martedì 25 dicembre 2007

“E il Verbo si fece carne…”


Il prologo di Giovanni sostituisce tutta quella parte che nei vangeli di Luca e Matteo descrive l’infanzia di Gesù, ma mette subito in chiaro, forse meglio degli altri evangelisti, il centro della novità cristiana:
In principio era il Verbo,
ed il Verbo era presso Dio,
ed il Verbo era Dio.
… e il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi 
(Giovanni 1,1;14)

L’incarnazione del Verbo è un evento talmente sconvolgente che perfino i cristiani faticano a credere. “Noi predichiamo Cristo crocifisso – dice san Paolo - scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1 Cor. 1,23). Lo scandalo non è che un tale di nome Gesù sia stato crocifisso, in fondo si trattava di una esecuzione usuale presso l’Impero Romano; il fatto duro da digerire era che quel crocifisso là, fosse il Messia atteso dalle genti. Come noi infatti fatichiamo a pensare il Messia come un vero uomo, i suoi contemporanei faticavano a pensarlo come il vero Dio. L’evangelista riporta la reazione di quelli che lo ascoltavano quando parlava di sé come del “pane della vita”: “Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?” E poi: “Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con Lui”. (Giovanni, cap. 6)
Questa vicinanza, questa “toccabilità” di Dio era difficile da concepire sia per i giudei che per greci e romani. Quando il Cristianesimo comincerà a diffondersi lo farà più per la testimonianza ed il sangue dei suoi testimoni e martiri, che per l'aspetto dottrinale, anzi uno dei principali problemi che la Chiesa dei primi secoli dovette affrontare al suo interno fu quello dell'influenza di una corrente detta gnosticismo, che tendeva a trasformare il Cristianesimo in una filosofia, una sapienza sofisticata che con l'aiuto di Gesù l'uomo trovava all'interno di sé stesso. In questa corrente nascono tanti vangeli apocrifi che poi la Chiesa tenderà ad eliminare proprio perché diversi nella sostanza dall'annuncio dei discepoli.
Questo Cristo così concreto, questa carne così simile alla nostra, scandalizza anche noi, è stoltezza anche per noi cristiani di oggi.
Non prendiamo come esempio un uomo malato, prendiamone uno più o meno normale: anche lui ha avuto pensieri di vendetta, di sopruso, ha detto qualche volta delle sciocchezze, coi compagni di scuola in alcune occasioni sarà arrivato alle mani, è influenzato dalla sua cultura, dalla religione, dalle mode, le regole sociali. Possiamo pensare che Gesù fosse normale in questa maniera? E’ ben difficile. Il massimo che riusciamo a concedere all’annuncio evangelico è che Gesù fosse un uomo, sì, ma diverso dagli altri. E nel momento in cui diciamo: Lui era Dio, Lui era senza peccato, ecco che immediatamente rischiamo di allontanarlo dalla natura umana facendo di Lui un super uomo, un Dio travestito da uomo, un essere superiore che per 30 anni finge di essere un israelita normale e poi manifesta la sua vera natura con miracoli, guarigioni ed esorcismi.
Il fascino che il Cristianesimo sta recuperando in Occidente, in seguito a tutti i problemi di convivenza con l'Islam, mostra in lontananza questo medesimo pericolo: abbracciare il Cristianesimo non per quello che dice, ma per quello che rappresenta a livello culturale.

La reazione gnostica
Non è questa la sede dove soffermarsi su questioni di sociologia della religione moderna. Quello che invece vorrei sottolineare è la novità dottrinale apportata dal Cristianesimo nell'orizzonte del Giudaismo da una parte e della filosofia greca dall'altra.
Il Vangelo dice che Gesù era un vero uomo “essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (Ebrei 4,15), e i Concili della Chiesa Cattolica tornarono più volte su questo argomento, nei primi secoli, per definire in modo definitivo questo assunto, tale era lo scandalo che l’umanità di Gesù arrecava anche all’interno della Chiesa .
Noi oggi proclamiamo tranquillamente il Credo durante la messa, senza problemi. Per noi è tanto vero che “visse sotto Ponzio Pilato” quanto il fatto che Egli è “generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”. Ma la Chiesa, per arrivare a inserire queste affermazioni di fede nel suo Credo ha dovuto patire e non poco. I primi secoli sono stati il tempo delle persecuzioni, come tutti sanno, ma anche della lotta interna alla Chiesa perché tutti si mettessero d'accordo su chi fosse Gesù, e su cosa dire di lui ai pagani.
Lo “gnosticismo”, dicevo, nasce proprio dalla fatica a comprendere come un uomo potesse essere veramente Dio, e viceversa, come Dio, potesse essersi fatto veramente uomo. Il pensiero greco, appunto tramite la gnosi, reagì a modo suo al dilagare del messaggio cristiano, cercando di renderlo comprensibile secondo le proprie categorie. E la Chiesa, che pure ancora non sapeva bene neanche lei come interpretare tante frasi dei vangeli dovette lottare, condannare, espellere quella filosofia che tendeva a trasformare Gesù in un maestro che indicava la strada di una illuminazione interiore, di una ascesi, che con i suoi insegnamenti permetteva all'uomo di elevare il proprio spirito per vivere secondo una morale che con i soli istinti non sembrava raggiungibile. Questo Gesù molto simile a Socrate, maestro del “conosci te stesso”, “rientra in te stesso”, e slogan simili, non era quello tramandato dagli apostoli. Si dovette fare una scelta tra i tanti vangeli che erano in circolazione, proprio perché la maggior parte di essi, di dubbia origine, dava maggior spazio al Gesù maestro e mistagogo che impartisce insegnamenti, mentre altri, quelli che oggi conosciamo e che la Chiesa indicò come canonici, indicavano che non le parole di Gesù erano la via all'illuminazione, ma Lui stesso, la sua presenza, la sua persona. E questo emerge in modo inequivocabile soprattutto nel vangelo di Giovanni.

Gnosticismo di ritorno?
La Chiesa oggi ribadisce con forza che essere cristiani significa credere in Gesù Cristo, avere un rapporto personale, di fiducia con Lui, ma lega questo annuncio a tutta una serie di conseguenze morali che distraggono dal punto centrale.
Dove sono le tracce di quello che potremmo chiamare “gnosticismo di ritorno”?
Farò solo alcuni esempi.
I gruppi gnostici adottavano una filosofia nettamente dualistica:
1. c’è il bene ed il male,
2. l’anima ed il corpo,
3. il Dio buono trascendente e quello cattivo creatore.
Il tentativo illusorio di separare tutto il bene da tutto il male, esplicitamente condannato nella parabola del grano e della zizzania (Matteo 13, 24-30) è una tentazione di onnipotenza, di anticipo della fine dei tempi, e la vedo nell’interventismo eccessivo degli esponenti ecclesiastici su questioni politiche o morali, in cui di certezze se ne hanno ben poche.
Sulla separazione tra anima e corpo credo non sia necessario fare tanti esempi: nonostante la Chiesa abbia sottolineato a parole il valore positivo del corpo, continua a temere i rapporti sessuali, ad esaltare il celibato come segno di distacco dal mondo, a tenere in posizione subordinata le donne, ad esaltare come modelli dei santi che hanno maltrattato e trascurato i piaceri corporali. Non solo, talvolta essa, al pari dei greci di un tempo, sembra quasi scandalizzata dall'umanità in Gesù, ad esempio quando insiste nel dire che Gesù era come noi, ma senza peccato. Questo annuncio, pur essendo dottrinalmente corretto, ha ottenuto l’effetto di allontanare il Gesù storico dalla sua umanità trasformandolo nel tempo in qualcosa di diverso dal Cristo della fede . Tutta protesa nel difendere l’infallibilità del suo fondatore (e giustificare di conseguenza anche la propria), la Chiesa, lo ha trasformato in un santino con l’aureola, che non si muove, non ride, non sbaglia, e sta sempre sul punto di benedire o guarire qualcuno. Le persone in questo modo non sono sollecitate ad imitarlo, ad essere anch’esse senza peccato, ma sono tornate a pensare alla vecchia maniera: lo sapevamo che non era proprio come noi, Lui è senza peccato, noi invece restiamo i soliti peccatori. In questo modo l’uomo che sbaglia, anziché pensare che Gesù lo ha redento così come è, - come è successo al figliol prodigo, a Zaccheo, a Matteo, a Pietro, a Paolo, ecc… - pensa alla distanza tra noi e Lui. Gesù è di nuovo lassù, alla destra del Padre, lontano da noi, e speriamo che chiuda un occhio sulle nostre miserie. Che siano in Tre o sia Uno solo, in fondo ci interessa poco, purchè vadano d’accordo e se ne stiano sempre vicini tra Loro.
Invece la nostra fede insegna che uno dei Tre, “pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini…” (Filippesi 2,6-11). Ed è questo che fa del cristianesimo una religione diversa dalle altre.
Un terzo caposaldo della gnosi è quello della separazione tra il Dio buono e quello cattivo. La Chiesa ufficiale non può certo dire come facevano gli gnostici che la creazione è opera di un dio cattivo che ci butta in questo mondo per farci soffrire (demiurgo platonico), però di fatto la mentalità religiosa nella quale ci troviamo dice che prima si esce da questa “valle di lacrime” e meglio è. L’insistenza sulla lotta tra bene e male, tra potenze della luce e potenze delle tenebre, tra Dio e Demonio, ha inevitabilmente l’effetto di farci sentire come spettatori di uno scontro tra titani in cui noi possiamo fare ben poco a parte stare a guardare e sperare che vincano i buoni. Ma questa logica porta al disimpegno e alla ricerca di interventi divini e miracolosi.

Uno come me
Ero partito in questa riflessione dal Vangelo di Giovanni, nel tentativo di riscoprire quanto sia ancora originale e da scoprire il mistero dell’Incarnazione; mi sono fatto trasportare dalla denuncia di quei pericoli che attanagliavano lo stesso Giovanni: i pericoli espressi dallo gnosticismo che tende a trasformare in morale paralizzante un contenuto puramente religioso. Ma ora, prese le distanze da chi tenta di indottrinare il vangelo e costringerlo nei meandri di un pensiero che cerca in sé stesso la propria illuminazione, mi lascio andare alla descrizione più positiva che questo annuncio, preso integralmente, ha sulla nostra vita.
Il Figlio di Dio… ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha amato con cuore d’uomo” ha detto la Gaudium et Spes n° 22, e questo modo di intendere il vangelo mi pare apra le porte a pensiero di ampio respiro.
Ha lavorato con mani d’uomo” non significa forse che si è pure ammalato, si è stancato, si è trovato alle prese con situazioni che non vanno come dovrebbero, con persone disoneste, ecc…?
Ha pensato con mente d’uomo” non significa che a volte è rimasto confuso, indeciso, che si è anche lui arrabbiato, che ha fatto nel sonno sogni inquieti, e tutto ciò che comporta il pensare come pensa un uomo?
Ha amato con cuore d’uomo”, infine, non significa che ha provato anche Lui i turbamenti dell’amore? La gioia, l’esuberanza, l’attrazione fisica, ma anche i sensi di colpa, la fatica ad incontrare certe persone, la rabbia di fronte alla perdita di persone care, la solitudine, la difficoltà a capire il punto di vista dell’altro.
Se così stanno le cose bisogna dirlo chiaramente . Sono tante le cose che non sappiamo sulla vita di Gesù, ma che fosse un uomo come noi, questo lo sappiamo, e ciò che ne consegue non è di poco conto.
Uno come noi significa che poteva essere come uno dei miei tanti amici. Uno di quelli che sento ogni tanto, uno che incontro al lavoro, un vicino di casa. Uno così normale che ti verrebbe da dire: perché lui e non io? Che ha di speciale quello lì?
Te lo immagini un Gesù che esce in bicicletta con te, che parla del più e del meno, che magari ti chiede di rallentare perché è fuori allenamento? Direi che è molto diverso da quello che sta nelle immagini sacre, nei crocifissi, nelle sculture benedicenti delle nostre chiese. Lo abbiamo messo in alto, ma così in alto, che è finito di nuovo lontano, quel Gesù di Nazaret. Invece Lui camminava per le strade poco importanti, dei paesi di confine, e parlava con le persone che non contano niente. Noi ci inginocchiamo, ci facciamo il segno della croce, lo preghiamo… e dimentichiamo che pur essendo di natura divina era anche di natura umana.
Il fatto di essere stato uomo, non significa che il Verbo di Dio abbia fatto tutte le esperienze umane. No, proprio perché era umano non ha provato tutto: non è stato combattente in guerra, sembra che non sia stato padre e marito, non è stato anziano, nonno, immigrato, malato di cancro, ecc… ma è stato umano, quindi limitato, quindi come noi. Anche Lui avrà avuto un po’ del mio mal di schiena, febbre, mal di gola, mal di denti e cose simili, altrimenti – per favore - evitiamo di dire che era umano.
Ma se Dio è stato umano come me, lo è stato per dirmi qualcosa. E cos’altro voleva dirmi se non che la mia vita è preziosa? La mia carne, la mia giornata concreta, non quella ideale, non quella a cui aspiro, ma quella del giorno che sta per tramontare: questa banale giornata uguale a mille altre, per Lui è preziosa tanto che l’ha vissuta non standosene lassù, dove tutto è perfetto e gioioso, ma venendo a vederla dalla mia parte.
Come dice Giovanni “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio…” (1 Giovanni 4,10).
E' un messaggio liberante. La mia dignità non dipende da me! C'è, è un dato di fatto, perché Dio si è fatto come me: io posso fregarmene, buttare la mia vita nei rifiuti, ma essa vale. La salvezza non è per gli intelligenti, né per i monaci, né per chi eccelle in qualunque caratteristica umana (questo sostenevano gli gnostici). Quando si tratta di andare in paradiso, o di essere preziosi agli occhi di Dio, mia nonna analfabeta conta come il papa; e un ritardato mentale gravissimo – che non conosce il significato della parola “Gesù” e probabilmente non ha mai ricevuto neppure i sacramenti – conta come un insegnante di Teologia.

