venerdì 7 dicembre 2007

Il Gesù storico

C'era una domanda che si aggirava tra i banchi di noi studenti di teologia, quando il professore di Sacra Scrittura spiegava significati simbolici e teologici della presenza dei Magi, del diavolo nel deserto, o di moltiplicazioni di pani e pesci, guarigioni fisiche e spirituali, fino alla resurrezione di cadaveri. La domanda che timidamente circolava, a bassa voce per non fare brutta figura, era: “ma è successo davvero?”
Una domanda che avremmo fatto bene a tirare fuori, perché era la stessa che aveva infiammato gli studi esegetici del XX secolo, e che gli insegnanti del seminario si curavano bene di non citare neppure, affinché non ci venisse in mente di andare ad approfondire quelle “strane idee” .

La lotta tra scienza e fede
Una questione, quella dell'attendibilità storica dei vangeli, che periodicamente sembra tornare in auge, anche se le idee migliori sembrano essere rimaste quelle della prima parte del '900, dopo di chè grandi passi in avanti non ne sono stati fatti. La “storia” sembra un terreno di confronto particolarmente delicato ed importante perché mentre gli uni, i pensatori scettici, ne fanno l'argomento principe per dire che riguardo Gesù non sappiamo niente di sicuro e quelle che ci vengono raccontate dai vangeli sono tutte favole, dall'altra la Chiesa cattolica fa proprio della concretezza storica di Gesù il cardine fondante sul quale non è possibile fare sconti, pena il rendere vana la propria fede. “E' tutto falso”, contro “E' tutto vero”: due posizioni inconciliabili, con le proprie ragioni e pure le proprie numerose rigidità ideologiche, da una parte e dall'altra. Due posizioni che apparentemente si confrontano, ma che non hanno alcuna intenzione di trovare un'intesa, un po' come quando in parlamento governo e opposizione dicono l'uno il contrario dell'altro in modo assoluto, duro e squalificante: ad entrambi non interessa trovare una intesa, ma convincere l'ascoltatore, a casa, a stare dalla propria parte.
Questo è un peccato, perché la scienza e la fede potrebbero darci luci diverse su una medesima realtà, senza entrare in competizione e senza invadere l'una il campo dell'altra. Qualche giorno fa mi è capitato di sentire alla radio un esorcista che metteva in guardia dal rivolgersi a psichiatri non credenti, solo un'ora più tardi in televisione uno scienziato parlava delle religioni come di realtà che inevitabilmente prima o poi portano gli uomini alla guerra. Finché scienza e fede continuano questo braccio di ferro e si offendono reciprocamente, perdono di vista la propria singolare missione, e non ci aiutano a crescere, ne laicamente, ne religiosamente.
La scienza risente ancora molto di uno spirito “scettico”, antireligioso, positivistico, che si porta dietro dalla sua nascita ; la fede, quella cattolica nel nostro caso, è a sua volta ancora troppo timorosa delle ingerenze della scienza, dei suoi studi, dei suoi approfondimenti storici, fisici, archeologici, su questioni che ritiene di sua esclusiva appartenenza, come ad esempio l'interpretazione dei vangeli.
Di recente il dibattito si è riacceso con le pubblicazioni “Inchiesta su Gesù” di Augias Pesce e “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger. Questi autori hanno riproposto lo stesso schema: da una parte la riduzione di tutto ad un idea di “storia” molto simile a cronaca, uno studio apparentemente disinteressato all'aspetto religioso, ma che qua e là si sente in diritto di giudicare e avanzare ipotesi anche sull'altra sponda, quella dell'origine di fatti mistici; dall'altra l'interpretazione cattolica, dove si dice che i vangeli narrano senza ombra di dubbio un fatto storico, punto e basta. E' storico, il fatto narrato, perché non può essere altrimenti, e lo storico di professione, senza fede, non può comprendere il vero significato dei vangeli.
Al di là delle discussioni tra specialisti, di fatto presso il vasto pubblico sono passate le due posizioni molto semplificate e assolutizzate che ho detto prima: “E' tutto falso”, da una parte, e “E' tutto vero” dall'altra. La prima affermazione trova una certa eco tra gli studiosi, e ha trovato qualche resistenza in più presso il vasto pubblico. La seconda, invece, quella “integralista”, mi preoccupa di più, perché è diffusa dentro quella stessa Chiesa alla quale appartengo: paradossalmente però più fra la gente comune che presso gli alti vertici.

