lunedì 26 novembre 2007

Voler cambiare la Chiesa


Ovvero
Il modo migliore per non cambiarla affatto


Quando ho lasciato la veste da sacerdote Dio ha raccolto i miei pezzi e mi ha fatto un dono grande: mi ha permesso di lavorare coi matti e con gli handicappati.
E’ stato il rapporto con loro che mi ha fatto capire meglio la mia fede ed il mio nuovo posto nella Chiesa.
Parto da questa mia esperienza personale, ma non intendo scrivere una testimonianza. Accenno ad alcuni fatti solo per spiegare cosa intendo per “essere cattolico” oggi.

Ricordo che da prete avevo uno spirito guerriero, un combattente che non temeva il nemico, un fiero denunciatore di ingiustizie, uno di quei preti giovani consacrato al proprio gruppetto di giovani, più che alle esigenze dell’intera parrocchia, uno che si spezza, ma non si piega, e infatti…
Questo mio carattere ovviamente mi ha seguito anche dopo aver lasciato la parrocchia. In quel periodo sulla Chiesa ne ho dette di tutti i colori, ma l’effetto è stato quello di non essere più ascoltato, né cercato, né menzionato, neppure nell’annuario diocesano. Questo isolamento mi inaspriva ancora di più in un circolo vizioso di reazioni di allontanamento reciproco dal quale non riuscivo a uscire. Ciò che è peggio è che anche nel mio nuovo lavoro continuavo a sentenziare e a dividere il mondo tra buoni e cattivi, insomma non me ne accorgevo, ma continuavo a pensare da prete.
Poi è successo qualcosa tra me loro, i matti. E lì ho toccato con mano il limite della mia impostazione. Più ero rigido e più si allontanavano, più correggevo e più persistevano nello sbaglio, più alzavo la voce e più ottenevo la stessa cosa dall’altra parte. Notare che questa cosa non me l’hanno fatta capire i libri di teologia o di pastorale, ma alcuni colleghi non praticanti e libri di pedagogia.
Allora mi son detto, non sarò sbagliato io? E non sto forse facendo con loro quello che certi superiori della Chiesa hanno fatto con me?
Ho studiato, ho guardato come facevano alcuni colleghi, mi sono confrontato e ho cominciato a mettermi nei loro panni. Una fatica boia. Te ne torni a casa che ti rovistano dentro, nel cervello e nel cuore e non escono in nessun modo. Li sogni di notte, ne parli con gli amici. Cominci ad accorgerti che stai male come loro. Una sensazione davvero strana.
Ma sono arrivati anche i primi risultati. Qualche sorriso. Qualche apertura. Qualche spiraglio d’intesa per poter dire “ehi, se hai bisogno ci sono”. Come d’incanto eccomi riconosciuta anche l’autorevolezza che non necessita più di autoritarismo, la stima dei colleghi, la sensazione di riuscire a cambiare qualcosa, sentirsi utile e non indispensabile.

Allora ho ripensato al mio rapporto con il vescovo, con i preti più “maturi”, al mio rigetto categorico verso alcuni documenti del Magistero. Ricordo le mie battaglie su questioni di principio, le mie ribellioni, la mia presunzione di essere nel giusto, di essere una vittima innocente, un perseguitato, un incompreso.
Ho pensato che, senza nulla togliere alle colpe degli altri, forse qualche colpa l’avevo avuta anche io. Quanta rabbia nelle mie proteste, quanta fretta di vedere cambiare tutto! Nello scontro frontale tra me ed un colosso come la Chiesa vecchio di duemila anni, ovvio che mi sono fatto male io. Ho dato una testata pazzesca e l’unica cosa che ho ottenuto è stata quella di andarmene con tanta rabbia in corpo e sentimenti di vendetta. Ma quando ho capito che la Chiesa è voluta da Cristo, - questa Chiesa, fatta da questi uomini, è proprio la stessa che Lui ha fondato, - allora ho deciso di riprovare. Non a fare il parroco, ma a sentirmi parte di lei. Se la carta di “mettermi nei tuoi panni” ha funzionato con i matti, perché non dovrebbe funzionare anche con i vescovi?
Non lo dico per sfottere, né è mia intenzione dare del matto ai Pastori. Penso di aver imparato che tutti, persone con problemi e non, credenti e non credenti, troviamo una maggiore intesa quando non ci sentiamo aggrediti dall’altro. Come i miei pazienti, come me, anche il Vaticano di fronte ad attacchi rabbiosi si sente appunto attaccato e reagisce di conseguenza: parata di scudi e minacce d’inferno.
Basta leggere i giornali di questi mesi. Da una parte chi parla degli “attentati della Chiesa” al Parlamento, al pensiero laico, alla scienza, alla libertà di coscienza… e dall’altra le stesse contro accuse in direzione opposta visti come “attentati alla Chiesa”: non c’è giorno in cui Avvenire o l’Osservatore Romano non denuncino subdoli attacchi, o disegni diabolici contro di lei. Questi meccanismi sono molto umani e abbastanza prevedibili, anche se difficili da dominare.