lunedì 24 dicembre 2007

Aristotele, Tommaso, Ratzinger

L’ultima Enciclica – la Spe Salvi - ha sciolto ogni dubbio.
Non si può comprendere Ratzinger senza comprendere la filosofia greca, in particolare Aristotele, e la relativa cristianizzazione che ne ha fatto San Tommaso d’Aquino nel Medioevo. Non è certo la prima volta che un documento Magisteriale loda “l’angelico dottore”, ma le pagine di questa Enciclica ruotano particolarmente attorno ad una filosofia dell’Essere, “la grande filosofia greca” (28), che pare intramontabile e insostituibile. Da essa deducono valori, comportamenti, indicazioni per i cristiani di oggi come per quelli di ieri.
Con queste pagine vorrei mostrare come e perché siano collegati personaggi così lontani, e soprattutto mettere in rilievo il fatto che mentre Aristotele e Tommaso per i loro tempi furono dei veri rivoluzionari, artefici di una svolta epocale, il loro riciclaggio nei nostri giorni sia segno di una Chiesa che non vuole pensare più sé stessa come realtà in trasformazione, anch’essa limitata nel tempo, ma definitiva, sicura di sé, come della fede che custodisce.

Platone e Aristotele
La filosofia greca ha certamente rappresentato nei secoli che hanno preceduto l’era volgare il tentativo più grande di comprendere il senso delle cose con il solo uso della ragione.
Non è stato l’unico tentativo , ma di certo il più riuscito, capace di modellare la lingua, il sistema politico e la religione Occidentale per molti secoli a venire. In un mondo dominato ovunque dalla cieca obbedienza al potere religioso e politico, il mondo greco si è trovato in una fase di sviluppo economico e con una libertà di pensiero che gli hanno permesso di intraprendere una via diversa dalle altre. Grazie alla Grecia nasce infatti la filosofia i cui suoi principali esponenti sono stati indubbiamente Platone ed Aristotele (IV secolo a. C.). Con loro la filosofia compie un salto di livello, passando dal chiedersi il perché delle cose, al perché dell’uomo. Non è più la presenza delle stelle, del fuoco, del cielo e della terra che pongono domande al filosofo, ma il senso dell’agire e del fare dell’uomo stesso. Nasce insomma il problema “morale”, quel interrogativo che porta ancora noi oggi a chiederci cosa è bene e cosa è male, cosa lecito e illecito.
L’impostazione di Platone e Aristotele porta a supporre, al di là del mondo fisico, un mondo metafisico, che cioè và oltre il piano fisico, non si vede, e spiega quello che si vede e verso il quale tutto ciò che è visibile tende. Entrambi arrivano anche a supporre l’esistenza di Dio. Ma mentre per Platone la materia è unicamente un peso, una zavorra negativa dalla quale l’uomo deve cercare di liberarsi per lasciar tornare la propria anima al mondo puro delle Idee, Aristotele tenterà una rivalutazione della materia, vedendo in essa una tensione, un movimento positivo, verso l’Essere puro e imperturbabile. Ogni cosa, anche il nostro corpo, “tende” all’Essere supremo, a Dio, senza mai raggiungerlo. Il Dio di Aristotele ovviamente non è il Dio cristiano, è descritto solo come una “Causa”, una spiegazione necessaria a tutto ciò che si muove e muta nel tempo. Egli lo definisce l’Atto puro, il Motore immobile, la Causa finale di tutto.
Se l’uomo può arrivare a ipotizzare l’esistenza di Dio senza l’ausilio di una fede o di una religione, ciò significa che possiede una facoltà, la ragione, molto preziosa e “buona”. Non stanno così le cose per Platone, che invece non vede nulla di buono nella materia e apprezza la mente umana solo nella misura in cui “ricorda” il tempo in cui l’anima viveva nel mondo delle Idee, disgiunta dalla gabbia del corpo che momentaneamente la obbliga su questa terra. Questa idea di Platone, con le dovute correzioni, ha fornito ad s. Agostino la base per una prima solida filosofia cristiana. In essa ovviamente ebbe un grande risalto lo studio per la Sacra Scrittura, vista come l’unica porta di comunicazione tra l’al di qua e l’al di là, l’unico modo per conoscere qualcosa di Dio.
Ovvio che non si può trattare due filosofi di tale portata in dieci righe, però questo passaggio, pur veloce, mi serve per dire che pochi secoli più tardi, con l’espansione della Chiesa nascente verso il mondo greco e latino, la nuova fede ha inevitabilmente cercato un appoggio razionale in questa filosofia. Le definizioni dogmatiche dei primi 8 Concili (cioè prima che avvenisse lo scisma con la Chiesa d’Oriente, nel 1054) risentono molto di concetti e termini che attingono dalla filosofia greca.
Nei primi secoli dell’era cristiana, di fronte a problemi legati a correnti filosofiche come lo gnosticismo o il manicheismo è stata l’impostazione platonica ad avere la meglio, in particolare grazie all’opera colossale di sant’Agostino che con il suo contributo ha influenzato il pensiero teologico e filosofico della Chiesa fino al Medioevo; poi nel XIII secolo è stata la volta di Aristotele, grazie ad un altro grande pensatore cristiano, appunto san Tommaso.

Tommaso
Nel Tardo Medioevo vari eventi preludono l’avvento di cambiamenti importanti. Nascono le prime università (Parigi, Bologna, Padova, Oxford, Praga…), le idee circolano su carta stampata, il mondo arabo si muove nell’area del Mediterraneo e porta con sé soprattutto in Sicilia ed in Spagna alcuni elementi che influiranno anche sulla nostra cultura: i numeri con il sistema decimale, elementi di matematica, i nomi delle stelle e pure il pensiero di antichi filosofi greci che fino ad allora erano rimasti sconosciuti, come appunto Aristotele.
La Chiesa ha fatto una certa fatica a ripensare la propria fede con categorie filosofiche nuove, tant’è vero che a lungo il povero Aristotele è stato visto come un pericolo ed portatore di disordine e fumo satanico, in un castello teologico che ormai sembrava inattaccabile.
Ma la pressione di nuove conoscenze, il movimento culturale che nei secoli a venire portò alla nascita della scienza ed alla conquista di un suo settore distinto da quello della teologia, fecero sì che sempre più diffuso fosse avvertita come insufficiente l’impostazione di Platone, che risentiva di un concetto troppo negativo della natura e che, per l’insegnamento di Agostino, attingeva ogni sapere dalla sola Sacra Scrittura. Aristotele invece si presentava come un pensatore capace di salvare la metafisica senza disprezzare la fisica, anzi proponendo una sua suddivisione della materia piuttosto articolata e completa.
Uno dei primi sostenitori dell’armonia tra pensiero cristiano e filosofia aristotelica fu Alberto Magno. Lui ed altri pensatori dell’epoca sostengono la possibilità che si possa arrivare con la ragione, indipendentemente dalle Sacre Scritture, considerate fino ad allora l’unica fonte di sapere, a conclusioni molto simili a quelle a cui aveva portato la fede cristiana. Questa separazione tra fede e ragione ovviamente preoccupava le autorità ecclesiastiche, ma allo stesso tempo offriva una grande occasione, perché se la ragione arriva da sola alle stesse conclusioni che la Scrittura ci rivela per fede, le Scritture (e quindi la Chiesa) ne escono di certo rafforzate e ancor più credibili.
Aristotele offre dimostrazioni logiche dell’esistenza di Dio e questa possibilità attira molti talenti emergenti, ben disposti verso il nuovo.
Nasce quindi il grande dilemma del rapporto tra fede e ragione. A titolo esemplificativo faccio solo un accenno alla reazione del Francescanesimo che in quel periodo prendeva piede in tutta la cristianità. Esso era completamente “agostiniano” e vedeva con orrore le idee di Aristotele. Il suo esponente più prestigioso in campo teologico fu San Bonaventura, il quale era contrario al confronto con una filosofia non cristiana proprio perché supponeva l’autosufficienza arrogante della ragione di fronte alla fede. Bonaventura insegnava che la ragione può scrivere solo ciò che la fede detta e che di fronte all’arduo compito del cristiano di avvicinarsi a Cristo “occorre dare poca importanza all’indagine e molta all’unzione, poca alla lingua e molta alla gioia interiore, poca alla parola e ai libri e tutta al dono di Dio, cioè allo Spirito Santo, poca o nulla alla creatura e tutta al Creatore”.
La Chiesa, pur combattuta, continua a rifiutare Aristotele nel timore che la sua “ragione” sembra salire sullo stesso trono della fede, finchè Tommaso, discepolo di Alberto, non trova la soluzione che – col tempo - mette d’accordo tutti.
Tommaso, in sostanza, accetta e valorizza la ragione, ma la sottomette all’autorevolezza della fede. Questo significa che abbiamo due modi di “conoscere”. Uno ci viene dall’alto, ed è la Rivelazione, e lo si accoglie per fede; l’altro è dal basso, ed è costituito dalla nostra ragione, di cui Aristotele ci mostra il potere espositivo e persuasivo. Ovvio che la ragione così intesa non può mai contraddire la fede, e quando lo fa significa che ha imboccato una strada sbagliata.
Ovvio anche che Aristotele non conosce la Verità rivelata e allora occorre correggerlo per trasformare il suo pensiero in una filosofia nuova, cristiana, senza quelle sbavature che potrebbero portarci lontano dalle Sacre Scritture. L’idea che si possa conoscere per fede, infatti, non appartiene alla filosofia greca che parla di Dio solo nella misura in cui gli serve una spiegazione per ciò che con la sola natura non si riesce a spiegare (l’origine dell’universo, dell’uomo…). Aristotele poi sostiene che la materia è eterna e non è creata da Dio (l’idea della creazione dal nulla è biblica), e su questo ovviamente non si poteva acconsentire.
Tommaso quindi “cristianizza” questi aspetti e fonda tutto il suo pensiero sull’alleanza tra fede e ragione, la quale è preambula fidei, e può dirci qualcosa di quella Verità che la fede ci svela senza ombre e senza fatica. Su queste basi Tommaso descrive le famose cinque vie, attraverso le quali, sostiene, la ragione da sola può arrivare ad accettare l’esistenza di Dio.
Il legame di dipendenza tra fede e ragione porta schematicamente a suddividere una legge divina, una legge naturale, e una legge umana. Per discesa l’una si deve riversare nell’altra, come abbiamo visto, e ciò comporta che la legge umana, in fondo alla scala, può fondarsi o per Grazia direttamente sulla Rivelazione o anche sul rispetto della legge naturale, la quale come appena detto, è conoscibile con la ragione ed è specchio della legge di Dio.
Questa terminologia oggi crea qualche corto circuito che vedremo tra poco, certo però è che per i suoi tempi la sintesi filosofica di Tommaso fu rivoluzionaria . Egli introdusse infatti nella riflessione teologica il rispetto della ragione in sé stessa, seppur non ancora autonoma rispetto alla fede: una ragione che conosce Dio attraverso la natura. Se pensiamo che fino ad allora era vero solo ciò che era scritto nelle Sacre Scritture, o in loro alternativa la parola dell’Imperatore, del Papa o del Re, ci rendiamo subito conto che il passaggio è stato grande. Ora infatti si inizia a discutere se una legge umana è secondo natura, e non più se è il volere del potente di turno.
Tommaso viene canonizzato nel 1323 da Giovanni XXII e da quel momento la sua impostazione filosofica divenne sempre più ufficialmente approvata all’interno del Magistero ecclesiastico, diventò la guida portante del Concilio di Trento , e da lì continuò a illuminare i documenti papali fino ai giorni nostri.
Nei secoli seguenti la scienza vide uno sviluppo enorme e quello che la Chiesa temeva si realizzò: la ragione se ne andò per la sua strada, pretendendo con sempre maggior forza di fare a meno della fede. La ragione mise in discussione persino sé stessa e le sue fondamenta, abbandonando poco a poco quel metodo deduttivo che la faceva partire sempre da verità prestabilite, per dare spazio all’osservazione della natura. Una svolta epocale fu quella segnata dalla vicenda di Galileo, che partendo dalla “ragione” valorizzata da Aristotele arrivava a confutare le sue stesse tesi sul cielo e gli astri, tesi che appunto risentivano troppo di “deduzioni” di tipo filosofico, e non usufruivano dell’osservazione scientifica .
Da qui secoli di condanne e accuse reciproche, fino a tornare nell’ultimo secolo all’unica sintesi che ai vertici della Chiesa sembra possibile, quella appunto di Tommaso. Peccato che nel frattempo siano passati otto secoli.

Ratzinger
Tutti sono oggi a conoscenza del forte legame che ad esempio papa Benedetto XVI ha con la filosofia greca. Lui stesso d’altronde la difende con orgoglio, come ha fatto ad esempio al famoso discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006 . Non è però per fare una critica al suo pensiero che ho scritto queste pagine. Penso che egli, con la sua formazione rappresenti bene un intero Magistero che si ostina su tale strada , a parte la breve parentesi del Concilio Vaticano II, e forse non è un caso che proprio un cultore degli antichi greci e della Scolastica sia stato eletto al soglio pontificio nel 2005.
Il problema è, come già accennato, che questa filosofia, da Galileo in poi, non è più sufficiente per sostenere la fede cristiana ed il confronto con il pensiero laico.
Vediamo sinteticamente alcuni nodi problematici:
La ragione non può essere sottomessa alla fede.
Ai tempi di Tommaso il mondo era molto più ristretto. Non vi erano tante religioni, né atei con cui confrontarsi. Non era proprio previsto il concetto di confronto e le Crociate stanno lì a dimostrarlo. Oggi possiamo presentarci al mondo continuando a sottomettere la ragione alla fede? Io non credo. Non si può dialogare con un ateo dicendo che la sua ragione è vera ragione solo se non contraddice la fede o se è “illuminata dalla fede” . E non si può dire ad un cattolico che sì, deve seguire la sua propria ragione, ma a patto che questa sia uniformata ai dettami del Magistero . Come si può pensare che la ragione, per quanto rispettosa della fede, riesca ad accettare il mistero dell’Incarnazione, la Resurrezione, l’Immacolata Concezione, e via dicendo, fino ai miracoli e alle apparizioni mariane sempre più invadenti all’interno del mondo cattolico?
E poi c’è il problema dell’infallibilità . In ambito psichiatrico non è ritenuto un gran bel segno ritenersi infallibili, e comunque resta difficile dialogare con una istituzione infallibile. Se è infallibile non c’è dialogo, c’è solo ascolto dei suoi dettami.
Quando il Papa parla di fede e ragione, di quale fede parla? Di quale ragione? Si rende conto che la fede giusta è solo la sua e la ragione “retta” è solo quella che và nella direzione della sua fede? Chi non crede come può, in onestà verso la sua ragione, accettare un discorso simile? A mio parere sarebbe più onesto dire che la fede è fede e la ragione è ragione. E se non si incontrano, non sempre si dovrà cercare l’errore nella ragione, ma umilmente dovremo qualche volta chiederci se abbiamo ben interpretato la nostra fede (vedi la lunga diatriba sull’evoluzionismo, sul modo di interpretare la Bibbia, sulla separazione tra Chiesa e Stato, sull’accettazione della democrazia…).
Cos’è la natura?
Continuare a pretendere che la legge degli uomini attinga dalla legge naturale, che a sua volta è voluta dalla legge divina, mi pare pretestuoso. Certo sarebbe bello, se fosse possibile, ma come possiamo oggi continuare a parlare di legge naturale, dopo che abbiamo visto con tutti gli studi sull’evoluzione delle specie, che tali leggi sono così adattabili all’ambiente e alle esigenze di sopravvivenza? La Chiesa dai tempi del Medioevo in poi ha cambiato l’argomentazione, ma non la sostanza del suo intervento. Prima diceva: “le cose stanno così, come diciamo noi, perché lo dice la Bibbia”; dopo Tommaso ha imparato a dire: “le cose stanno così, come diciamo noi, perché sono scritte nella natura, quindi sono alla portata anche di chi non crede”. Con questo sistema si sono dette cose terribili. Ai tempi di Giovanna d’Arco se una donna portava abiti maschili era visto come un atto contro la legge naturale. I papi a cavallo tra il XVIII e XIX secolo hanno ripetutamente preso le distanze da quella strana idea nata nella Rivoluzione Francese che gli uomini sono tutti uguali. E lo hanno fatto adducendo che la disuguaglianza e la distinzione in classi sociali è scritta nella natura. Per non parlare della libertà di coscienza o della democrazia. Tutte cose che oggi la Chiesa accetta tranquillamente.
Ciò nonostante ancor oggi troviamo nel Catechismo l’affermazione che “la legge naturale è immutabile e rimane inalterata attraverso i mutamenti della storia” . Frase che si cerca di far passare come una citazione del Concilio Vaticano II, il quale però, dice una cosa un po’ diversa .
In realtà il concetto di natura non sembra più così chiaro come ai tempi di Tommaso: possiamo dire che un omosessuale dalla nascita è “contro natura”, se la natura stessa lo ha partorito? E se è contro natura l’omosessuale non dovremo dire altrettanto per il down, lo schizofrenico, il ritardato mentale? E a proposito di andare contronatura, che dire del celibato obbligatorio dei preti o della riprovazione verso la masturbazione?
Gli effetti di una filosofia definitiva
A ben pensarci l’idea che le regole del gioco siano scritte da Altri, siano eterne ed evidenti (che siano frutto della Natura o della Rivelazione) ha un duplice effetto psicologico da non sottovalutare. In primo luogo ci mette nelle condizioni di conoscere la Verità, di possederla, di averla raggiunta una volta per tutte: è lì, scritta a chiare lettere, incontrastabile. Non c’è bisogno di rinnovamento, di aggiornamento, quando si “sa” tutta intera la verità: e questo lo si vede nel ritorno della lingua liturgica eterna, il latino, o nel recupero del canto gregoriano. Ma anche in questioni più importanti quali la famiglia, modello di convivenza che continua ad essere proposto come l’unico possibile “secondo natura”.
In secondo luogo questo sistema porta l’uomo a deresponsabilizzarsi di fronte ai valori. Essi sono eterni, immutabili, indifferenti, che li si segua o no. E io nel mio piccolo, dove credo di andare? Ben diverso sarebbe il discorso se la Verità fosse la mia sfida personale, ciò che devo scoprire, sempre più in là rispetto alla mia conoscenza di essa.

Una nuova filosofia
Questi sono alcuni problemi che pone oggi una impostazione teologica troppo legata a Tommaso ed esplicitamente sposata da papa Woitjla e papa Ratzinger. Ma all’orizzonte alcune proposte ci sono e forse troppo velocemente sono state cestinate.
L’Esistenzialismo a mio parere ha in sé una alternativa valida al pensiero elaborato dalla Scolastica, e potrebbe essere “cristianizzato”, proprio come in passato Tommaso ha fatto con Aristotele.
Come movimento filosofico nasce tra le due guerre mondiali ed esprime una crisi delle certezze a cui aveva illuso la ragione “positivistica”. L’uomo che pensava di dominare il mondo intero e sé stesso con le nuove conoscenze e possibilità, sperimenta il proprio fallimento con guerre mai viste prima, appunto dalla portata mondiale, e con il ritorno di ideologie totalitarie. La realtà, nel XX secolo, non è più identificabile con la razionalità.
Al centro dell’Esistenzialismo sta appunto l’esistenza dell’uomo, essere limitato. Tale esistenza però non è vista come una cosa data per natura, non è cioè come indicava Tommaso una realtà predeterminata e non modificabile. L’esistenza è possibilità, poter essere, è ciò che ogni uomo ha deciso per sé, di essere. E’ tensione verso… il mondo, gli altri, la libertà, il nulla, oppure anche Dio. Ecco perché in questo nuova filosofia vi è spazio anche per una applicazione teologica.
Mi pare chiaro che le verità oggettive, troppo spesso credute per dovere o per obbedienza, in questa nuova prospettiva vengono scalzate o comunque messe in discussione da quelle soggettive. Il rischio è che non vi sia più nulla di sicuro e stabile, ma certo viene riconsiderato di molto quello che il singolo uomo vive, sente, capisce e ritiene valido per sé. Ed il cristianesimo non potrebbe forse oggi ripartire da qui?
Pensiamo a quante verità oggettive allontanano le persone dalla fede. Personalmente ricordo come una profezia di sventura quando ancora giovane seminarista il vescovo mi disse “il dover essere deve coincidere con l’Essere”. Ma quello era un caso limite, allora veniamo a ciò che tutti possono vedere: pensiamo alle coppie omosessuali, che “secondo natura” sono nell’errore, ma secondo coscienza spesso manifestano amore genuino. O ai rapporti prematrimoniali, contrari al diritto naturale (?) secondo la Chiesa, ma praticati senza problemi ormai da tutti, cattolici e non. O alla masturbazione: serve ancora vederla come un atto contronatura, un atto “oggettivamente” errato, oppure non sarebbe per caso meglio evitare questi discorsi che creano nel ragazzo solo frustranti sensi di colpa per vederla come una fase della vita, un momento del proprio cammino personale, certamente non definitivo, ma importante per uno sviluppo psichico normale? E che accoglienza ha avuto una enciclica come l’Humanae vitae in cui vengono proibiti indiscriminatamente tutti i metodi anticoncezionali? E che dire poi dei divorziati risposati, o di chi desidera un figlio con la fecondazione artificiale, o dei Piergiorgio Welby che chiedono di morire…
La filosofia greca ha trascinato il Cristianesimo in un vicolo senza colori, dove tutto è bianco o nero, giusto o sbagliato, bello o brutto e non esistono vie di mezzo. Questo, a conti fatti, è un bel guaio, soprattutto se lo si considera un modello definitivo ed irrinunciabile .
Mi pare evidente che a seconda del tipo di filosofia che sotto sta al Cristianesimo, se ne deducano conseguenze diverse, e le conseguenze dell’impostazione Tomista oggi sta portando ad un rifiuto, ad un’incapacità di capire l’altro, ad una distanza sempre maggiore dai problemi della gente. La purezza dell’Essere così come è descritta da Tommaso oggi pone problemi ingombranti, perché è sempre più chiaro che la vita non è come dovrebbe essere. La vita della maggior parte delle persone “è quel che è” e ripetere ossessivamente “non dovrebbe essere così” non serve più di tanto.
Come dice bene una poesia di Erich Fried (1921 – 1988)
E’ assurdo, dice la ragione
E’ quel che è, dice l’amore
E’ sfortuna, dice il calcolo
E’ nient’altro che dolore, dice l’angoscia
E’ inutile, dice il giudizio
E’ quel che è, dice l’amore
E’ ridicolo, dice l’orgoglio
E’ sventato, dice la prudenza
E’ impossibile, dice l’esperienza
E’ quel che è, dice l’amore

