venerdì 18 giugno 2010

Dio è sceso dal trono


Nei momenti di profonda interiorità, quando riusciamo a stare qualche attimo in silenzio, rappacificati con tutto ed in contatto spirituale con il Signore, diventa chiaro - credo a tutti - la sproporzione smisurata tra quello che facciamo noi per Lui e quello che Lui fa per noi.
Tocchiamo con mano la nostra pochezza, ma allo stesso tempo questa sproporzione non è umiliante, non vi è nulla da temere, perchè tra gli eventi della vita siamo sicuri nelle sue "grandi" mani, e in qualche modo sperimentiamo quello che dice il vangelo: il suo inspiegabile interesse per questa nostra pochezza.
Se questo è vero in quei pochi, intensi momenti, lo deve essere sempre, anche quando non lo avvertiamo con la stessa intensità. Se le cose stanno davvero così mi sento di tirare qualche conclusione.
E' Dio che ha messo me al centro, non il contrario. Lui sa farlo, ed io ho bisogno che Lui lo faccia. Non sono io che metto al centro Lui: io che non so fare questa cosa, e Lui che non ha bisogno del mio sforzo. Spogliare Dio delle nostre categorie umane è utile per ristabilire i ruoli, se non le distanze. E' Dio che si è fatto uomo, e nessuno gliel'aveva chiesto. Dio è sceso dal trono. Questo non va dimenticato quando la chiesa, "esperta in umanità", produce una morale di divieti e precetti.
Dobbiamo passare urgentemente, ed in mostruoso ritardo, da Platone ad Aristotele (almeno), cioè dall'idea che il fine dell'uomo è il Bene in sè, eterno e trascendente, a quello che il fine dell'uomo è il Bene per l'uomo. Non si manca di rispetto al Bene in sè, in questo modo, ma anzi lo si incarna in mille modi diversi.
Ma filosofia a parte...
Che senso ha ad esempio dire che la messa festiva è di "precetto"?
Che senso ha legare la confessione auricolare alla possibilità di accostarsi all'eucarestia?
Che senso ha parlare di peccato per atti di cui non si comprende la "peccaminosità"?
E che senso ha parlare di un al di là di cui non sappiamo nulla, quando il nostro problema esistenziale è tutto nell'al di qua?

