lunedì 10 dicembre 2007

Il Gesù di Ratzinger

Contesto
Il libro “Gesù di Nazaret” di Ratzinger (la prima parte), ampiamente preannunciato, viene pubblicato nell’aprile 2007. Si tratta, come lui stesso sottolinea, non di un documento magisteriale, ma del frutto “della mia ricerca personale del volto del Signore”. In ciò l’autore non solo rispolvera la sua vocazione di studioso e scrittore, ma si inserisce in quel nuovo solco di testi scritti da papi, che tentano di superare la distanza dalla gente comune dovuta al prestigio dal ruolo che rivestono, per mostrarsi meno formali e rigidi con testi “personali”, con linguaggi più narrativi e colloquiali. Avevamo già assistito con Giovanni Paolo II alla pubblicazione di testi quali ad esempio “Varcare la soglia della speranza”, “Alzatevi, andiamo!” o “Memoria e identità” pubblicato solo due mesi prima della morte. Il successo di questa nuova linea editoriale mostra come il Vaticano negli ultimi decenni abbia cominciato a rendersi conto dell’inefficacia dei suoi documenti ufficiali e si sia di conseguenza adoperato per battere nuove strade, come appunto quella di sfruttare la figura carismatica del papa, sempre più simbolo della Chiesa Cattolica, e figura di riferimento sicura e salda per tutto il mondo occidentale, anche non espressamente cristiano.
Recentemente poi, diversi film e libri più o meno seri, hanno riacceso l’interesse per il personaggio storico Gesù, ed in questo contesto il libro del papa suona certamente come un atto di riappropriazione dell’evento Gesù, e un tentativo di rimettere ordine dove altri hanno portato scompiglio.
Addentriamoci ora nel testo.