Mauro Borghesi

lunedì 10 dicembre 2007

Il Gesù di Ratzinger

Contesto
Il libro “Gesù di Nazaret” di Ratzinger (la prima parte), ampiamente preannunciato, viene pubblicato nell’aprile 2007. Si tratta, come lui stesso sottolinea, non di un documento magisteriale, ma del frutto “della mia ricerca personale del volto del Signore”. In ciò l’autore non solo rispolvera la sua vocazione di studioso e scrittore, ma si inserisce in quel nuovo solco di testi scritti da papi, che tentano di superare la distanza dalla gente comune dovuta al prestigio dal ruolo che rivestono, per mostrarsi meno formali e rigidi con testi “personali”, con linguaggi più narrativi e colloquiali. Avevamo già assistito con Giovanni Paolo II alla pubblicazione di testi quali ad esempio “Varcare la soglia della speranza”, “Alzatevi, andiamo!” o “Memoria e identità” pubblicato solo due mesi prima della morte. Il successo di questa nuova linea editoriale mostra come il Vaticano negli ultimi decenni abbia cominciato a rendersi conto dell’inefficacia dei suoi documenti ufficiali e si sia di conseguenza adoperato per battere nuove strade, come appunto quella di sfruttare la figura carismatica del papa, sempre più simbolo della Chiesa Cattolica, e figura di riferimento sicura e salda per tutto il mondo occidentale, anche non espressamente cristiano.
Recentemente poi, diversi film e libri più o meno seri, hanno riacceso l’interesse per il personaggio storico Gesù, ed in questo contesto il libro del papa suona certamente come un atto di riappropriazione dell’evento Gesù, e un tentativo di rimettere ordine dove altri hanno portato scompiglio.
Addentriamoci ora nel testo.

Il libro di Ratzinger
Il libro supera le 400 pagine, ma la sua lettura, soprattutto nella prima parte, mantiene la promessa di non essere troppo pesante, né lo scopo è quello di dire tutto quel che si può dire su Gesù. I caratteri di stampa sono piuttosto grandi e le pagine non troppo fitte, il chè facilita la lettura e ci dice ancora una volta che si tratta di un messaggio rivolto al vasto pubblico, non a specialisti della Bibbia. La copertina mette in grande risalto il nome da papa di Ratzinger, il chè è un po’ in contraddizione con il desiderio di essere letto non come papa, ma come semplice studioso che parla della sua ricerca personale. Certo, la scritta “Benedetto XVI” aiuta a vendere molto più di “Joseph Ratzinger”, ma ad un primo impatto la cosa mi ha lasciato piuttosto perplesso, tanto che leggendo di seguito autore e titolo – che occupano l’intera copertina – mi sono chiesto per un attimo se fosse un libro del papa su Gesù o non, viceversa, un libro di Gesù su Benedetto XVI.
Lo stile adottato dall’autore è omiletico, esortativo. Da subito si comprende che non è un libro di esegesi biblica, non di teologia, non di spiritualità, né di morale. E’ un po’ di tutto questo, nel tentativo di affrontare velocemente ed in modo semplice questioni piuttosto articolate e complesse. Riguardo ai contenuti sono rimasto un po’ deluso, soprattutto perché avendo già letto in passato qualcosa di Ratzinger so che può fare di meglio. Non ho avvertito in lui il desiderio di fare un passo in avanti nella ricerca della verità su Gesù, quanto piuttosto il bisogno di rimettere i puntini sulle i, mettere in chiaro ciò che non si può dubitare, o – in termini calcistici – rimettere la palla al centro. Sostanzialmente vengono dette tutte cose ben consolidate dalla tradizione ecclesiale. L’unica differenza tra Benedetto XVI ed il Ratzinger teologo, alla fine, mi pare più nei toni e nello stile che nei contenuti.
Tra le parti più interessanti vi ho trovato la premessa e l’introduzione. Nella prima viene affrontato e smontato il dubbio riguardante la validità storica dei vangeli, un argomento che per me è centrale e sul quale speravo si soffermasse un po’ di più. Nella seconda egli offre la sua chiave di lettura, di Gesù come “nuovo Mosè”. Gesù, dice l’autore, si può comprendere solo facendo propria l’attesa che lo ha preceduto, quindi la storia di Israele, quindi l’Antico Testamento. Se non si conosce Mosè, quello che ha rappresentato per il popolo e l’attesa di un nuovo Mosè che ha caratterizzato la storia dei secoli successivi all’ingresso nella terra promessa, non si comprende Gesù. Ebbene, chi è allora Mosè? Perché era così importante ai tempi di Gesù?
Mosè non fu semplicemente colui che guidò il paese fuori dall’Egitto. Non fu soprattutto il bambino prodigio salvato dalle acque, né il condottiero che riceve le Tavole della Legge o che ascolta le parole divine dal roveto ardente. Mosè, per Israele, fu in primo luogo l’amico di Dio. “Ha parlato con Dio come con un amico”. Questa consapevolezza ha fatto di lui quel grande patriarca che sempre il popolo ha ricordato. Una consapevolezza, però, accompagnata anche dal limite che Mosè stesso ha sperimentato nel suo rapporto con Dio, infatti neppure lui riuscì a vederLo in faccia, perché Dio, per non farlo morire con lo splendore della Sua Gloria, gli si è mostrato solo di spalle (Esodo 33,20-23). Nel solco di questa incompletezza si è alimentata l’attesa di un nuovo Mosè che non solo liberasse definitivamente Israele dalle nuove schiavitù, ma che potesse anche vedere Dio “faccia a faccia”, ed è in questo senso che i primi cristiani hanno accolto e capito Gesù, esattamente come colui che era stato promesso dai profeti ed era atteso come rivelazione definitiva del volto di Dio. Ecco allora che si capisce il senso del prologo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio … Lui lo ha rivelato”. (Gv 1,18)
I capitoli del libro suddividono per argomenti la vicenda di Gesù, passando da episodi come quello del battesimo e delle tentazioni nel deserto, a temi ricorrenti come quello del Regno di Dio, della preghiera, i discepoli, le parabole, ecc… Volutamente l’autore tralascia i vangeli dell’infanzia ed i racconti della passione, per i quali intende dedicare un secondo volume, più avanti.
Il parallelismo tra le parole dei vangeli e le vicende legate a Mosè ripercorre tutti i capitoli, evidenziando come giustamente non si possa partire dalle attese di oggi per andare a ritroso a comprendere il Gesù di allora, ma sia necessario partire dal suo ambiente, dall’attesa che lo ha visto crescere, agire, e morire, se non ci si vuole trovare di fronte ad un testo che altrimenti può apparire ridicolo, falso, inutile. In tutto quel che fa, Gesù è il “compimento” di ciò che con Mosè era stato solo preannunciato. Questo è il Gesù di Ratzinger.
Si tratta di una idea non nuova, ma certamente affascinante, che riporta Gesù nel contesto nel quale è cresciuto e vissuto e ci invita a leggere la Bibbia nel suo contesto e nel suo senso complessivo, più che alla lettera. E’ un Gesù molto divino quello di Ratzinger, certo, ma almeno è un vero israelita, ha una storia, una cultura che lo ha caratterizzato e modellato, e questo lo rende certamente anche umano e lo riporta là dove è il suo ambiente. Questo in fondo è “incarnarsi”, essere cioè una cosa ben precisa e non un’altra, essere qui e non lì, essere un individuo e non l’altro, mentre oggi mi pare che si tenda a proporre un modello unico, che non guarda troppo per il sottile le culture riceventi l’annuncio.
Ma è proprio sul Gesù storico che Ratzinger non mi è piaciuto. Sì, l’introduzione e tutto il seguito ha indicato come leggere il vangelo, come tenere sempre Mosè accanto ai vangeli, per comprenderli nello spirito con cui furono scritti, ma i vangeli restano di fatto gli unici testi che ci parlano di Gesù, e che piaccia o no, in molti oggi sostengono che non si tratta di testi “storici”, che possiamo prendere alla lettera, come narrazione dei fatti realmente accaduti. E su questo devo tornare alla premessa dell’autore. Credo in altre parole, ci sia ancora molto da fare tra le opposte posizioni di cattolici e protestanti, che sostengono la tesi del “è tutto vero” da una parte, contro il “è tutto inventato” dall’altra.
In questo dibattito il papa non offre spunti nuovi. Difende, da buon cattolico, il “Gesù storico” come imprescindibile e non separabile dal “Cristo della fede”. Insistenza, la sua, non corroborata da prove, anzi accompagnata da una continua lettura simbolica di tanti eventi come il battesimo di Giovanni Battista, le tentazioni nel deserto, le immagini di Giovanni… (tantissime volte il papa usa frasi le parole “simbolo” e “immagine”). Il papa dedica alla questione storica solo la premessa dove fondamentalmente sostiene a spada tratta la storicità dei fatti narrati dai vangeli, minimizzando ogni rischio di inquinamenti o mitizzazioni avvenute a posteriori.
Sarebbe stato molto interessante che il papa avesse approfondito “perché”, ad esempio, è così importante che i vangeli narrino fatti storicamente certi, e, in secondo luogo, cosa si intende per “storia”, per “storico”, certo, vero. Su questi aspetti invece si avverte un tabù, un timore ad andare oltre, perché non ci succeda di pensare come certi protestanti…
Io ho avuto il privilegio di leggere testi “spinti”, tra loro molto diversi e forse anche inconciliabili, come “Il vangelo di Marco” di Drewermann; “Gesù” e “Nuovo Testamento e mitologia” di Bultmann; “Sequela” di Bonhoeffer; “A Gesù attraverso i vangeli” di Latourelle o più recentemente “Gesù di Nazaret” di Da Spinetoli, “Inchiesta su Gesù” di Augias Pesce e il “Gesù” di Berger. Non sono d’accordo con tutto ciò che ho letto e questi stessi autori certamente non sarebbero d’accordo tra loro se potessi metterli attorno ad un tavolo, ma indiscutibilmente le loro opere hanno “osato”, le loro provocazioni hanno lasciato qualcosa di nuovo, mi hanno detto “la cosa si potrebbe guardare anche da questo punto di vista”, e di questo sono loro grato. Non perché io ami a priori tutto ciò che contraddice l’esegesi cattolica – alcuni autori citati sono cattolici -, ma perché mi permettevano, mentre li leggevo, di fare un piccolo passo in avanti. Avverto la loro libertà di pensiero, il non cercare di arrampicarsi sugli specchi per dover per forza dimostrare qualcosa. Di tutti ho avvertito anche i limiti, ma chi non ne ha? Non credo esista il libro perfetto su Gesù. Credo invece che ognuno possa comprenderne una luce, una parte, e nostro compito sia quello di mettere insieme queste parti buone, facendone tesoro.
Ratzinger espone i limiti della ricerca storica, pur non rigettandola, e sostiene che non si può arrivare da nessuna parte solo con essa, perché con i suoi poveri mezzi essa tende a dubitare di tutto, mentre dell’identità di Gesù, un credente non può minimamente dubitare. Allora, per comprendere Gesù, dice, si deve partire “dalla sua comunione con il Padre. Senza questa comunione non si può capire niente”. Solo così i vangeli hanno un senso. Ma questo, dico io, è come dire che sono testi di fede, che presuppongono la fede per essere compresi, e che quindi non vanno letti come documenti storici: e siamo da capo! Dire che per leggere i vangeli ci vuole fede è come dire: chi non ha fede non li legga. Chi si avvicina da storico non li legga. Più nello specifico il papa dice che il metodo storico – critico è limitato (cioè non attendibile) perché tratta le parole come parole del passato, mentre per fede sappiamo che la Parola è viva anche nel presente. Dice poi che tratta la parola come parola di uomini, mentre per fede sappiamo che è Parola di Dio. Dice che tratta i testi come parti separate, a sé stanti, mentre sempre per fede, noi ritentiamo la Bibbia come uno scritto unito, legato da un disegno unico divino. A me sembra come dire: sono giusti solo quei metodi scientifici che dimostrano valida la nostra fede, sono sbagliati tutti gli altri. Di questo passo sono più attendibili le visioni mistiche di Anna Caterina Emmerick, veggente vissuta nei primi del 1800, dalle quali Mel Gibson ha tratto ispirazione per il suo “storico” racconto della passione di Gesù, dei vangeli stessi, che con le loro quattro versioni mostrano troppe volte contraddizioni tra l’uno e l’altro racconto.
Invece per Ratzinger non vi è contraddizione in questo suo ragionamento, anzi conclude: “certo, l’ermeneutica cristologia che in Gesù Cristo vede la chiave di tutto e partendo da Lui apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede, e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità storica”. Qui, ragazzi, io cedo il passo. Se qualcuno mi spiega dove sta la “ragione” di una lettura che presuppone la fede, io lo ringrazio.
Invece per Ratzinger il passaggio è di una logica disarmante. E da lì parte con il discorso della “ragionevolezza” della fede. Del dimostrare cioè che la fede cristiana è alla luce della ragione e anche degli studi scientifici più seri, la verità più probabile, più possibile, più logica.

