio per le vie di mezzo, ma questo è un problema più complesso che mi allontanerebbe dal discorso, quindi per il momento evito.
Tante discussioni si sono sviluppate attorno all'inferno, perchè giustamente alcuni obiettano che la sua sola esistenza, il fatto che sia stato previsto e preparato significa un limite a priori nella infinita misericordia di Dio. E d'altra parte se neghiamo la sua esistenza sembra quasi che si dia il via libera ad ogni forma di depravazione, perchè tanto non vi sarà alcuna punizione.
E' un labirinto mentale da cui non si esce se non si fa un passo indietro. Ed il passo è quello di considerare che esiste il bene, non il male. Il male è semplicemente mancanza di bene, è così doloroso ed ha conseguenze così nefaste che lo conosciamo meglio del bene, ma in realtà non “è”. Non è nulla, e questa paradossalmente è la sua forza. A mio parere esiste il paradiso, ma non l'inferno, nel senso che scegliere di rifiutare il paradiso è dippersè un inferno. Nell'al di là l'amore per Dio tradotto in amore per l'umanità ed il creato avrà un seguito, una conferma, un godimento continuo. Ma il rifiuto di questa prospettiva non vedrà le fiamme eterne, semplicemente non vedrà nulla.
Un altra traduzione concreta di quanto sto dicendo la vedo nell'attuale dicotomia vita/morte. Quanto parlare attorno alla vicenda di Eluana in questi ultimi mesi, tutti quanti improvvisamente presi dalla vita e dalla morte, dal confine che le separa, sondino si, sondino no, testamento biologico, eutanasia … Tutti a pensarci al suo posto, e alla nostra scelta se fossimo stati al posto di lei. Molto più della morte a me interessa la vita. Non come o quando morirò, ma come sto vivendo, è questa la questione e penso pure che la paura della morte sia proporzionale al nostro egoismo, all'esserci tenuti la nostra vita per noi, come un tesoro geloso. Gesù dice di sé di essere la verità, la via, la vita (Gv. 14,6). Il contrario di queste cose, la falsità, la perdizione, la morte, non sono qualcosa da contrastare o contro cui schierarsi. Non sono, punto e basta. Combatterle, contrastarle, significa dar loro un'identità, una importanza al pari del corrispettivo positivo. Invece non serve combattere il male se si serve il bene. Non serve evitare le falsità se si sceglie la verità, e per tornare a Eluana, non serve definire nei minimi particolari cosa sia la morte, se si è vissuto veramente. I santi sono così pieni di vita che non temono la morte. La teme colui che nella vita non fa niente.
Chi si ferma a piangere sul latte versato facilmente rimarrà impantanato nei sensi di colpa, mentre invece chi costruisce sono le persone protese verso il futuro.
Questa divisione tra bene e male pervade tutto, ed inesorabilmente la paura del male è più potente dell'attrazione verso il bene. E questo è un bel guaio perchè ci fa vivere la vita come un incubo e non ci fa sperimentare la bellezza della scelta per la vita. Temere il male rafforza il male stesso, lo posiziona al centro dei nostri pensieri e ci porta ad agire sulla difensiva.
Ogni volta che ci dicono di non dire, non fare, noi per sicurezza, non diciamo e non facciamo neppure il bene. L'esatto contrario della parabola del grano buono e della zizzania.
La confessione dovrebbe essere questo, l'incontro con un Dio che ci toglie il peso e ci invita a distogliere lo sguardo da quel peso per andare avanti. Invece come pesa il suo perdono! Quanto lo abbiamo fatto soffrire! Quanto piange per i nostri peccati! E intanto che misuriamo al microscopio quanto siamo o non siamo degni di accostarci alla sua mensa, ci passano sotto il naso occasioni d'oro per vivere. Pensare ai nostri peccati in fondo è un esercizio di egoismo, un pensare a sé stessi e alla propria bravura. Quando invece ti trovi di fronte ad uno che ha bisogno puoi essere bravo o non bravo, puro o impuro, ma fatto sta che lì ci sei tu: o lo aiuti o … niente.
Davvero illuminante da questo punto di vista il film “La leggenda del santo bevitore” di Ermanno Olmi.
Vorrei fare anche un esempio più personale.
Quello che mi ha colpito di don Oreste Benzi, parlo di circa 20 anni fa, non è stata la sua purezza..., anzi era così imbarazzato in presenza di donne che mi faceva quasi tristezza. Non è stata la sua preghiera continua, le sue prediche, la sua vita integerrima. No, lui faceva una montagna di errori, faceva andare su tutte le furie chi gli stava dietro perchè non sapeva collaborare. Ma sapeva di essere un peccatore, sapeva di aver tutti questi difetti e chiedeva sinceramente a Dio il suo perdono. Certo però non passava la vita a piangere sulle proprie mancanze, perchè i poveri lo chiamavano e lui non aveva tempo... doveva andare da loro. Curarsi della propria santità era un lusso che non poteva permettersi. Di fronte alle proprie colpe quasi di fretta commentava “speriamo che Dio abbia pietà di me”. Ecco, questo è l'esempio di un uomo che non aveva tempo da perdere con il “male”. Aveva da fare. C'era gente che aspettava al freddo della stazione ferroviaria.
Nelle mie giornate mi occupo di disabili come coordinatore di un centro diurno. Anche qui è la stessa musica che si ripete. Ci vengono affidati ragazzi con diagnosi terrificanti. Ognuno è catalogato per il suo “handicap”. Io stesso li chiamo “dis-abili”, perchè non c’è una parola positiva per chiamarli. Tanti sono affetti da “ritardo” mentale. Vediamo insomma i disabili per quello che non hanno, per quello che non sanno fare e che noi normodotati possiamo fare al posto loro per nostra gratificazione.
Come se non avere intelligenza fosse qualcosa, o non avere l'uso delle gambe, o della parola, o della vista... Tutte cose che sono niente rispetto alla grandezza di desideri, di aspirazioni, di cuore che si portano dentro. Ma il limite, il male, l'errore, è più facile da vedere, da misurare, da giudicare.
Tutto questo discorso può risultare un pò “filosofico” o campato per aria, e forse non mi sono preso il tempo sufficiente per una elaborazione più efficace, ma per me è stato davvero liberante. Quante energie bloccate quando allo specchio si rimane troppo a lungo a guardare ciò che non va. E quanto tutto diventa più scorrevole quando invece di pensare a te, ai tuoi peccati, al tuo caratteraccio, cominci a preoccuparti veramente dell’altro, a prendertene cura non in modo sporadico, ma responsabilmente.
E’ proprio questo in senso di quanto Gesù voleva dirci quando a casa del fariseo spiega il gesto di quella “peccatrice” che gli lava i piedi con le sue lacrime e li asciuga con i capelli: “le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato ...” (Luca 7,47)