Starci
La sfida non è più, allora, cambiare la Chiesa. Essa resterà sempre peccatrice anche quando l’avremo cambiata. Mettiamo che arrivi un bel Concilio Vaticano III che conceda il celibato opzionale, il sacerdozio alle donne, i sacramenti agli omosessuali e alle coppie con un primo matrimonio alle spalle, ecc…Pensiamo forse che all’improvviso basti questo per non soffrire più a causa della Chiesa? No. Si aprirebbero nuove questioni, nuove sfide, nuovi motivi di incomprensione e di sofferenze.
La sfida non è quella di ottenere a tutti i costi dei cambiamenti, ma è starci dentro.
Vi è oggi un pensiero monolitico che esce dal Vaticano e che riscontriamo anche in molti fedeli. Un pensiero secondo il quale, di qualunque questione si stia parlando, “se la pensi diversamente dal papa non sei cattolico”, anzi sei uno che “attacca la Chiesa”. Noi che la pensiamo diversamente su tante questioni e che allo stesso tempo non vogliamo fondare un’altra Chiesa, abbiamo davanti la sfida di stare in questa Chiesa. Sentirci Chiesa, sì, anche con i papi tedeschi che pensano in tedesco, anche con i vescovi carrieristi che curano l’apparenza, anche con quei preti che si sono macchiati di colpe orribili verso minorenni.
Perché in fondo la vera rivoluzione non sta nel mettere insieme una comunità di simili, ma di diversi. La sfida è lasciar fare allo Spirito, non far passare le nostre idee, ma farle convivere con le altre. Io sogno una Chiesa non dove tutti la pensino come me, ma dove senza scandalo il mio pensiero possa stare accanto a quello di Ruini (ad esempio), ed essere preso in considerazione come il suo.
Quando noi delusi, feriti, ingannati… ce ne andiamo e sbattendo la porta diciamo “non ne voglio più sapere”, facciamo esattamente quello che loro desiderano e quello che prima di noi hanno fatto ortodossi, anglicani, protestanti creando divisione e confusione tra i cristiani. Loro nella fede cercano sicurezze indiscutibili, non fermento. E allora è restando che saremo utili. Senza rabbia, senza sensi di colpa, senza le loro certezze, guardando negli occhi le persone, senza fretta di avere risultati, senza la presunzione di essere sempre nel giusto. Questa presenza umile e fastidiosa è la nostra missione, il nostro servizio profetico.
Diceva B. Haring “Chi non soffre con la Chiesa, a causa della Chiesa e per la Chiesa, non potrà dire una parola valida”.

domenica 18 novembre 2007

L'interpretazione del Concilio

Recentemente ho letto le seguenti affermazioni:
L’interpretazione del Concilio come rottura e nuovo inizio sta venendo a finire. È un’interpretazione oggi debolissima e senza appiglio reale nel corpo della Chiesa. È tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”. Cardinale Camillo Ruini

Esso, per noi, (il Concilio, ndr) è un grande avvenimento, non una rottura, una rivoluzione, la creazione quasi di una nuova Chiesa, l'abiura del grande Concilio tridentino e del Vaticano I, o di ogni altro Concilio ecumenico precedente. Svolta certo vi fu, ma, con immagine stradale, essa non è inversione "a U". C'è stato insomma un "aggiornamento", e il termine spiega bene l'evento, la coprensenza di "nova et vetera", di fedeltà ed apertura, come dimostrano, del resto, i testi approvati in Concilio, tutti i testi.Mons. Agostino Marchetto

Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato ... L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Benedetto XVI, Natale 2005

Cosa sta accadendo al Concilio Vaticano II? Come và inteso? E sopratutto: perchè a 50 anni di distanza si discute ancora su come intenderlo?
Dopo mezzo secolo di dibattiti, di scontri interni e di aperture, la mia impressione è che non potendo eliminarlo, il Vaticano faccia di tutto per normalizzarlo, relativizzarlo ed inserirlo in una storia più ampia e significativa dove esso è un semplice frammento che ormai ha fatto il suo tempo.
Ma tutto ciò che ha detto sulla liturgia, sull'ecumenismo, sulla Chiesa, sulle Scritture, sul rapporto con il mondo intero è senz'altro NUOVO, e ancora da mettere in pratica.
Che ne pensi?