Non si può non vedere come la Chiesa Cattolica – dietro al papa - stia perseguendo un progetto, dietro questo modo di fare. Un progetto “culturale” che non si ferma alla discussione sulla verità riguardo a Gesù di Nazaret, ma vuole dedurre da determinate verità eterne a Lei rivelate, un conseguente modo di vivere, di fare politica, economia, arte. Una Chiesa insomma che qui sulla terra vuole ritentare di costruire la “città di Dio”, già sognata e poi miseramente fallita, agli albori del medioevo.
Io non condivido questa frenesia cattolica di formare una cultura cattolica, di convincere sul piano razionale l’altro della nostra fede, come se tale fede fosse l’unico modo per essere onesti, corretti, responsabili; come se al di fuori della fede non ci fosse nulla di buono, come se la fede fosse la cosa più conveniente, logica, naturale che ogni essere vivente deve accettare per la propria realizzazione. Senza contare poi che mentre si associa con tanta insistenza la ragione alla fede, si continuano a tollerare al proprio interno fenomeni paranormali come quelli di Medjugorie o quelli legati a Padre Pio, che ben poco mi pare abbiano di razionale.
La ragione mi dice invece mi mostra che ci sono tante persone per bene tra coloro che non credono, come ci sono anche tanti farabutti ed esaltati tra i credenti: non è quindi il vivere in modo coerente e razionale che fa la differenza.
Non solo: il vangelo chiede di rinnegare sé stessi, perdere la propria vita, porgere l’altra guancia. Non ci vedo niente di naturale e di “logico” in tutto questo. E non a caso i più grandi santi della nostra storia sono stati degli incoscienti, dei pazzi, dei sognatori, che oggi osanniamo, ma che al loro tempo, si trovarono tutti “ragionevolmente” contro.
Perché allora questa insistenza sul binomio “fede e ragione”?
24/05/07

sabato 8 dicembre 2007

Commento all’Enciclica Spe Salvi, di Benedetto XVI

Mi sono avvicinato all’ultima enciclica con molto rispetto e deliberatamente ho scelto di non leggere né ascoltare alcun commento prima di tale lettura, proprio perché essa non fosse influenzata da giudizi fatti da altri.
Scrivo ora alcune considerazioni a caldo, partendo prima da elementi esterni per andare poi sui contenuti.

Elementi esterni
Il progetto del papa di fare le sue prime encicliche sulle virtù teologali mi pare bella. Ha pubblicato in apertura di pontificato quella sull’amore, ora la speranza e immagino che la prossima sarà sulla fede. Amore, speranza, fede, sono argomenti di fondo per il cristiano e sono temi positivi, che ci permettono di riflettere sul mondo che ci circonda partendo da ciò che sta alla base del Cristianesimo.
L’idea poi di parlare della speranza cristiana in questo specifico frangente storico mi pare ancor più buona perché viviamo un tempo in cui ci si piange tanto addosso da tutte le parti, per il terrorismo, per l’economia, per le tragedie del sabato sera, per delitti familiari sempre più efferati ed inspiegabili, per tanti motivi…
Il cristiano che vive nel continente europeo, sempre più vecchio e sempre meno cristiano, ha ancora motivo per sperare? Ha un senso per lui essere cristiano, formarsi, crescere i suoi figli secondo la logica di una fede che pare in caduta libera? E di fronte alla prospettiva di una Europa che nel prossimo futuro potrebbe diventare atea, o musulmana, che cosa può sperare un cristiano?
Il cristiano che vive nei paesi in via di sviluppo può sperare in condizioni di vita migliori o questa speranza non c’entra nulla con quella cristiana che parla di un premio ultraterreno?
Ecco, secondo me vale la pena scrivere una Enciclica sulla speranza perché abbiamo bisogno di rinvigorire la nostra fede, non tanto di conoscerne i contenuti, che sono sempre quelli, quanto di rivitalizzarne i suoi effetti in termini di gioia, di vita, per riscoprire l’entusiasmo travolgente che ha caratterizzato le prime comunità.
Mi torna alla mente un bel commento del cardinal Martini al vangelo sui discepoli di Emmaus (Luca 24), dove lui osserva che quei due discepoli tristi e con la coda tra le gambe, hanno, di fatto annunciato il kerigma (il nucleo della fede cristiana) allo straniero che camminava con loro e che alla fine si rivela essere lo stesso Gesù. Gli hanno detto tutti i contenuti della fede, ma con la tristezza nel cuore, spenti, delusi e disillusi. Proprio come accade a tanto del nostro catechismo odierno. Ma quando allo spezzare del pane essi lo hanno riconosciuto si è riaccesa in loro la speranza e sono tornati di corsa verso Gerusalemme per raccontarlo agli altri.
Martini riflette sul fatto che troppo spesso il nostro annuncio è l’annuncio di un kerigma a metà, cioè formalmente ineccepibile, ma vuoto nei toni e nella forza comunicativa.
Bene, è per questo che il papa deve spronarci alla speranza cristiana, deve farci coraggio e guidarci a riscoprirla ogni volta come una realtà nuova e capace di fecondare la nostra vita.
Noto con piacere che non si tratta di un testo lunghissimo, e anche questo è un buon segno, perché se l’intenzione è quella di parlare a tutti e non solo a dotti e sapienti, è importante usare un linguaggio semplice, diretto e non prolisso. Ad una sfogliata veloce noto con piacere che in alcuni punti il papa racconta la vita di alcune persone sconosciute, come Giuseppina Bakhita o il cardinale Nguyen Van Thuan, e la cosa mi fa piacere perché sono convinto che la testimonianza di alcuni credenti sia più efficace di una buona lezione di teologia.
Prima di iniziare la lettura sono andato in fondo a sbirciare tra le citazioni. E’ un mio sistema per vedere dove attinge l’autore, e mi ha colpito negativamente il fatto che il Concilio Vaticano II, che è il più grande segno di speranza del XX secolo, non figuri tra le citazioni neanche una volta. Spesso invece figura tra le note il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992).

Fede e ragione
La lettura si è rivelata piuttosto scorrevole, ma sui contenuti devo dire che sono rimasto piuttosto deluso. In breve, dopo una sintesi storica in cui viene ridicolizzato ogni tentativo umano che abbia cercato di rendersi indipendente dai dettami della Chiesa cattolica (dall’illuminismo, al comunismo, allo sviluppo tecnologico…), si offre il binomio fede-ragione come imprescindibile, l’unica alleanza possibile perchè l’uomo non annulli sé stesso. In realtà per papa Ratzinger si tratta di un vero tormentone, un tema che torna in continuazione, insieme a quello del relativismo morale.
A parte il fatto però, che non si dice una parola sui limiti che l’umanità ha incontrato anche nei secoli in cui la Chiesa era una cosa sola con lo Stato, mi pare che emerga un concetto di uomo laico, inteso come senza fede, assolutamente negativo. La ragione senza fede combina solo guai, in sostanza. Basti a titolo esemplificativo citare un passo al n. 23
Ma quand'è che la ragione domina veramente? Quando si è staccata da Dio? Quando è diventata cieca per Dio? La ragione del potere e del fare è già la ragione intera? Se il progresso per essere progresso ha bisogno della crescita morale dell'umanità, allora la ragione del potere e del fare deve altrettanto urgentemente essere integrata mediante l'apertura della ragione alle forze salvifiche della fede, al discernimento tra bene e male. Solo così diventa una ragione veramente umana… la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l'una dell'altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione.
Non mi pare che questo sia stato il modo di rapportarsi con il pensiero laico del Concilio Vaticano II, che ha parlato di dialogo con gli atei (Gaudium et spes 19-21), di autonomia delle realtà terrene (Gaudium et spes 36), di segni dei tempi (Gaudium et spes 4a), di gerarchia delle verità (Unitatis Redintegratio 11c). Il Concilio si confronta con un pensiero laico che ha certamente fatto tanti errori, ma verso il quale onestamente riconosce anche meriti, dai quali la Chiesa può e deve imparare. Basti un semplice sguardo all’inizio della già citata Gaudium et spes (anche qui si parla di speranza nel titolo) per comprendere come gli stessi contenuti possono essere detti in un modo completamente diverso:
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo… Ai nostri giorni, l’umanità presa d'ammirazione per le proprie scoperte e la propria potenza, agita però spesso ansiose questioni sull'attuale evoluzione del mondo, sul posto e sul compito dell'uomo nell'universo, sul senso dei propri sforzi individuali e collettivi, e infine sul destino ultimo delle cose e degli uomini. Per questo il Concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio riunito dal Cristo, non potrebbe dare una dimostrazione più eloquente di solidarietà, di rispetto e d'amore verso l'intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal Vangelo…
Non mi piace estrapolare brani dal loro contesto, e naturalmente invito a leggere per intero entrambi i documenti, ma mi pare si possa evincere anche da queste poche righe come sia diverso il modo di porsi di fronte all’altro, al non credente, a chi non ha la fede. Credo che finchè i nostri Pastori continueranno a dire a scienziati e politici “voi senza di noi siete nulla, siete irrazionali, siete pericolosi” anche dall’altra parte vi sarà una risposta uguale ed opposta. La Gaudium et spes cerca punti in comune con il pensiero laico, cerca davvero un dialogo sulle cose su cui si può dialogare, parla quindi di centralità dell’uomo, di coscienza, di valori… la Spe Salvi invece, sulla falsariga della Dominus Jesus (CDF 2000), sceglie la linea dell’andare giù pari.

Rapporti con l’ateismo
Altro esempio a favore della mia tesi potrebbe essere un parallelo su come le due encicliche impostano il tema dell’ateismo. La Gaudium et spes, senza giustificarlo, lo vede come un fenomeno complesso, variegato e tenta di non fare di tutt’un erba un fascio. Soprattutto è capace di autocritica, laddove ammette che se oggi molti sono atei lo sono per una reazione critica a come noi siamo credenti, cioè alla nostra cattiva testimonianza (19c). La Spe Salvi invece si esprime dicendo che questo atteggiamento è un “moralismo” (42). Alcuni sono atei, per questo papa, perché fermano la loro mente di fronte alle ingiustizie (in senso generico: guerre, calamità…) e non riescono ad abbracciare la fede in un Dio che, se c’è, permette tutto questo.

Il Concilio Vaticano II, grande assente
Devo dire che purtroppo un tale bistrattamento del Vaticano II me lo aspettavo vista soprattutto la recente interpretazione molto svalutante che ne ha dato lo stesso Pontefice in occasione del Natale 2005. Un augurio natalizio in cui si rilegge il Vaticano II, perché era il 40 esimo della sua chiusura, e dove viene ribadito a chiare lettere che sbaglia chi lo legge secondo un “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, cioè come un evento fondativo, come uno spartiacque e come un nuovo inizio nella vita della Chiesa. Il Concilio piuttosto, sostiene il papa, deve essere visto come un episodio tra i tanti che caratterizzano la storia del Magistero, e non può sostituire, né contraddire quanto detto in precedenza. In quest’ottica penso possa servire riportare alcuni passaggi importanti:
Il Concilio Vaticano II… ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi. Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia… aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente… Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo.

Il documento non dice in sé cose sbagliate, ma evidentemente è proteso a spegnere quel piccolo lumicino che gli amanti del Concilio si ostinano a tenere acceso, per invece osannare l’intramontabile Scolastica del Medioevo e di San Tommaso; consiglio di leggerlo per intero perché in esso Ratzinger spiega bene la sua interpretazione del Concilio e pure quanto tema quella “falsa” di coloro che vedono in quell’evento un segno di rottura – non sul piano dottrinale come ha sostenuto Lebfevre – ma certamente sul piano metodologico del rapportarsi con il mondo e con la ragione (il link del file è http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/speeches/2005/december/documents/hf_ben_xvi_spe_20051222_roman-curia_it.html ).
Non si tratta del primo intervento che Ratzinger fa in questa direzione , ma certamente rivestendo ora il ruolo di Pontefice le sue parole sono ancor più pesanti.

La grande filosofia greca
Tornando alla Spe Salvi vorrei sottolineare un tema già introdotto, ma che terrei a esplicitare meglio. Vorrei mettere in rilievo come ancora una volta il papa insista sulla bontà della filosofia scolastica che a sua volta attinge dalla “grande filosofia greca” (28). La sua enciclica è un continuo citare Agostino, Bernardo, Tommaso (ma abbiamo visto anche dalla citazione precedente quanto per tutta la sua impostazione teologica sia imprescindibile il pensiero di San Tommaso con il relativo tentativo di armonizzare fede e ragione).
Senza nulla togliere al grande lavoro di San Tommaso, che ai suoi tempi fu certamente un rivoluzionario, penso che oggi le cose siano un po’ cambiate rispetto ad allora. A quel tempo la Chiesa governava, stipendiava artisti e pensatori, decideva guerre, paci, alleanze, costruzioni di città, ecc… Si imponeva alla sua coscienza di non essere guidata solo dalle frasi del vangelo, ma di usare la ragione. Una ragione in armonia con la fede, certo, ma di cui fino ad allora non si erano intuite le potenzialità. Oggi la ragione ha preso la sua strada, Chiesa e Stato percorrono strade indipendenti, troviamo credenti impegnati in politica che in alcuni casi hanno il dilemma interiore tra seguire i dettami del Magistero e quelli della propria coscienza, e abbiamo persone che usano la ragione bene senza essere credenti. Ecco perché penso che non si possa continuare a sostenere che tutto ciò che è ragionevole debba automaticamente andare a nozze con la fede e viceversa. Ecco perché penso che San Tommaso sia superato ed il Concilio – con la sua “apertura” così mal sopportata – sia attuale.
Benedetto XVI invece, la filosofia greca, non solo la predica, ma la mette anche in pratica. Imposta tutta la sua esposizione in termini di forma e sostanza e si diverte non poco nell’esegesi di parole come hypostasis, hyparchonta, hypomone, hypostole, hyparxin, e via dicendo, che non so quanto possano essere utili ad alimentare la speranza dei cristiani filippini, algerini o boliviani.
Terminologia a parte, anche la ricostruzione storica che il papa fa dai paragrafi 10 a più o meno il 20, è leggermente di parte. Tutto bene, secondo lui, finchè le cose sono state in mano alla Chiesa, e l’apice, il momento cioè che meglio ha espresso anche a livello culturale la speranza cristiana sarebbe stato il Medioevo. Poi, da Bacone in poi, il tracollo e via con l’elenco di tutti i mali del mondo che l’uomo si è tirato addosso da solo. Se la Chiesa non accetta di rileggere la storia in dialogo con gli storici (non saranno tutti sotto l’influsso di Satana!) continueremo ad avere ancora a lungo da una parte l’elogio del Medioevo, e dall’altra la sua condanna più forte.

I luoghi della speranza
Un commento, nonostante mi renda conto di averla fatta ormai più lunga del papa, lo devo fare anche sull’ultima parte, quella propositiva, attuativa dell’enciclica. Quali sono, si chiede il papa al paragrafo 32, i luoghi di apprendimento della speranza?
Ne propone tre: preghiera, sofferenza e giudizio (escatologico).
Sarà che è un po’ tardi e comincio a essere stanco, ma a me cascano le braccia… altroché speranza!
Ma non sappiamo dire altro, noi cristiani? Non riusciamo a vedere semi di speranza in null’altro che non sia la nostra solita preghiera e il pensiero che un domani Dio farà giustizia di tutto quello che oggi non và?
La Chiesa che condivide in mille forme la vita degli ultimi, nei paesi sottosviluppati, nelle caritas, nel volontariato, non è un segno di speranza da sottolineare? I movimenti ecclesiali, con la loro capacità di coinvolgere e incidere sulla vita di tanti milioni di giovani, non sono un segno di speranza? I numerosi santi, anche laici, canonizzati negli ultimi decenni, non sono un segno di speranza? Il Concilio – grande assente dell’enciclica - non è stato un segno di speranza? Non è forse stato quello l’evento che ha risvegliato e rinvigorito la speranza di intere generazioni di cristiani cattolici e non? E il fatto che anche noi cattolici “critici” siamo ancora qui, che leggiamo, contestiamo, apprezziamo, ci scorniamo tra noi e con il crocifisso, nonostante il nostro passato di sofferenza, nonostante la nostra visione delle cose spesso così distante da quella ufficiale… non è questo un segno di speranza?
Pensavo di aver chiuso con i “fioretti” ed i fervorini sull’ “offrire” le fatiche quotidiane a Gesù o alla Madonna (40), non perché non ci creda, ma perché già da bambino di fronte a questi incoraggiamenti mi sentivo preso un po’ in giro, e chiedevo alla fede di farmi capire, piuttosto che di rimanere nelle mie avemarie; ed invece dovevo arrivare a 41 anni per leggere un’enciclica che mi invita ancora a fare questo. Mi invita a trovare consolazione nella preghiera, a soffrire con il sorriso sulle labbra, a sperare in un Giudizio divino che faccia pari con tutto ciò che non mi torna e che non so rendere migliore. E mentre le encicliche continuano a filosofeggiare sull’al di là, su paradiso, purgatorio ed inferno, io ne ricavo l’impressione che chi scrive passa più tempo sui libri che accanto alle persone.

Un messaggio performativo
Bene, per concludere mi sono tenuto un messaggio positivo. Volevo chiudere in bellezza, e solo ora mi rendo conto che dopo quanto ho scritto può sembrare una forzatura, ma non è così. C’è un concetto che torna qua e là che ho apprezzato e che, se vogliamo, si può interpretare come segno di speranza.
Il papa parla in più punti del messaggio cristiano come un messaggio “performativo”. Lo fa ad esempio al paragrafo 2 e al 10. Che significa? Lo spiega lui stesso, contrapponendo il metodo informativo a quello performativo.
Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita.”
Fa piacere sapere che lo studio e la dottrina non siano tutto, perché se così fosse davvero cadremmo nel tranello di una gnosi per pochi eletti, già ampiamente bocciata dalla storia. A questo proposito sarebbe davvero interessante approfondire il dibattito su quanto oggi la Chiesa sia più o meno informativa o performativa. Certamente in essa la maggior parte dei fedeli in Cristo non è visibile, non scrive libri, non partecipa a dibattiti televisivi, forse non legge neppure approfonditamente il Vangelo, però “vive” questa fede, questa speranza, questa carità, immersa nel traffico, nel lavoro, nella famiglia. E’ importante a mio parere ricordare che questi sono lo zoccolo duro della Chiesa, questi sono coloro che la mandano avanti, sono “la parte migliore” perché producono fatti e cambiano la vita. Sono questi infine che ci fanno sperare e toccare con mano che Dio non abbandona la sua Chiesa, sempre la sorregge e la guida pur utilizzando vie che non possiamo prevedere né incasellare.
5 dicembre 2007

venerdì 7 dicembre 2007

Il Gesù storico

C'era una domanda che si aggirava tra i banchi di noi studenti di teologia, quando il professore di Sacra Scrittura spiegava significati simbolici e teologici della presenza dei Magi, del diavolo nel deserto, o di moltiplicazioni di pani e pesci, guarigioni fisiche e spirituali, fino alla resurrezione di cadaveri. La domanda che timidamente circolava, a bassa voce per non fare brutta figura, era: “ma è successo davvero?”
Una domanda che avremmo fatto bene a tirare fuori, perché era la stessa che aveva infiammato gli studi esegetici del XX secolo, e che gli insegnanti del seminario si curavano bene di non citare neppure, affinché non ci venisse in mente di andare ad approfondire quelle “strane idee” .

La lotta tra scienza e fede
Una questione, quella dell'attendibilità storica dei vangeli, che periodicamente sembra tornare in auge, anche se le idee migliori sembrano essere rimaste quelle della prima parte del '900, dopo di chè grandi passi in avanti non ne sono stati fatti. La “storia” sembra un terreno di confronto particolarmente delicato ed importante perché mentre gli uni, i pensatori scettici, ne fanno l'argomento principe per dire che riguardo Gesù non sappiamo niente di sicuro e quelle che ci vengono raccontate dai vangeli sono tutte favole, dall'altra la Chiesa cattolica fa proprio della concretezza storica di Gesù il cardine fondante sul quale non è possibile fare sconti, pena il rendere vana la propria fede. “E' tutto falso”, contro “E' tutto vero”: due posizioni inconciliabili, con le proprie ragioni e pure le proprie numerose rigidità ideologiche, da una parte e dall'altra. Due posizioni che apparentemente si confrontano, ma che non hanno alcuna intenzione di trovare un'intesa, un po' come quando in parlamento governo e opposizione dicono l'uno il contrario dell'altro in modo assoluto, duro e squalificante: ad entrambi non interessa trovare una intesa, ma convincere l'ascoltatore, a casa, a stare dalla propria parte.
Questo è un peccato, perché la scienza e la fede potrebbero darci luci diverse su una medesima realtà, senza entrare in competizione e senza invadere l'una il campo dell'altra. Qualche giorno fa mi è capitato di sentire alla radio un esorcista che metteva in guardia dal rivolgersi a psichiatri non credenti, solo un'ora più tardi in televisione uno scienziato parlava delle religioni come di realtà che inevitabilmente prima o poi portano gli uomini alla guerra. Finché scienza e fede continuano questo braccio di ferro e si offendono reciprocamente, perdono di vista la propria singolare missione, e non ci aiutano a crescere, ne laicamente, ne religiosamente.
La scienza risente ancora molto di uno spirito “scettico”, antireligioso, positivistico, che si porta dietro dalla sua nascita ; la fede, quella cattolica nel nostro caso, è a sua volta ancora troppo timorosa delle ingerenze della scienza, dei suoi studi, dei suoi approfondimenti storici, fisici, archeologici, su questioni che ritiene di sua esclusiva appartenenza, come ad esempio l'interpretazione dei vangeli.
Di recente il dibattito si è riacceso con le pubblicazioni “Inchiesta su Gesù” di Augias Pesce e “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger. Questi autori hanno riproposto lo stesso schema: da una parte la riduzione di tutto ad un idea di “storia” molto simile a cronaca, uno studio apparentemente disinteressato all'aspetto religioso, ma che qua e là si sente in diritto di giudicare e avanzare ipotesi anche sull'altra sponda, quella dell'origine di fatti mistici; dall'altra l'interpretazione cattolica, dove si dice che i vangeli narrano senza ombra di dubbio un fatto storico, punto e basta. E' storico, il fatto narrato, perché non può essere altrimenti, e lo storico di professione, senza fede, non può comprendere il vero significato dei vangeli.
Al di là delle discussioni tra specialisti, di fatto presso il vasto pubblico sono passate le due posizioni molto semplificate e assolutizzate che ho detto prima: “E' tutto falso”, da una parte, e “E' tutto vero” dall'altra. La prima affermazione trova una certa eco tra gli studiosi, e ha trovato qualche resistenza in più presso il vasto pubblico. La seconda, invece, quella “integralista”, mi preoccupa di più, perché è diffusa dentro quella stessa Chiesa alla quale appartengo: paradossalmente però più fra la gente comune che presso gli alti vertici.

Sacra Scrittura intoccabile?
La Chiesa, da un punto di vista ufficiale, ha fatto un bel passo in avanti prima e durante il Concilio Vaticano II, ma nonostante qualche sparuta raccomandazione lascia di fatto che tanti parroci e frati continuino a dire vere fesserie da ogni pulpito, leggendo e spiegando la vita di Gesù “alla lettera”.
Le conseguenze di questa lettura sono devastanti: se angeli, demoni, apparizioni e cose del genere furono possibili ai tempi di Gesù, perché non dovrebbero esserlo anche oggi? Ed ecco che “visto che si può” fioriscono visioni, stigmate, lacrime e allucinazioni religiose ovunque.
Invece i vangeli sono totalmente imbevuti di parola di uomini: in essi troviamo errori, ripetizioni, discorsi lasciati a metà, operazioni di “copia e incolla” non proprio riuscite bene, contraddizioni . E poi non conoscono il concetto di “storia” come lo concepiamo noi, sono influenzati da idee orientali, sono guidati dall'attesa del ritorno imminente del Signore risorto (vedi in particolare le lettere apostoliche di Paolo); o anche dalla disputa, oggi insignificante, se il vangelo dovesse essere annunciato solo ai giudei o anche ai pagani.
Bene, se di Parola di Dio si tratta bisogna chiedersi seriamente “in che senso”, perché tutti questi limiti sono molto umani.
Negli ultimi secoli la Sacra Scrittura, con la sua aurea di intoccabilità, ha risentito di un processo di autodifesa che la Chiesa ha assunto sempre più dalla nascita della scienza in avanti. La Chiesa, defraudata del suo primato onnisciente sul terreno della “verità” a partire più o meno dal processo a Galileo che per primo osò mettere in dubbio il fatto che la Bibbia fosse l'unico deposito di ogni forma di sapere, ha cominciato a rivendicare con maggior forza la propria “infallibilità”, sancita da documenti magisteriali e “dimostrata” dal disperato tentativo di papi e concili di non contraddirsi con chi li ha preceduti. E dopo aver sostenuto l'infallibilità della Chiesa nel Concilio di Trento e quella del papa, nel Vaticano I, ora pare del tutto naturale che tanti buoni parroci trattino anche la Sacra Scrittura come infallibile, mirabilmente preconfezionata e calata dall'alto, degna di essere presa alla lettera, nonostante autorevoli documenti del Magistero nell'ultimo secolo abbiano aperto (timidamente, a mio parere) le strade al metodo storico – critico, allo studio dei generi letterari, all'esegesi comparata dei sinottici, alle influenze ambientali e culturali sugli autori (vedi la Divino Afflante Spiritu, del 1943 e la Dei Verbum , del 1965 .

La storia taciuta
Se ancora parecchia strada può fare la Chiesa, aiutando il suo popolo a recepire i limiti ed il modo di intendere la Sacra Scrittura, altro percorso spetta al versante laico, che potrebbe a sua volta ritenere meno “intoccabile” il concetto di “storia”.
La storia come descrizione di fatti accaduti in modo preciso e documentato, è ben difficile da ricostruire, tanto per Giulio Cesare come per Gesù di Nazaret. Ciò non significa che i libri di storia siano pieni di falsità. Di certo quando si scrive la storia si fanno delle scelte. Inevitabilmente si scartano i materiali ritenuti meno importanti e si amplificano e interpretano quelli che rimangono. A volte però ciò che è ritenuto importante non è accompagnato da tanti documenti.
Quando i primi cristiani hanno capito che era bene cominciare a mettere per iscritto qualcosa su Gesù, erano già passati alcuni decenni. I vangeli sembrano essere stati scritti attorno agli anni 70 – 80, quello di Marco un po' prima, quello di Giovanni un po' dopo. Gesù era morto tra il 30 ed il 40, non era più lì fra loro da un pezzo, e di questa distanza certamente i vangeli ne risentono. Gli evangelisti hanno raccolto materiale sparso: preghiere, detti, ricordi di chi era ancora in vita e quello che ne è emerso è la testimonianza dello “spirito”, dell'entusiasmo di quella Chiesa nascente, più che un resoconto preciso di come sono andati i fatti.
Il fatto che “la storia” tralasci, non solo nei confronti di Gesù, una miriade di particolari per trattenere un senso tra i tanti che quei fatti potrebbero avere, è da tenere sempre presente. “Sono stati i teorici positivisti del XIX secolo a cosificare l'oggetto della storia / scienza riducendolo a dei fatti. Un fatto è la stessa cosa di un evento?” La domanda di Grelot è quanto mai opportuna: un evento può essere comprovato da pochi documenti, ma allo stesso tempo aver lasciato tracce in termini di opere d'arte, immagini, musiche, poesie, preghiere. Lo stesso autore, qualche pagina più avanti, commenta: “una mentalità acquisita fin dalla scuola elementare porta a classificare i racconti in due semplici categorie: quelli che sono storici e quelli che non lo sono. I primi per definizione sono veri; gli altri (miti, leggende, favole, ecc.) non lo sono” .
A pensarci bene spesso succede così quando si scrive la storia. La gran parte dei fatti storici vengono miseramente tralasciati perché in quel momento non li si ritiene importanti. Poi, quando più tardi li si rivaluta può essere troppo tardi: si cerca allora di ricostruire quello che si può, come si può, quando con il senno del poi, si pensa che ne valga la pena. Testi antichi come quelli dei vangeli allora vanno avvicinati gradualmente, senza affrettate conclusioni del tipo “E' tutto vero” o “' tutto falso”.
Andando a ritroso nel tempo, dalla scrittura del testo che abbiamo in mano all'evento che esso racconta, incontriamo almeno tre fasi.
1. Quella della redazione dei vangeli, che è l'ultima in ordine cronologico. Una fase dove il materiale a disposizione di chi scrive viene selezionato, vagliato, sintetizzato per un destinatario ben preciso e ben lontano da noi. Tra questi testi si fanno strada anche pezzi presi dalla liturgia, o vengono adattati elementi mitologici presi dall'ebraismo o da culture limitrofe .
2. Poi vi è un livello più antico di qualche decennio: quello della comunità primitiva, sorta subito dopo la Pasqua. Qui incontriamo una esigenza diversa, quella cioè di diversificare l'annuncio in diverse culture – ebraica, romana, greca – trasmettendo l'essenziale, cioè la morte e resurrezione del Messia, e non tutta la sua vicenda storica.
3. Infine il ricercatore storico, dopo aver vagliato questi due livelli, si interroga sull'evento vero e proprio: quello che Gesù ha realmente detto e fatto.
Anche uno schema così veloce, credo possa rendere consapevoli di come sia difficile avere una fotografia fedele di questo ultimo livello. Ciò non significa che questo livello non ci sia stato o sia frutto di invenzione.
Pensiamo anche solo alla nostra storia personale. Cosa ne sarà fra duecento anni? Qualcuno darà un qualche valore storico alle arrabbiature o alle soddisfazioni di una mia normalissima giornata di lavoro? Forse allora si considererà come storico il Protocollo di Kyoto, o la caduta del muro di Berlino, ma non certo l'emozione che io oggi alle 17 ho provato ascoltando una certa canzone in auto a tutto volume, mentre me ne tornavo a casa. Eppure è storia anche quella. Anzi, forse per me, è stata più importante quella canzone, in quel momento, che l'incontro tra Bush ed il papa che contemporaneamente si stava svolgendo in Vaticano. E forse, quando fra 200 anni sarò considerato un personaggio famoso (!?), qualcuno troverà più interessante quella mia emozione difficile da rintracciare, del povero, bistrattato e però ben documentato Protocollo di Kyoto.
Cosa voglio dire con questo? Mi pare importante definire che i vangeli testimoniano la presenza di un evento straordinario, sono racconti che riportano una esperienza interiore grandiosa. Un'esperienza non fatta da un solo uomo, ma da un gruppo, una setta, se vogliamo. Un gruppo che nell'immediato ha pensato solo a predicare, annunciare, testimoniare anche con la propria vita la fede in Gesù, e solo più tardi si è interrogato sull'opportunità di mettere per iscritto qualcosa.
San Paolo è un esempio eloquente in questo senso: quando scrive le sue lettere i vangeli non sono ancora stati scritti; in esse racconta ben poco della vita di Gesù, delle sue parabole, della sua nascita, dell'infanzia, dei suoi viaggi in Palestina fino al tradimento nell'orto degli Ulivi. Eppure annuncia il vangelo: lo fa meglio di tutti, lo fa con un entusiasmo ed una carica che gli permettono di fondare comunità nuove in tutta la Turchia e la Grecia fino ad arrivare molto probabilmente a Roma. San Paolo di Gesù racconta l'essenziale: morte e resurrezione, non sente il bisogno di sapere altro!
Possiamo allora parlare di “storia” davanti ai vangeli?
Di storicamente accertato abbiamo che gli evangelisti ed insieme a loro le prime comunità cristiane erano profondamente convinte della resurrezione e della divinità di Gesù. Di storicamente accertato sappiamo che dopo la morte di quell'uomo è nata una comunità viva, in veloce espansione, davvero convinta della resurrezione del suo fondatore.
Il fatto che gli evangelisti non siano storici di professione, fa di loro dei mentitori? Essi vogliono convincere i lettori (di allora) della divinità di Gesù e ci presentano dei racconti che hanno uno scopo catechetico, più che storico. Non si fanno di certo tanti problemi nel raccontare eventi straordinari: loro devono farlo, perché quello è l'unico modo per dire che Gesù è il Messia . Ciò non significa che siano testi privi di valore storico, come invece in troppi arrivano a sentenziare.

Il Gesù di Ratzinger
Il recente lavoro di Ratzinger offre lo spunto per fare una ulteriore riflessione sull'atteggiamento della Chiesa verso la questione della storicità dei vangeli.
E' un modo che risente ancora di un bisogno non umile di tenere tutto in mano, tutto sotto controllo, come ai tempi di Galileo. Lei deve dire agli uni qual'è il solco che la Tradizione ha sempre seguito e agli altri quali sono i criteri per fare una buona ricerca storica.
Anche il recente saggio di Ratzinger risente a mio parere di questa eccessiva preoccupazione, laddove si preoccupa di precisare che la posizione della Chiesa è quella che maggiormente rispetta la “ragione”. Certo, dice, si facciano pure tutti gli studi storici su Gesù e sulla storicità dei vangeli, ma si tengano ben presenti i limiti di tale ricerca, e si consideri che la posizione della Chiesa è sempre stata quella più razionale. Dopo aver elencato tutti i limiti della ricerca storica, quasi per ripararsi da eventuali risultati scomodi, gioca l'asso di briscola: “L'ermeneutica cristologica ..., presuppone una scelta di fede, e non può derivare dal puro metodo storico”. Quindi l'analisi storica và presa con le pinze, perché senza fede, dice il papa, non si possono comprendere appieno quei testi dettati dalla fede e scritti alla luce della Resurrezione. E poi aggiunge:

Ma questa scelta ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità storica”.
Qui, a mio parere, il pontefice esagera e imbocca un vicolo cieco. Prima dice che per capire la storicità di Gesù non bastano le scienze storiche, ma ci vuole la fede; e abbiamo visto che già in questa pretesa vi è qualcosa di arrogante. Subito dopo sostiene che questa posizione di fede è la scelta più razionale e logica che lo studioso possa fare. Chi non “crede” in Gesù, in definitiva, non è neppure un vero scienziato, non usa la ragione, non sa studiare la storia. Poco più avanti, nella stessa premessa, Ratzinger si spinge oltre in un esempio un po' azzardato per mostrare come fede e ragione vadano di pari passo nello studio dei vangeli. Dice:
“Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell'epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia. (...) Come mai dei raggruppamenti sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi? Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'inizio, e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?”.
No, io credo che questo passaggio sia troppo azzardato. Un conto è insistere sul fatto che Gesù per i primi cristiani sia realmente risorto, e un conto è dire che la loro convinzione è una prova storica e razionale che il fatto sia realmente accaduto. Prove certe del “fatto” resurrezione non ne avremo mai, mentre invece possiamo parlare del fatto che “qualcosa” è successo, un “evento” è accaduto: e chi abbraccia la fede, spiegherà questo qualche cosa con la resurrezione.
Diversamente non vi sarà mai un vero dialogo con la scienza. Non si può chiedere agli storici di studiare i vangeli ricordandosi di farlo con fede. Non si può pretendere che i loro studi arrivino ad affermazioni di fede. E non lo si può pretendere, non perché il materiale che ci è pervenuto sia scarso, ma perché i due piani – fede e ragione – lavorano su binari paralleli: possono andare nella stessa direzione, ma non si incontrano mai. La Chiesa è depositaria di un messaggio di fede e non credo che le giovi insistere perché quella sua fede si faccia strada su basi razionali.
Se anche di Gesù avessimo filmati, registrazioni, testimonianze dirette di persone ancora in vita, se anche lo potessimo toccare con le nostre mani, come è capitato a tanti suoi contemporanei, non avremmo l'evidenza, la prova provata, la spiegazione razionale della sua origine divina. Tant'è vero che nonostante tutti quei miracoli che i vangeli raccontano, alla fine Gesù è abbandonato da tutti e muore quasi solo, sulla croce. Forse tutta questa evidenza che Egli fosse Dio, non c'era neanche allora.

La fede in Gesù Cristo
La fede per definizione fa a pugni con la ragione. Ma come faccio io – essere razionale - a credere ad una cosa simile, che non posso avvicinare in nessun modo, perché è successa duemila anni fa? Non credo che possiamo rendere più attraente la nostra fede dicendo che essa è razionale. No, essa è scandalosa, irrazionale, inaccettabile da un punto di vista scientifico e logico.
San Paolo non temeva di mettere in risalto questa “vergognosità” della fede e diceva con orgoglio: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, e stoltezza – altrochè ragione – per i pagani. (...) Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor. 1,23.27-29)
Come è possibile allora fare una scelta di fede nel duemila?
Io rispondo a questa domanda dicendo due cose:
la prima è che la Scrittura, oltre a non essere infallibile, non è tutto; non è l'unico modo che Dio ha per parlarci e incontrarci. Se guardo la mia storia e quella di tanti altri amici, osservo che nessuno ha ricevuto il dono della fede semplicemente leggendo il vangelo. I vangeli non sono questo testo magico che a volte si vuol far intendere. Obbiettivamente è un testo difficile, pieno di demoni, discussioni con scribi e farisei, racconti sulla fine del mondo, genealogie, raccolte di detti morali. Non credo che con il solo vangelo si arrivi molto in là. Esso per tutti è un supporto, uno strumento in più. Ma la scelta di “credere” è avvenuta per tutti nell'incontro con altri credenti, nel partecipare alla vita di una comunità. San Paolo dice che la potenza del vangelo si diffonde “di fede in fede” (Romani 1,17). Di fede in fede significa che io credo perché mi attira lo stile di vita di te che credi, voglio diventare anche io felice come te, voglio imparare dove attingi quella felicità, e per questo abbraccio la tua fede. La mia ragione mi dirà con tutte le sue forze che non è possibile risorgere, ma il mio desiderio interiore di trovare una verità che la ragione non mi sa illustrare, mi darà quella incoscienza che a mio parere è tipica del credente, di chi si butta nel vuoto, di chi se non altro prova a fidarsi di un Dio che “nessuno ha mai visto” come conferma l'evangelista Giovanni, ma alcuni dicono che “proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato” (Giovanni 1,18).
La seconda cosa che dico è che la nostra ragione è anch'essa limitata, ed arriva dove può. Per questo esiste la fede. Se la ragione umana fosse perfetta, come credono alcuni devoti della scienza, essa vedrebbe tutto, anche l'al di là, non vi sarebbe alcuno spazio per la fede, né per l'errore. E' giusto invece lasciare aperta la porta all'irrazionale, a ciò che non è comprensibile, senza per questo andar dietro a qualunque allucinato che parli con l'al di là. La ricerca di Dio non si è conclusa con la sua Rivelazione; essa l'ha solo resa molto più interessante. Una ragione “umile” e cosciente dei suoi limiti, non lotterà con la fede, ma arriverà su una terra di confine, le tenderà la mano e lì chiederà la sua collaborazione. La Chiesa stessa, a mio parere insegna questo quando in lei non prevale un atteggiamento difensivo e duro contro chiunque avanzi provocazioni. “Non sarà da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; eppure la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. Solo la fede permette di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza” .

Mauro Borghesi, 19 giugno 2007

lunedì 26 novembre 2007

Voler cambiare la Chiesa


Ovvero
Il modo migliore per non cambiarla affatto


Quando ho lasciato la veste da sacerdote Dio ha raccolto i miei pezzi e mi ha fatto un dono grande: mi ha permesso di lavorare coi matti e con gli handicappati.
E’ stato il rapporto con loro che mi ha fatto capire meglio la mia fede ed il mio nuovo posto nella Chiesa.
Parto da questa mia esperienza personale, ma non intendo scrivere una testimonianza. Accenno ad alcuni fatti solo per spiegare cosa intendo per “essere cattolico” oggi.

Ricordo che da prete avevo uno spirito guerriero, un combattente che non temeva il nemico, un fiero denunciatore di ingiustizie, uno di quei preti giovani consacrato al proprio gruppetto di giovani, più che alle esigenze dell’intera parrocchia, uno che si spezza, ma non si piega, e infatti…
Questo mio carattere ovviamente mi ha seguito anche dopo aver lasciato la parrocchia. In quel periodo sulla Chiesa ne ho dette di tutti i colori, ma l’effetto è stato quello di non essere più ascoltato, né cercato, né menzionato, neppure nell’annuario diocesano. Questo isolamento mi inaspriva ancora di più in un circolo vizioso di reazioni di allontanamento reciproco dal quale non riuscivo a uscire. Ciò che è peggio è che anche nel mio nuovo lavoro continuavo a sentenziare e a dividere il mondo tra buoni e cattivi, insomma non me ne accorgevo, ma continuavo a pensare da prete.
Poi è successo qualcosa tra me loro, i matti. E lì ho toccato con mano il limite della mia impostazione. Più ero rigido e più si allontanavano, più correggevo e più persistevano nello sbaglio, più alzavo la voce e più ottenevo la stessa cosa dall’altra parte. Notare che questa cosa non me l’hanno fatta capire i libri di teologia o di pastorale, ma alcuni colleghi non praticanti e libri di pedagogia.
Allora mi son detto, non sarò sbagliato io? E non sto forse facendo con loro quello che certi superiori della Chiesa hanno fatto con me?
Ho studiato, ho guardato come facevano alcuni colleghi, mi sono confrontato e ho cominciato a mettermi nei loro panni. Una fatica boia. Te ne torni a casa che ti rovistano dentro, nel cervello e nel cuore e non escono in nessun modo. Li sogni di notte, ne parli con gli amici. Cominci ad accorgerti che stai male come loro. Una sensazione davvero strana.
Ma sono arrivati anche i primi risultati. Qualche sorriso. Qualche apertura. Qualche spiraglio d’intesa per poter dire “ehi, se hai bisogno ci sono”. Come d’incanto eccomi riconosciuta anche l’autorevolezza che non necessita più di autoritarismo, la stima dei colleghi, la sensazione di riuscire a cambiare qualcosa, sentirsi utile e non indispensabile.

Allora ho ripensato al mio rapporto con il vescovo, con i preti più “maturi”, al mio rigetto categorico verso alcuni documenti del Magistero. Ricordo le mie battaglie su questioni di principio, le mie ribellioni, la mia presunzione di essere nel giusto, di essere una vittima innocente, un perseguitato, un incompreso.
Ho pensato che, senza nulla togliere alle colpe degli altri, forse qualche colpa l’avevo avuta anche io. Quanta rabbia nelle mie proteste, quanta fretta di vedere cambiare tutto! Nello scontro frontale tra me ed un colosso come la Chiesa vecchio di duemila anni, ovvio che mi sono fatto male io. Ho dato una testata pazzesca e l’unica cosa che ho ottenuto è stata quella di andarmene con tanta rabbia in corpo e sentimenti di vendetta. Ma quando ho capito che la Chiesa è voluta da Cristo, - questa Chiesa, fatta da questi uomini, è proprio la stessa che Lui ha fondato, - allora ho deciso di riprovare. Non a fare il parroco, ma a sentirmi parte di lei. Se la carta di “mettermi nei tuoi panni” ha funzionato con i matti, perché non dovrebbe funzionare anche con i vescovi?
Non lo dico per sfottere, né è mia intenzione dare del matto ai Pastori. Penso di aver imparato che tutti, persone con problemi e non, credenti e non credenti, troviamo una maggiore intesa quando non ci sentiamo aggrediti dall’altro. Come i miei pazienti, come me, anche il Vaticano di fronte ad attacchi rabbiosi si sente appunto attaccato e reagisce di conseguenza: parata di scudi e minacce d’inferno.
Basta leggere i giornali di questi mesi. Da una parte chi parla degli “attentati della Chiesa” al Parlamento, al pensiero laico, alla scienza, alla libertà di coscienza… e dall’altra le stesse contro accuse in direzione opposta visti come “attentati alla Chiesa”: non c’è giorno in cui Avvenire o l’Osservatore Romano non denuncino subdoli attacchi, o disegni diabolici contro di lei. Questi meccanismi sono molto umani e abbastanza prevedibili, anche se difficili da dominare.

Starci
La sfida non è più, allora, cambiare la Chiesa. Essa resterà sempre peccatrice anche quando l’avremo cambiata. Mettiamo che arrivi un bel Concilio Vaticano III che conceda il celibato opzionale, il sacerdozio alle donne, i sacramenti agli omosessuali e alle coppie con un primo matrimonio alle spalle, ecc…Pensiamo forse che all’improvviso basti questo per non soffrire più a causa della Chiesa? No. Si aprirebbero nuove questioni, nuove sfide, nuovi motivi di incomprensione e di sofferenze.
La sfida non è quella di ottenere a tutti i costi dei cambiamenti, ma è starci dentro.
Vi è oggi un pensiero monolitico che esce dal Vaticano e che riscontriamo anche in molti fedeli. Un pensiero secondo il quale, di qualunque questione si stia parlando, “se la pensi diversamente dal papa non sei cattolico”, anzi sei uno che “attacca la Chiesa”. Noi che la pensiamo diversamente su tante questioni e che allo stesso tempo non vogliamo fondare un’altra Chiesa, abbiamo davanti la sfida di stare in questa Chiesa. Sentirci Chiesa, sì, anche con i papi tedeschi che pensano in tedesco, anche con i vescovi carrieristi che curano l’apparenza, anche con quei preti che si sono macchiati di colpe orribili verso minorenni.
Perché in fondo la vera rivoluzione non sta nel mettere insieme una comunità di simili, ma di diversi. La sfida è lasciar fare allo Spirito, non far passare le nostre idee, ma farle convivere con le altre. Io sogno una Chiesa non dove tutti la pensino come me, ma dove senza scandalo il mio pensiero possa stare accanto a quello di Ruini (ad esempio), ed essere preso in considerazione come il suo.
Quando noi delusi, feriti, ingannati… ce ne andiamo e sbattendo la porta diciamo “non ne voglio più sapere”, facciamo esattamente quello che loro desiderano e quello che prima di noi hanno fatto ortodossi, anglicani, protestanti creando divisione e confusione tra i cristiani. Loro nella fede cercano sicurezze indiscutibili, non fermento. E allora è restando che saremo utili. Senza rabbia, senza sensi di colpa, senza le loro certezze, guardando negli occhi le persone, senza fretta di avere risultati, senza la presunzione di essere sempre nel giusto. Questa presenza umile e fastidiosa è la nostra missione, il nostro servizio profetico.
Diceva B. Haring “Chi non soffre con la Chiesa, a causa della Chiesa e per la Chiesa, non potrà dire una parola valida”.