Sacra Scrittura intoccabile?
La Chiesa, da un punto di vista ufficiale, ha fatto un bel passo in avanti prima e durante il Concilio Vaticano II, ma nonostante qualche sparuta raccomandazione lascia di fatto che tanti parroci e frati continuino a dire vere fesserie da ogni pulpito, leggendo e spiegando la vita di Gesù “alla lettera”.
Le conseguenze di questa lettura sono devastanti: se angeli, demoni, apparizioni e cose del genere furono possibili ai tempi di Gesù, perché non dovrebbero esserlo anche oggi? Ed ecco che “visto che si può” fioriscono visioni, stigmate, lacrime e allucinazioni religiose ovunque.
Invece i vangeli sono totalmente imbevuti di parola di uomini: in essi troviamo errori, ripetizioni, discorsi lasciati a metà, operazioni di “copia e incolla” non proprio riuscite bene, contraddizioni . E poi non conoscono il concetto di “storia” come lo concepiamo noi, sono influenzati da idee orientali, sono guidati dall'attesa del ritorno imminente del Signore risorto (vedi in particolare le lettere apostoliche di Paolo); o anche dalla disputa, oggi insignificante, se il vangelo dovesse essere annunciato solo ai giudei o anche ai pagani.
Bene, se di Parola di Dio si tratta bisogna chiedersi seriamente “in che senso”, perché tutti questi limiti sono molto umani.
Negli ultimi secoli la Sacra Scrittura, con la sua aurea di intoccabilità, ha risentito di un processo di autodifesa che la Chiesa ha assunto sempre più dalla nascita della scienza in avanti. La Chiesa, defraudata del suo primato onnisciente sul terreno della “verità” a partire più o meno dal processo a Galileo che per primo osò mettere in dubbio il fatto che la Bibbia fosse l'unico deposito di ogni forma di sapere, ha cominciato a rivendicare con maggior forza la propria “infallibilità”, sancita da documenti magisteriali e “dimostrata” dal disperato tentativo di papi e concili di non contraddirsi con chi li ha preceduti. E dopo aver sostenuto l'infallibilità della Chiesa nel Concilio di Trento e quella del papa, nel Vaticano I, ora pare del tutto naturale che tanti buoni parroci trattino anche la Sacra Scrittura come infallibile, mirabilmente preconfezionata e calata dall'alto, degna di essere presa alla lettera, nonostante autorevoli documenti del Magistero nell'ultimo secolo abbiano aperto (timidamente, a mio parere) le strade al metodo storico – critico, allo studio dei generi letterari, all'esegesi comparata dei sinottici, alle influenze ambientali e culturali sugli autori (vedi la Divino Afflante Spiritu, del 1943 e la Dei Verbum , del 1965 .

