sabato 29 gennaio 2011

Il dolore innocente


Il testo di Mancuso "Il dolore innocente", è un raro tentativo di affrontare da un punto di teologico la realtà dell'handicap. Citando l'OMS l'autore riferisce come ogni giorno nascano circa 8.000 persone con un handicap in tutto il mondo e come questo difficilmente si accordi con una immagine "creazionista" di un Dio buono, che interviene direttamente nel seno di ogni madre per plasmare con le sue mani un nuovo essere umano. Difficile trovare nella storia della chiesa trattati teologici approfonditi su questo tema. Sostanzialmente "la nascita di esseri umani malformati veniva implicitamente, ma inequivocabilmente ricondotta ad un esercizio ritenuto disordinato della sessualità". Nel Novecento poi, secolo in cui la chiesa ha scritto ben più che nei 19 secoli precedenti messi insieme, "il problema non viene affrontato" se non in termini "orizzontali", cioè di solidarietà, accettazione, sensibilizzazione. Questo accade perchè mentre in epoca moderna avanzano le risposte scientifiche sulla natura, retrocedono, o perlomeno diventano più prudenti quelle che in passato venivano costruite tirando in ballo Dio ogni qualvolta l'evidenza non offriva spiegazioni immediate.
Tale situazione di empasse non ha solo ragioni culturali o tradizionali. E' proprio difficile da un punto di vista teologico accordare alcune qualità irrinunciabili del Cristianesimo (ma anche delle altre fedi monoteiste) quali l'onnipotenza divina e la sua giustizia, con l'handicap naturale, non procurato dall'uomo. L'unica via d'uscita, o perlomeno la più facile, è quella della colpa. Dio, che è onnipotente e che è giusto, permette la nascita di creature handicappate per punire l'uomo di qualche sua colpa. E' la teoria della "retribuzione" di cui si trova ampia documentazione nel Corano, nell'Antico Testamento, soprattutto nei Salmi, e anche nelle lettere di san Paolo. La stessa distruzione del Tempio di Gerusalemme viene interpretata nella Bibbia come una punizione per essersi allontanati da Dio, e Gesù in persona si trova a combattere con questa idea quando gli presentano un cieco nato (Gv. 9) e gli chiedono se è nato così per per una colpa sua o per una colpa dei suoi genitori.
Credo sia evidente a tutti che qui non ci si diletta a discutere di filosofia e quello che c'è in ballo non è un argomento da salotto per intellettuali. La disabilità, come la malattia, fa parte della vita di ognuno. Chi più, chi meno; chi prima, chi dopo: siamo tutti coinvolti in questo discorso nei confronti del quale nonostante la povertà di contributi intellettuali religiosi e laici, tutti ci facciamo una opinione, una nostra idea. Anche chi è sano chiede nel suo intimo a Dio la salute, il riparo da carestie, terremoti, sciagure di ogni tipo, quasi che Dio potesse fare intenzionalmente queste cattiverie e fosse proprio intenzionato a farlo, per motivi che Lui sa, da un momento all'altro: anche costui, dicevo, ha un idea di Dio. Che non è quella evangelica, e non è quella cristiana, nonostante nei fatti la chiesa cattolica spesso la avvalli. "Dio non può volere il male, in nessun modo", dice Mancuso. Dio non va convinto a desistere dal suo istinto vendicativo, non si diverte a farci nascere poveri, handicappati, in zone sismiche o nel bel mezzo di conflitti etnici.
Dio, in qualche modo, pur essendo onnipotente come sottolineano l'Ebraismo e l'Islam, ha fatto un passo indietro nei confronti della creazione lasciandola "libera", come libero ha lasciato l'uomo. Questo passo indietro, che permette il verificarsi di errori naturali, mutazioni genetiche, morte degli uni per la sopravvivenza di altri, non significa menefreghismo da parte di Dio. Mancuso dice: "Il ritirarsi di Dio non è l'astenersi, l'isolarsi in mondi separati... Dio, che pure si ritrae, non cessa mai di essere con la sua creazione". In che modo? Come si può sostenere questo "assurdo" logico? Ecco che qui entra in gioco l'importanza dell'incarnazione, e la figura di Gesù che rivela l'intenzione di Dio di stare dalla nostra parte. "E' la dottrina trinitaria che consente di pensare insieme il suo ritirarsi e la sua presenza che non viene mai meno: il ritirarsi del Padre coincide con la donazione del Figlio". Nella visione cristiana "la sigla di Dio non è l'onnipotenza, ma la sigla del Figlio, cioè l'amore, la forza negativa (in quanto sa rinunciare) dell'amore". "E il Dio creatore? Il Dio creatore è il Dio assente, il Dio che si è ritirato e che ci ha dato il Figlio. Il Dio creatore sulla scena di questo mondo non esiste, esiste in quanto assente, in quanto altrove, in quanto al di là. Qui siamo in balìa, come lo è stato Cristo, di forze anonime e contrastanti... E qui non è Dio che ci può guarire, ma solo gli uomini".
Il Dio creatore deve per forza fare un passo indietro rispetto alla sua creatura, per permetterle di svilupparsi liberamente. Il ritiro, o l'assenza, di Dio è il prezzo della nostra libertà. E non solo della nostra, ma anche di tutta la natura. Infatti "sotto i raggi infuocati della necessità divina la pianticella della libertà seccherebbe ancor prima di nascere. L'unica condizione, è che Dio per far nascere la libertà della natura, rinunci a manifestarsi come persona".
Questa per Mancuso è la vera posizione cattolica. Una posizione difficile da comprendere, illogica in quanto tende ad affermare insieme la vicinanza e la lontananza, la presenza e la assenza di Dio. D'altra parte "tenere insieme in una singola persona la pienezza della divinità e la pienezza dell'umanità, è per la ragione che vuole essere tale, del tutto impossibile". Ma è su queste fondamenta che all'uomo si può chiedere di essere maturo di fronte al mondo, quando smette di fuggire dai problemi invocando il "Dio tappabuchi" di cui parlava Bonhoeffer e comincia ad affrontarli con le sue forze. Diceva Bonhoeffer "Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così Egli ci sta al fianco e ci aiuta" (Resistenza e resa).

Non vi sono dubbi però che il Magistero cattolico fatica a sottoscrivere affermazioni così pesanti e controcorrente. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) là dove affronta la quesitione del male nel mondo non arriva a queste conseguenze. "La fede in Dio Padre Onnipotente può essere messa alla prova dall'esperienza del male e della sofferenza. Talvolta Dio può sembrare assente ed incapace di impedire il male. Ora Dio Padre ha rivelato nel modo più misterioso la sua onnipotenza nel volontario abbassamento e nella Resurrezione del suo Figlio, per mezzo dei quali ha vinto il male" (CCC 272). E' una spiegazione lacunosa e troppo frettolosa vista la posta in gioco.
"Talvolta"? Che significa talvolta? L'assenza di Dio è esperienza continua: la sperimentiamo tutti ad ogni latitudine. Sotto i nostri occhi i ricchi vivono fino a cent'anni ed ai poveri viene pure il cancro. E per tornare al nostro punto di partenza: l'handicap. 8.000 nati al giorno non sono un "talvolta" da poco.
"Ha rivelato in modo misterioso"? Che significa? Come si pone il catechismo di fronte al problema dell'onnipotenza divina che non interviene di fronte al dilagare del male? Vai a dire a un disabile che "in modo misterioso" è giusto così, che lui sia disabile. Lo vedi come risponde al mistero. Invece ogni qualvolta si introduca il problema della presenza del male entra in gioco la parola "mistero", quasi a voler dire che certe domande è meglio non farle (CCC 309, 311, 324) .
Il pensiero del cattolicesimo ufficiale non riesce ancora ad ammettere la visione intuita da Mancuso, mi riferisco a quanto detto sul "ritirarsi" del Dio creatore contestuale alla partecipazione del Figlio alla creazione stessa. Si dice al CCC 301 "Dopo averla creata Dio non abbandona a sè stessa la creatura. Non le dona soltanto di essere e di esistere: la conserva in ogni istante nell'essere, le da la facoltà di agire e la conduce al suo termine". Questa posizione evidentemente salva la continuità con le Sacre Scritture e le interpretazioni patristiche, ma non fa i conti con la realtà. Dice Mancuso: "A chi sa fissare in tutti i suoi particolari lo spettacolo, ora nobile ora osceno, del teathrum mundi (cioè di ciò che accade in natura), ciò che appare regnare è la libertà, mostro a due teste, che può generare oppressione e delitto, e insieme commuovere per purezza e amore. ... La natura scaturisce dal matrimonio tra morte e vita, il cui figlio primogenito è la sofferenza. La natura è sofferenza".
L'uomo però, unica autocoscienza all'interno di questa natura indifferente ed egoista, dove ogni cosa tende a replicare sè stessa anche a discapito di altri, l'uomo dicevo, è dotato della capacità di fare un salto di qualità che lo rende "altruista", aperto al prossimo, disposto a fare il movimento contrario alla natura, contronatura, una "decreazione" come dice Simone Weil: donare la propria vita per qualcun altro. L'uomo a questo livello "spirituale", e solo qui, può incontrare Dio, che fa la stessa cosa in Gesù. L'uomo può scegliere di ritirarsi per amore, e in questo atto incomprensibile per la natura esercita il massimo di ciò che la libertà gli permette di fare.