Se trasformiamo la messa in una cosa obbligatoria, la roviniamo. A sentire certi preti sembra che se non andiamo a messa Dio stesso ne sia risentito, quasi offeso e lasciato solo. Sembra che il non andare a messa, o peggio ancora all'incontrino parrocchiale, sia "peccato", un atto che mina alla base la nostra salvezza. Ed ecco che si fanno strada espressioni come "vado a prendere una messa", bisogna "assolvere il precetto", e aggiungiamoci pure "timbrare il cartellino". Dio ha messo me al centro, non io Lui. Io ho bisogno di Lui, non Lui di me. Se questo è vero, il criterio per cui diciamo che una cosa è giusta e l'altra sbagliata, ammesso che dobbiamo continuare a farlo, non è l'oggettiva partecipazione alla messa, ma la mia condizione interiore. In certi momenti è meglio farsi una passeggiata che andare a messa. Dio può fare miracoli comunque, anche fuori dalle sacre mura. E se "da Lui" ci devo andare per forza il rischio di stancarmi e di buttare via il bambino (appunto Dio) con l'acqua sporca (il prete) è forte.
La confessione legata all'eucarestia rovina sia la confessione che l'eucarestia. "Rovina" significa che mette i presupposti psicologici sbagliati. La confessione va fatta per sè, non per fare la comunione. E' un sacramento in sè, non la preparazione ad un altro sacramento. Io mi confesso perchè ne sento il bisogno, non perchè "è un pezzo" che non lo faccio più, e nemmeno perchè con questa posso accostarmi all'eucarestia. Non parliamo poi se mi "devo" confessare di peccati che sono tali per la chiesa, ma non per me. Fosse anche l'omicidio, il terrorismo o la pedofilia, che serve confessare a parole ciò che nel mio profondo ritengo utile e buono? Forse ingannando un prete penso di ingannare Dio?
L'ultima volta che mi sono confessato mi stavo sforzando di riconoscere alcuni miei grossi limiti con le persone e il frate all'improvviso mi ha interrotto e mi ha chiesto "ma almeno và a messa alla domenica?"
Ma come sarebbe a dire "almeno"? Ma come ti permetti, dico io. Sto facendo una fatica boia, un vero atto di fede a rivvolgermi a Dio sinceramente davanti ad una persona che non conosco, e tu, tra un ruttino e l'altro, mi cambi discorso per andare alla solita messa domenicale?
Passiamo alla comunione. Cosa significa dire che per accostarsi al Corpo di Cristo bisogna essere "puri", "degni", "in Grazia di Dio". Perchè, voi preti che fate la comunione tre volte al giorno e anche più, forse lo siete? Ma poi, la comunione, secondo voi uno la fa perchè è in Grazia di Dio o perchè ha bisogno della Grazia di Dio?! Io mi accosto a quel pezzetto di pane perchè ho bisogno di Lui, perchè sono peccatore - altrochè "in Grazia"- , non perchè sono a posto con Lui, nè tanto meno per farlo contento. Dio è già contentissimo di Suo, senza i miei riti. Sono io che ho bisogno di Lui, non Lui di me!
Vado avanti. Ci sono preti che quando ti confessi ti fanno le domande. In certi casi siamo proprio noi che gliele chiediamo e in altri le domande sono opportune e seguono il discorso che stiamo facendo, ma non sempre. A volte sembra che abbiamo un formulario davanti, una cosa tipo a sinistra il comandamento e a destra la relativa domanda dove un concetto di 3000 anni fa scritto da Mosè viene tradotto in morale ecclesiale del 2010. Tipo "Non nominare il nome di Dio invano" = hai detto bestemmie? Come se c'entrasse qualcosa il dire bestemmie con quanto intendeva proibire Mosè a suo tempo. Ma lasciamo perdere. Il fatto è: io mi confesso, tu prete mi ascolti o no? Sai ascoltare? O pretendi che sia io che devo ascoltare te (per l'ennesima volta)? Se sono 10 anni che non vado a messa cosa ti fa pensare che comincerò oggi? Il fatto che me lo dici tu? Con quel tono, poi?
Molte persone fanno fatica a confessarsi perchè dicono "tanto dico sempre le solite cose". E' vero. Non sappiamo confessarci, d'altra parte non ce l'ha mai insegnato nessuno. Ma di fronte a questa fatica a che serve continuare a dire "intanto vieni lo stesso, vedrai che un pò alla volta il Signore ti aiuterà". Ma che paura di perdere la presa sulle pecorelle! Ma lasciamo che ognuno faccia il suo cammino. Se un gesto non ti dice niente, non farlo. Andare a messa o confessarsi per forza è una controtestimonianza. Meglio farlo un altra volta, quando ne sarai convinto, che confessarsi per obbligo, per timore di non aver detto qualcosa e che Dio se lo tenga segnato in rosso da qualche parte. A volte i preti hanno timore di essere lasciati soli nei loro confessionali, e con certi richiami sembrano voler dire "mi raccomando, torna a trovarmi".
In apertura ho lanciato un ultima domanda: dobbiamo cercare il Bene del cielo o il Bene della terra? Gli occhi vanno puntati sull'aldilà o o sull'aldiqua?
Beh, ancora una volta mi sembra corretto ristabilire le giuste distanze tra noi e Dio. Questo esercizio tra l'altro, è utile per avvertirne la misteriosa vicinanza in certi momenti.
Ci è stato detto che le beatitudini sono la guida del cristiano, e va bene. Ce le hanno spiegate come un disprezzo dei beni terreni per un piacere declinato al futuro che troveremo "nel regno dei cieli". Peccato si siano dimenticati di spiegarci che il mondo biblico non loda la povertà, anzi, se ne vuole liberare, e che quando Gesù dice "beati i poveri" intende dire che il momento della loro liberazione è arrivato, qui, adesso, nel senso che se viviamo come cristiani non ci saranno più poveri. Ma - mi diranno - il testo dice: "beati voi poveri perchè vostro è il regno di Dio" (Luca 6). Già, peccato che il regno dei cieli, o di Dio, non sia esattamente il Paradiso come intendiamo noi, ma Dio stesso, la sua presenza in noi, per accogliere la quale non dobbiamo aspettare di essere nell'aldilà. (cfr. J. Dupont, Le Beatitudini, Ed. Paoline)
Se Dio ci voleva tutti protesi nell'aldilà, nella comunione dei serafini e dei santi, perchè doveva inventare la vita? A che serviva creare l'universo se alla fine è solo d'impaccio, d'ostacolo, tra noi e la beatitudine?
Il paradiso e l'inferno sono qui, tra noi. Quello che sarà dopo lo vedremo, ma per ora quello che conta è il qui e l'ora. Il qui e l'ora "passano" inutilmente se io penso solo a preservarmi, a non contaminarmi, a non vedere, non toccare, non fare... in vista di un premio futuro (o peggio per timore di una punizione futura).
Se io faccio il male, cioè vivo egoisticamente (perchè questo è il male, non accorgersi dell'altro) "sto" male adesso, anche se non mi vengono tumori, vivo fino a 100 anni, rido e me la spasso. Tutto ciò non rende la mia vita meno infernale di un solo grammo. Chi sa donarsi sa questo, lo vive sulla propria pelle, e non ha bisogno di aggrapparsi al Giudice divino per motivare le proprie scelte.
Dio, con suo Figlio, è sceso dal trono dell'eternità, ma a volte sembra che facciamo di tutto per ricacciarlo al suo posto.

sabato 5 giugno 2010

Vivere qualcosa


Devo ammettere: non posso diventare me stesso se non mi apro con dedizione a ciò che non sono, alla realtà che mi sta di fronte. "Vivere" è sempre "vivere qualcosa". Non c'è da nessuna parte un vivere puro e semplice. Posso realizzare me stesso, vivendo, soltanto se mi protendo al di là di me stesso verso ciò che non sono; verso l'ente che mi è davanti: le cose, le persone, le idee, le opere ed i compiti che mi attendono. Divengo me stesso se accolgo quell'ente come oggetto, come contenuto del mio vivere, e vivo per lui, in lui, di lui.

Romano Guardini, Persona e libertà, La Scuola, Brescia, 1987