La storia taciuta
Se ancora parecchia strada può fare la Chiesa, aiutando il suo popolo a recepire i limiti ed il modo di intendere la Sacra Scrittura, altro percorso spetta al versante laico, che potrebbe a sua volta ritenere meno “intoccabile” il concetto di “storia”.
La storia come descrizione di fatti accaduti in modo preciso e documentato, è ben difficile da ricostruire, tanto per Giulio Cesare come per Gesù di Nazaret. Ciò non significa che i libri di storia siano pieni di falsità. Di certo quando si scrive la storia si fanno delle scelte. Inevitabilmente si scartano i materiali ritenuti meno importanti e si amplificano e interpretano quelli che rimangono. A volte però ciò che è ritenuto importante non è accompagnato da tanti documenti.
Quando i primi cristiani hanno capito che era bene cominciare a mettere per iscritto qualcosa su Gesù, erano già passati alcuni decenni. I vangeli sembrano essere stati scritti attorno agli anni 70 – 80, quello di Marco un po' prima, quello di Giovanni un po' dopo. Gesù era morto tra il 30 ed il 40, non era più lì fra loro da un pezzo, e di questa distanza certamente i vangeli ne risentono. Gli evangelisti hanno raccolto materiale sparso: preghiere, detti, ricordi di chi era ancora in vita e quello che ne è emerso è la testimonianza dello “spirito”, dell'entusiasmo di quella Chiesa nascente, più che un resoconto preciso di come sono andati i fatti.
Il fatto che “la storia” tralasci, non solo nei confronti di Gesù, una miriade di particolari per trattenere un senso tra i tanti che quei fatti potrebbero avere, è da tenere sempre presente. “Sono stati i teorici positivisti del XIX secolo a cosificare l'oggetto della storia / scienza riducendolo a dei fatti. Un fatto è la stessa cosa di un evento?” La domanda di Grelot è quanto mai opportuna: un evento può essere comprovato da pochi documenti, ma allo stesso tempo aver lasciato tracce in termini di opere d'arte, immagini, musiche, poesie, preghiere. Lo stesso autore, qualche pagina più avanti, commenta: “una mentalità acquisita fin dalla scuola elementare porta a classificare i racconti in due semplici categorie: quelli che sono storici e quelli che non lo sono. I primi per definizione sono veri; gli altri (miti, leggende, favole, ecc.) non lo sono” .
A pensarci bene spesso succede così quando si scrive la storia. La gran parte dei fatti storici vengono miseramente tralasciati perché in quel momento non li si ritiene importanti. Poi, quando più tardi li si rivaluta può essere troppo tardi: si cerca allora di ricostruire quello che si può, come si può, quando con il senno del poi, si pensa che ne valga la pena. Testi antichi come quelli dei vangeli allora vanno avvicinati gradualmente, senza affrettate conclusioni del tipo “E' tutto vero” o “' tutto falso”.
Andando a ritroso nel tempo, dalla scrittura del testo che abbiamo in mano all'evento che esso racconta, incontriamo almeno tre fasi.
1. Quella della redazione dei vangeli, che è l'ultima in ordine cronologico. Una fase dove il materiale a disposizione di chi scrive viene selezionato, vagliato, sintetizzato per un destinatario ben preciso e ben lontano da noi. Tra questi testi si fanno strada anche pezzi presi dalla liturgia, o vengono adattati elementi mitologici presi dall'ebraismo o da culture limitrofe .
2. Poi vi è un livello più antico di qualche decennio: quello della comunità primitiva, sorta subito dopo la Pasqua. Qui incontriamo una esigenza diversa, quella cioè di diversificare l'annuncio in diverse culture – ebraica, romana, greca – trasmettendo l'essenziale, cioè la morte e resurrezione del Messia, e non tutta la sua vicenda storica.
3. Infine il ricercatore storico, dopo aver vagliato questi due livelli, si interroga sull'evento vero e proprio: quello che Gesù ha realmente detto e fatto.
Anche uno schema così veloce, credo possa rendere consapevoli di come sia difficile avere una fotografia fedele di questo ultimo livello. Ciò non significa che questo livello non ci sia stato o sia frutto di invenzione.
Pensiamo anche solo alla nostra storia personale. Cosa ne sarà fra duecento anni? Qualcuno darà un qualche valore storico alle arrabbiature o alle soddisfazioni di una mia normalissima giornata di lavoro? Forse allora si considererà come storico il Protocollo di Kyoto, o la caduta del muro di Berlino, ma non certo l'emozione che io oggi alle 17 ho provato ascoltando una certa canzone in auto a tutto volume, mentre me ne tornavo a casa. Eppure è storia anche quella. Anzi, forse per me, è stata più importante quella canzone, in quel momento, che l'incontro tra Bush ed il papa che contemporaneamente si stava svolgendo in Vaticano. E forse, quando fra 200 anni sarò considerato un personaggio famoso (!?), qualcuno troverà più interessante quella mia emozione difficile da rintracciare, del povero, bistrattato e però ben documentato Protocollo di Kyoto.
Cosa voglio dire con questo? Mi pare importante definire che i vangeli testimoniano la presenza di un evento straordinario, sono racconti che riportano una esperienza interiore grandiosa. Un'esperienza non fatta da un solo uomo, ma da un gruppo, una setta, se vogliamo. Un gruppo che nell'immediato ha pensato solo a predicare, annunciare, testimoniare anche con la propria vita la fede in Gesù, e solo più tardi si è interrogato sull'opportunità di mettere per iscritto qualcosa.
San Paolo è un esempio eloquente in questo senso: quando scrive le sue lettere i vangeli non sono ancora stati scritti; in esse racconta ben poco della vita di Gesù, delle sue parabole, della sua nascita, dell'infanzia, dei suoi viaggi in Palestina fino al tradimento nell'orto degli Ulivi. Eppure annuncia il vangelo: lo fa meglio di tutti, lo fa con un entusiasmo ed una carica che gli permettono di fondare comunità nuove in tutta la Turchia e la Grecia fino ad arrivare molto probabilmente a Roma. San Paolo di Gesù racconta l'essenziale: morte e resurrezione, non sente il bisogno di sapere altro!
Possiamo allora parlare di “storia” davanti ai vangeli?
Di storicamente accertato abbiamo che gli evangelisti ed insieme a loro le prime comunità cristiane erano profondamente convinte della resurrezione e della divinità di Gesù. Di storicamente accertato sappiamo che dopo la morte di quell'uomo è nata una comunità viva, in veloce espansione, davvero convinta della resurrezione del suo fondatore.
Il fatto che gli evangelisti non siano storici di professione, fa di loro dei mentitori? Essi vogliono convincere i lettori (di allora) della divinità di Gesù e ci presentano dei racconti che hanno uno scopo catechetico, più che storico. Non si fanno di certo tanti problemi nel raccontare eventi straordinari: loro devono farlo, perché quello è l'unico modo per dire che Gesù è il Messia . Ciò non significa che siano testi privi di valore storico, come invece in troppi arrivano a sentenziare.