Dunque è possibile non pensare come cattiva una natura che provoca sofferenza, ed è possibile pensare come vicino un Dio che permette tale libertà d'azione alla natura. Non è a livello naturale che Egli ci soccorre, aiuta o protegge. Su quel piano Egli permette che la natura faccia il suo corso. Ma è nella libertà di fare un passo indietro che lo incontriamo, salendo nella dimensione spirituale.
Siamo tutti vittime della libertà della natura, delle sue prove e mutazioni casuali. E' questo che ci fa tutti diversi, tutti unici, tutti disabili in qualcosa: chi è più intelligente non è altrettanto atletico, chi ha un bel volto magari non ha belle gambe, e così via fino alle situazioni in cui quello che manca è più marcato e più visibile. E anzichè piangersi addosso e chiedersi "perchè mi manca questo o quello?" vale forse la pena fare tesoro di quello che si ha dalla natura, farne un trampolino di lancio, assertivamente, per arrivare al livello maturo dello spirito. Lì, quando un uomo diventa capace di donare, ecco di nuovo che Dio torna presente, ecco che la nostra disabilità diventa insignificante e quella del prossimo il luogo dove incontrarLo.

La Chiesa sofferente

lunedì 17 gennaio 2011

Cari amici preti

Cari amici preti,
questa sera tornando a casa ho pensato a voi.
Ero preso da un pò di preoccupazioni legate la lavoro, alle prospettive aziendali future, sempre più incerte e dipendenti da variabili che non dipendono da noi. Pensavo alle persone assistite che stanno male, a quelle con le quali è difficile capirsi e comunicare, ai lavori lasciati a metà. E poi mi è venuto in mente che forse quando facevo il prete su tutti questi aspetti me la passavo decisamente meglio. Avevo il problema di non poter mai staccare la spina, questo è vero, perchè un prete non timbra il cartellino, ed è prete sempre, anche mentre dorme. Ora posso "staccare" quando finisce il mio orario, posso pensare a me, o dedicarmi ad altro. Prima non era così, però qualche vantaggio c'era.
Tornando a casa ho pensato a diversi preti che conosco, i più solo di vista e superficialmente, ma abbastanza per lasciarmi andare ad alcune considerazioni.
Ho pensato alla vostra tranquillità economica. E' vero, non prendete granchè, ma almeno è uno stipendio sicuro, e tutto per voi. Il vostro è un lavoro che potete fare solo voi, e anche se lo fate male, nessuno vi "spreta", al massimo vi beccate una tiratina d'orecchie, ma con la dovuta moderazione e riservatezza.
Ho pensato ai rapporti con i vostri collaboratori pastorali. Se c'è un problema, se non vi prendete, loro possono sempre andarsene, nessun contratto di lavoro li lega alla vostra parrocchia, e in fondo ce ne sono tante...
Ho pensato ai vostri impegni. Le benedizioni ormai alle porte; messe tante, visto che siete sempre di meno; qualche incontro con la gente alla sera; e poi una montagna di incontri tra di voi. Siete sempre lì ad incontrarvi, a parlarvi, a programmare, a dirvi come state e come sta la chiesa...
Qualcuno è in crisi vocazionale, e quindi riflette sulla sua vocazione. Qualcun altro ha problemini di salute, e quindi deve stare attento a non sforzarsi troppo. Altri leggono le riviste cattoliche per tenersi aggiornati su cosa succede nella chiesa, o scrivono articoli per il proprio giornalino parrocchiale.
Recentemente uno mi ha detto una cosa che mi ha lasciato senza parole. "Possiamo vederci tutti i giorni, quando vuoi, dalle 10 alle 12, e alle 14 alle 17". Lì per lì sono rimasto contraddetto, "Accidenti" ho risposto, "proprio gli orari in cui lavoro". Poi ci ho ripensato: ma tutti lavorano in certe ore del giorno! Dagli studenti in su! Di solito, tra amici normali ci si vede alla sera, no? Questi invece non hanno niente da fare quando la gente lavora?
Scusate, lo so che non siete tutti uguali e che tra voi ci sono persone che dormono tre ore per notte. Lo so che qualcuno conduce una vita santa. Ma di questi tempi mi venite in mente più del solito.
Sarà la stanchezza, sarà la mia vena polemica che non sono ancora riuscito a domare, o sarà anche un pò che quando vi incontro mi sembrate degli extraterrestri, e non perchè vi vestite in modo diverso. Pensate che tutto ruoti attorno alle vostre quattro mura, dal calcetto alla salvezza dell'anima. Vi affannate per le candele, il quadro antico, l'impianto acustico. A volte mi viene il sospetto che Dio per voi sia un mezzo, non il fine. Il mezzo per sentirvi qualcuno, per sentirvi eletti, elevati sopra la massa informe della gente comune.
Cari amici preti, che insegnate la fedeltà e ogni tanto cambiate parrocchia, ricominciando tutto daccapo; che insegnate il persistere nella prova senza sapere cosa è una moglie, una suocera, un figlio; che chiedete offerte e sacrifici senza andare a lavorare e senza sapere quanto costano i soldi. Scendete a valle, in questa "valle di lacrime", e condividete il nostro mal di testa. Magari potrebbe farvi bene.

domenica 9 gennaio 2011

FEDE o IDOLATRIA


Il nichilismo è la negazione del senso, poichè ritiene impossibile non solo la fede in un senso supremo, ma in qualsiasi senso. (...) Il relativismo afferma la relatività di ogni valore. Ma è certo che i valori sono relativi? Si, essi lo sono, ma in un senso ben diverso da quello affermato ed inteso dal relativismo. Essi sono relativi non al soggetto che valuta, ma ad un valore assoluto. Solo partendo da un valore assoluto si può esprimere un giudizio di valore. Ogni valutazione, dunque, suppone un valore massimo, un optimum, dal quale le cose ricevono un loro valore. (...)
Insomma, solo partendo da un valore assoluto, da Dio, le cose ricevono valore. Solo quando le lasciamo comparire dinanzi al tribunale divino, sia pure in forma tacita ed inconscia, saremo capaci di calibrare il valore che loro corrisponde. (...) L'essenza di ogni idolatria sta nel dimenticare tale valore assoluto, precedente ad ogni valutazione e superiore al valore delle cose, nel dimenticare cioò che "tutte le cose servono solamente per tenere il posto del Signore" (Beer-Hofmann Richard). (...)
Dio non lo si incontra in nessuna dimensione, per il semplice motivo che egli è la dimensionalità dei riferimenti valoriali. Come il punto di fuga si trova al di fuori del piano di un quadro, e quindi non è contenuto nell'immagine, anche se ne rende possibile la prospettiva, ugualmente lo spazio della trascendenza supera il piano della pura immanenza, sebbene, lo costituisca. Le cose possiedono senso e valore nella misura in cui li trasmettono ad un altro, a qualcosa di superiore, nella misura in cui li sacrificano per amore di qualcuno. Questa è la vera relatività dei valori. In una parola, sebbene sembri paradossale, le cose valgono per essere sacrificate. Il senso sacrificale costituisce il loro vero valore. Ciò che in fondo determina il prezzo di una cosa è la possibilità di essere offerta a qualcosa di superiore. (...)
Alla persona intesa in questo senso si riferisce l'Antico Testamento quando parla del cuore, quando dice che l'uomo deve "amare Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze". L'uomo deve amare Dio in qualsiasi circostanza, in maniera assoluta, anche se gli sono sottratte tutte le possibilità nella scala dei valori, anche se rischia di perdere il penultimo valore, cioè la vita stessa. Ciò che gli viene chiesto è di essere pronto a dare, ad offrire, a sacrificare tutto: in fondo gli viene chiesta l'incondizionata disponibilità all'oblazione. (...) Disperato può essere solo un uomo che ha idolatrato qualcosa, che ha posto qualcosa al di sopra di tutto. (...) L'idolatria che è alla base della disperazione, proietta al di là della vita e affonda le radici nella dottrina, nella teoria, nella filosofia, portando con sè la disperazione non solo nella dimensione personale, anche in quella delle cose. Colui che dubita dell'esistenza di un senso supremo, e PER QUESTO dispera, ha anch'egli idolatrato qualcosa: la ratio come unica possibilità di ricerca e di interpretazione del senso. In tale idolatria della razionalità naufraga l'uomo faustiano, così come naufraga la sua caricatura, ossia l'uomo nevrotico, che cavilla e sospetta in modo ossessivo e nevrotico, alla ricerca, per vie razionali, della sicurezza al cento per cento, sia nel conoscere che nell'agire. Invece di abbandonarsi fiducioso alla sapienza del cuore, allo spirito inconscio, non riflesso e non intellettualizzato, invece di rimettersi fiducioso a tale emozionalità, in senso ampio e profondo, ed accettare la provvisorietà ed occasionalità della vita, egli vuole fare assegnamento solo sulla razionalità.
Si comprende allora cosa si intende con l'espressione "sacrificium intellectus", che ha una considerazione tanto cattiva: anche l'intelletto può essere idolatrato e tale idolatria conduce alla disperazione quando l'uomo lo finalizza in maniera esclusiva alla comprensione dell'essere e del senso. Il "sacrificio dell'intelletto" significa il riconoscimento che c'è qualcosa di più alto, di superiore a lui, e che si è disposti a sacrificarlo, a rinunciarvi. Il "sacrificium intellectus" infatti, non è la rinuncia all'intelletto, alla ratio come tale, ma solo la rinuncia alla sua idolatria.
Brano tratto da Homo Patiens, di Victor Frankl, Queriniana.