Il libro di Ratzinger
Il libro supera le 400 pagine, ma la sua lettura, soprattutto nella prima parte, mantiene la promessa di non essere troppo pesante, né lo scopo è quello di dire tutto quel che si può dire su Gesù. I caratteri di stampa sono piuttosto grandi e le pagine non troppo fitte, il chè facilita la lettura e ci dice ancora una volta che si tratta di un messaggio rivolto al vasto pubblico, non a specialisti della Bibbia. La copertina mette in grande risalto il nome da papa di Ratzinger, il chè è un po’ in contraddizione con il desiderio di essere letto non come papa, ma come semplice studioso che parla della sua ricerca personale. Certo, la scritta “Benedetto XVI” aiuta a vendere molto più di “Joseph Ratzinger”, ma ad un primo impatto la cosa mi ha lasciato piuttosto perplesso, tanto che leggendo di seguito autore e titolo – che occupano l’intera copertina – mi sono chiesto per un attimo se fosse un libro del papa su Gesù o non, viceversa, un libro di Gesù su Benedetto XVI.
Lo stile adottato dall’autore è omiletico, esortativo. Da subito si comprende che non è un libro di esegesi biblica, non di teologia, non di spiritualità, né di morale. E’ un po’ di tutto questo, nel tentativo di affrontare velocemente ed in modo semplice questioni piuttosto articolate e complesse. Riguardo ai contenuti sono rimasto un po’ deluso, soprattutto perché avendo già letto in passato qualcosa di Ratzinger so che può fare di meglio. Non ho avvertito in lui il desiderio di fare un passo in avanti nella ricerca della verità su Gesù, quanto piuttosto il bisogno di rimettere i puntini sulle i, mettere in chiaro ciò che non si può dubitare, o – in termini calcistici – rimettere la palla al centro. Sostanzialmente vengono dette tutte cose ben consolidate dalla tradizione ecclesiale. L’unica differenza tra Benedetto XVI ed il Ratzinger teologo, alla fine, mi pare più nei toni e nello stile che nei contenuti.
Tra le parti più interessanti vi ho trovato la premessa e l’introduzione. Nella prima viene affrontato e smontato il dubbio riguardante la validità storica dei vangeli, un argomento che per me è centrale e sul quale speravo si soffermasse un po’ di più. Nella seconda egli offre la sua chiave di lettura, di Gesù come “nuovo Mosè”. Gesù, dice l’autore, si può comprendere solo facendo propria l’attesa che lo ha preceduto, quindi la storia di Israele, quindi l’Antico Testamento. Se non si conosce Mosè, quello che ha rappresentato per il popolo e l’attesa di un nuovo Mosè che ha caratterizzato la storia dei secoli successivi all’ingresso nella terra promessa, non si comprende Gesù. Ebbene, chi è allora Mosè? Perché era così importante ai tempi di Gesù?
Mosè non fu semplicemente colui che guidò il paese fuori dall’Egitto. Non fu soprattutto il bambino prodigio salvato dalle acque, né il condottiero che riceve le Tavole della Legge o che ascolta le parole divine dal roveto ardente. Mosè, per Israele, fu in primo luogo l’amico di Dio. “Ha parlato con Dio come con un amico”. Questa consapevolezza ha fatto di lui quel grande patriarca che sempre il popolo ha ricordato. Una consapevolezza, però, accompagnata anche dal limite che Mosè stesso ha sperimentato nel suo rapporto con Dio, infatti neppure lui riuscì a vederLo in faccia, perché Dio, per non farlo morire con lo splendore della Sua Gloria, gli si è mostrato solo di spalle (Esodo 33,20-23). Nel solco di questa incompletezza si è alimentata l’attesa di un nuovo Mosè che non solo liberasse definitivamente Israele dalle nuove schiavitù, ma che potesse anche vedere Dio “faccia a faccia”, ed è in questo senso che i primi cristiani hanno accolto e capito Gesù, esattamente come colui che era stato promesso dai profeti ed era atteso come rivelazione definitiva del volto di Dio. Ecco allora che si capisce il senso del prologo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto, il Figlio … Lui lo ha rivelato”. (Gv 1,18)
I capitoli del libro suddividono per argomenti la vicenda di Gesù, passando da episodi come quello del battesimo e delle tentazioni nel deserto, a temi ricorrenti come quello del Regno di Dio, della preghiera, i discepoli, le parabole, ecc… Volutamente l’autore tralascia i vangeli dell’infanzia ed i racconti della passione, per i quali intende dedicare un secondo volume, più avanti.
Il parallelismo tra le parole dei vangeli e le vicende legate a Mosè ripercorre tutti i capitoli, evidenziando come giustamente non si possa partire dalle attese di oggi per andare a ritroso a comprendere il Gesù di allora, ma sia necessario partire dal suo ambiente, dall’attesa che lo ha visto crescere, agire, e morire, se non ci si vuole trovare di fronte ad un testo che altrimenti può apparire ridicolo, falso, inutile. In tutto quel che fa, Gesù è il “compimento” di ciò che con Mosè era stato solo preannunciato. Questo è il Gesù di Ratzinger.
Si tratta di una idea non nuova, ma certamente affascinante, che riporta Gesù nel contesto nel quale è cresciuto e vissuto e ci invita a leggere la Bibbia nel suo contesto e nel suo senso complessivo, più che alla lettera. E’ un Gesù molto divino quello di Ratzinger, certo, ma almeno è un vero israelita, ha una storia, una cultura che lo ha caratterizzato e modellato, e questo lo rende certamente anche umano e lo riporta là dove è il suo ambiente. Questo in fondo è “incarnarsi”, essere cioè una cosa ben precisa e non un’altra, essere qui e non lì, essere un individuo e non l’altro, mentre oggi mi pare che si tenda a proporre un modello unico, che non guarda troppo per il sottile le culture riceventi l’annuncio.
Ma è proprio sul Gesù storico che Ratzinger non mi è piaciuto. Sì, l’introduzione e tutto il seguito ha indicato come leggere il vangelo, come tenere sempre Mosè accanto ai vangeli, per comprenderli nello spirito con cui furono scritti, ma i vangeli restano di fatto gli unici testi che ci parlano di Gesù, e che piaccia o no, in molti oggi sostengono che non si tratta di testi “storici”, che possiamo prendere alla lettera, come narrazione dei fatti realmente accaduti. E su questo devo tornare alla premessa dell’autore. Credo in altre parole, ci sia ancora molto da fare tra le opposte posizioni di cattolici e protestanti, che sostengono la tesi del “è tutto vero” da una parte, contro il “è tutto inventato” dall’altra.
In questo dibattito il papa non offre spunti nuovi. Difende, da buon cattolico, il “Gesù storico” come imprescindibile e non separabile dal “Cristo della fede”. Insistenza, la sua, non corroborata da prove, anzi accompagnata da una continua lettura simbolica di tanti eventi come il battesimo di Giovanni Battista, le tentazioni nel deserto, le immagini di Giovanni… (tantissime volte il papa usa frasi le parole “simbolo” e “immagine”). Il papa dedica alla questione storica solo la premessa dove fondamentalmente sostiene a spada tratta la storicità dei fatti narrati dai vangeli, minimizzando ogni rischio di inquinamenti o mitizzazioni avvenute a posteriori.
Sarebbe stato molto interessante che il papa avesse approfondito “perché”, ad esempio, è così importante che i vangeli narrino fatti storicamente certi, e, in secondo luogo, cosa si intende per “storia”, per “storico”, certo, vero. Su questi aspetti invece si avverte un tabù, un timore ad andare oltre, perché non ci succeda di pensare come certi protestanti…
Io ho avuto il privilegio di leggere testi “spinti”, tra loro molto diversi e forse anche inconciliabili, come “Il vangelo di Marco” di Drewermann; “Gesù” e “Nuovo Testamento e mitologia” di Bultmann; “Sequela” di Bonhoeffer; “A Gesù attraverso i vangeli” di Latourelle o più recentemente “Gesù di Nazaret” di Da Spinetoli, “Inchiesta su Gesù” di Augias Pesce e il “Gesù” di Berger. Non sono d’accordo con tutto ciò che ho letto e questi stessi autori certamente non sarebbero d’accordo tra loro se potessi metterli attorno ad un tavolo, ma indiscutibilmente le loro opere hanno “osato”, le loro provocazioni hanno lasciato qualcosa di nuovo, mi hanno detto “la cosa si potrebbe guardare anche da questo punto di vista”, e di questo sono loro grato. Non perché io ami a priori tutto ciò che contraddice l’esegesi cattolica – alcuni autori citati sono cattolici -, ma perché mi permettevano, mentre li leggevo, di fare un piccolo passo in avanti. Avverto la loro libertà di pensiero, il non cercare di arrampicarsi sugli specchi per dover per forza dimostrare qualcosa. Di tutti ho avvertito anche i limiti, ma chi non ne ha? Non credo esista il libro perfetto su Gesù. Credo invece che ognuno possa comprenderne una luce, una parte, e nostro compito sia quello di mettere insieme queste parti buone, facendone tesoro.
Ratzinger espone i limiti della ricerca storica, pur non rigettandola, e sostiene che non si può arrivare da nessuna parte solo con essa, perché con i suoi poveri mezzi essa tende a dubitare di tutto, mentre dell’identità di Gesù, un credente non può minimamente dubitare. Allora, per comprendere Gesù, dice, si deve partire “dalla sua comunione con il Padre. Senza questa comunione non si può capire niente”. Solo così i vangeli hanno un senso. Ma questo, dico io, è come dire che sono testi di fede, che presuppongono la fede per essere compresi, e che quindi non vanno letti come documenti storici: e siamo da capo! Dire che per leggere i vangeli ci vuole fede è come dire: chi non ha fede non li legga. Chi si avvicina da storico non li legga. Più nello specifico il papa dice che il metodo storico – critico è limitato (cioè non attendibile) perché tratta le parole come parole del passato, mentre per fede sappiamo che la Parola è viva anche nel presente. Dice poi che tratta la parola come parola di uomini, mentre per fede sappiamo che è Parola di Dio. Dice che tratta i testi come parti separate, a sé stanti, mentre sempre per fede, noi ritentiamo la Bibbia come uno scritto unito, legato da un disegno unico divino. A me sembra come dire: sono giusti solo quei metodi scientifici che dimostrano valida la nostra fede, sono sbagliati tutti gli altri. Di questo passo sono più attendibili le visioni mistiche di Anna Caterina Emmerick, veggente vissuta nei primi del 1800, dalle quali Mel Gibson ha tratto ispirazione per il suo “storico” racconto della passione di Gesù, dei vangeli stessi, che con le loro quattro versioni mostrano troppe volte contraddizioni tra l’uno e l’altro racconto.
Invece per Ratzinger non vi è contraddizione in questo suo ragionamento, anzi conclude: “certo, l’ermeneutica cristologia che in Gesù Cristo vede la chiave di tutto e partendo da Lui apprende a capire la Bibbia come unità, presuppone una scelta di fede, e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questa scelta ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità storica”. Qui, ragazzi, io cedo il passo. Se qualcuno mi spiega dove sta la “ragione” di una lettura che presuppone la fede, io lo ringrazio.
Invece per Ratzinger il passaggio è di una logica disarmante. E da lì parte con il discorso della “ragionevolezza” della fede. Del dimostrare cioè che la fede cristiana è alla luce della ragione e anche degli studi scientifici più seri, la verità più probabile, più possibile, più logica.