Il Gesù di Ratzinger
Il recente lavoro di Ratzinger offre lo spunto per fare una ulteriore riflessione sull'atteggiamento della Chiesa verso la questione della storicità dei vangeli.
E' un modo che risente ancora di un bisogno non umile di tenere tutto in mano, tutto sotto controllo, come ai tempi di Galileo. Lei deve dire agli uni qual'è il solco che la Tradizione ha sempre seguito e agli altri quali sono i criteri per fare una buona ricerca storica.
Anche il recente saggio di Ratzinger risente a mio parere di questa eccessiva preoccupazione, laddove si preoccupa di precisare che la posizione della Chiesa è quella che maggiormente rispetta la “ragione”. Certo, dice, si facciano pure tutti gli studi storici su Gesù e sulla storicità dei vangeli, ma si tengano ben presenti i limiti di tale ricerca, e si consideri che la posizione della Chiesa è sempre stata quella più razionale. Dopo aver elencato tutti i limiti della ricerca storica, quasi per ripararsi da eventuali risultati scomodi, gioca l'asso di briscola: “L'ermeneutica cristologica ..., presuppone una scelta di fede, e non può derivare dal puro metodo storico”. Quindi l'analisi storica và presa con le pinze, perché senza fede, dice il papa, non si possono comprendere appieno quei testi dettati dalla fede e scritti alla luce della Resurrezione. E poi aggiunge:

Ma questa scelta ha dalla sua la ragione – una ragione storica – e permette di vedere l’intima unità della Scrittura e di capire così in modo nuovo anche i singoli tratti di strada, senza togliere loro la propria originalità storica”.
Qui, a mio parere, il pontefice esagera e imbocca un vicolo cieco. Prima dice che per capire la storicità di Gesù non bastano le scienze storiche, ma ci vuole la fede; e abbiamo visto che già in questa pretesa vi è qualcosa di arrogante. Subito dopo sostiene che questa posizione di fede è la scelta più razionale e logica che lo studioso possa fare. Chi non “crede” in Gesù, in definitiva, non è neppure un vero scienziato, non usa la ragione, non sa studiare la storia. Poco più avanti, nella stessa premessa, Ratzinger si spinge oltre in un esempio un po' azzardato per mostrare come fede e ragione vadano di pari passo nello studio dei vangeli. Dice:
“Solo se era successo qualcosa di straordinario, se la figura e le parole di Gesù avevano superato radicalmente tutte le speranze e le aspettative dell'epoca, si spiega la sua crocifissione e si spiega la sua efficacia. (...) Come mai dei raggruppamenti sconosciuti poterono essere così creativi, convincere e in tal modo imporsi? Non è più logico, anche dal punto di vista storico, che la grandezza si collochi all'inizio, e che la figura di Gesù abbia fatto nella pratica saltare tutte le categorie disponibili e abbia potuto così essere compresa solo a partire dal mistero di Dio?”.
No, io credo che questo passaggio sia troppo azzardato. Un conto è insistere sul fatto che Gesù per i primi cristiani sia realmente risorto, e un conto è dire che la loro convinzione è una prova storica e razionale che il fatto sia realmente accaduto. Prove certe del “fatto” resurrezione non ne avremo mai, mentre invece possiamo parlare del fatto che “qualcosa” è successo, un “evento” è accaduto: e chi abbraccia la fede, spiegherà questo qualche cosa con la resurrezione.
Diversamente non vi sarà mai un vero dialogo con la scienza. Non si può chiedere agli storici di studiare i vangeli ricordandosi di farlo con fede. Non si può pretendere che i loro studi arrivino ad affermazioni di fede. E non lo si può pretendere, non perché il materiale che ci è pervenuto sia scarso, ma perché i due piani – fede e ragione – lavorano su binari paralleli: possono andare nella stessa direzione, ma non si incontrano mai. La Chiesa è depositaria di un messaggio di fede e non credo che le giovi insistere perché quella sua fede si faccia strada su basi razionali.
Se anche di Gesù avessimo filmati, registrazioni, testimonianze dirette di persone ancora in vita, se anche lo potessimo toccare con le nostre mani, come è capitato a tanti suoi contemporanei, non avremmo l'evidenza, la prova provata, la spiegazione razionale della sua origine divina. Tant'è vero che nonostante tutti quei miracoli che i vangeli raccontano, alla fine Gesù è abbandonato da tutti e muore quasi solo, sulla croce. Forse tutta questa evidenza che Egli fosse Dio, non c'era neanche allora.

La fede in Gesù Cristo
La fede per definizione fa a pugni con la ragione. Ma come faccio io – essere razionale - a credere ad una cosa simile, che non posso avvicinare in nessun modo, perché è successa duemila anni fa? Non credo che possiamo rendere più attraente la nostra fede dicendo che essa è razionale. No, essa è scandalosa, irrazionale, inaccettabile da un punto di vista scientifico e logico.
San Paolo non temeva di mettere in risalto questa “vergognosità” della fede e diceva con orgoglio: “Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, e stoltezza – altrochè ragione – per i pagani. (...) Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla, per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1 Cor. 1,23.27-29)
Come è possibile allora fare una scelta di fede nel duemila?
Io rispondo a questa domanda dicendo due cose:
la prima è che la Scrittura, oltre a non essere infallibile, non è tutto; non è l'unico modo che Dio ha per parlarci e incontrarci. Se guardo la mia storia e quella di tanti altri amici, osservo che nessuno ha ricevuto il dono della fede semplicemente leggendo il vangelo. I vangeli non sono questo testo magico che a volte si vuol far intendere. Obbiettivamente è un testo difficile, pieno di demoni, discussioni con scribi e farisei, racconti sulla fine del mondo, genealogie, raccolte di detti morali. Non credo che con il solo vangelo si arrivi molto in là. Esso per tutti è un supporto, uno strumento in più. Ma la scelta di “credere” è avvenuta per tutti nell'incontro con altri credenti, nel partecipare alla vita di una comunità. San Paolo dice che la potenza del vangelo si diffonde “di fede in fede” (Romani 1,17). Di fede in fede significa che io credo perché mi attira lo stile di vita di te che credi, voglio diventare anche io felice come te, voglio imparare dove attingi quella felicità, e per questo abbraccio la tua fede. La mia ragione mi dirà con tutte le sue forze che non è possibile risorgere, ma il mio desiderio interiore di trovare una verità che la ragione non mi sa illustrare, mi darà quella incoscienza che a mio parere è tipica del credente, di chi si butta nel vuoto, di chi se non altro prova a fidarsi di un Dio che “nessuno ha mai visto” come conferma l'evangelista Giovanni, ma alcuni dicono che “proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato” (Giovanni 1,18).
La seconda cosa che dico è che la nostra ragione è anch'essa limitata, ed arriva dove può. Per questo esiste la fede. Se la ragione umana fosse perfetta, come credono alcuni devoti della scienza, essa vedrebbe tutto, anche l'al di là, non vi sarebbe alcuno spazio per la fede, né per l'errore. E' giusto invece lasciare aperta la porta all'irrazionale, a ciò che non è comprensibile, senza per questo andar dietro a qualunque allucinato che parli con l'al di là. La ricerca di Dio non si è conclusa con la sua Rivelazione; essa l'ha solo resa molto più interessante. Una ragione “umile” e cosciente dei suoi limiti, non lotterà con la fede, ma arriverà su una terra di confine, le tenderà la mano e lì chiederà la sua collaborazione. La Chiesa stessa, a mio parere insegna questo quando in lei non prevale un atteggiamento difensivo e duro contro chiunque avanzi provocazioni. “Non sarà da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; eppure la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. Solo la fede permette di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza” .

Mauro Borghesi, 19 giugno 2007

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