Non si può non vedere come la Chiesa Cattolica – dietro al papa - stia perseguendo un progetto, dietro questo modo di fare. Un progetto “culturale” che non si ferma alla discussione sulla verità riguardo a Gesù di Nazaret, ma vuole dedurre da determinate verità eterne a Lei rivelate, un conseguente modo di vivere, di fare politica, economia, arte. Una Chiesa insomma che qui sulla terra vuole ritentare di costruire la “città di Dio”, già sognata e poi miseramente fallita, agli albori del medioevo.
Io non condivido questa frenesia cattolica di formare una cultura cattolica, di convincere sul piano razionale l’altro della nostra fede, come se tale fede fosse l’unico modo per essere onesti, corretti, responsabili; come se al di fuori della fede non ci fosse nulla di buono, come se la fede fosse la cosa più conveniente, logica, naturale che ogni essere vivente deve accettare per la propria realizzazione. Senza contare poi che mentre si associa con tanta insistenza la ragione alla fede, si continuano a tollerare al proprio interno fenomeni paranormali come quelli di Medjugorie o quelli legati a Padre Pio, che ben poco mi pare abbiano di razionale.
La ragione mi dice invece mi mostra che ci sono tante persone per bene tra coloro che non credono, come ci sono anche tanti farabutti ed esaltati tra i credenti: non è quindi il vivere in modo coerente e razionale che fa la differenza.
Non solo: il vangelo chiede di rinnegare sé stessi, perdere la propria vita, porgere l’altra guancia. Non ci vedo niente di naturale e di “logico” in tutto questo. E non a caso i più grandi santi della nostra storia sono stati degli incoscienti, dei pazzi, dei sognatori, che oggi osanniamo, ma che al loro tempo, si trovarono tutti “ragionevolmente” contro.
Perché allora questa insistenza sul binomio “fede e ragione”?
24/05/07

Nessun commento: