domenica 8 giugno 2008

Quale dialogo tra Cristianesimo e Islam?

Qualcosa si muove... da Ratisbona alla lettera dei 138.

venerdì 6 giugno 2008

La Via Crucis di Paolo VI

gli ultimi anni del suo pontificato (1974 - 78).

mercoledì 4 giugno 2008

La ragione cristiana

Riflessioni sul discorso di Benedetto XVI all’Università di Ratisbona, del 12 settembre 2006

La lezione di Ratisbona nel settembre 2006 ha suscitato un certo scompiglio: agitazione nel mondo islamico, con reazioni anche violente contro chiese e cristiani, fino ad arrivare all’uccisione di una suora italiana in Somalia. In Italia grande polemica tra i sostenitori del papa e coloro che invece lo accusano di aver suscitato un gran vespaio con la citazione, nella sua lezione a Ratisbona, di un passo in cui viene messa in cattiva luce Maometto e si lascia intendere la diffusione dell’Islam come una conversione forzata di intere popolazioni.
Certo quella citazione non è stata molto felice, ma col tempo quel discorso ha di fatto posto le basi per un abbozzo di dialogo con i rappresentanti più significativi della religione islamica, per cui ho pensato valesse la pena andarlo a leggere per intero. Bene, la mia impressione è che dopo l’infelice citazione su Maometto il papa abbia fatto un discorso sulla ragionevolezza della fede cristiana, contestando coloro che oggi dividono troppo nettamente tra fede e ragione. Il riferimento va:
1. al mondo protestante (il papa, tedesco, in quell’occasione era in Germania) in seguito alla polemica, nata con Lutero e sviluppatasi fino alle soglie del cattolicesimo moderno, sul rapporto tra fede e ragione inteso secondo la filosofia greca.
2. al mondo scientifico, o meglio verso ciò che oggi in Occidente intendiamo per “ragione”.
Non intendo qui ripercorrere tutto l’intervento del papa, sul quale sono stati scritti fiumi di pagine, ma solo riprendere in sintesi quanto dice, per vederne poi alcune applicazioni attuali.
Io penso che l’argomento sia molto interessante, perché mette il dito su un nodo cruciale della nostra epoca, in cui tutti dicono che bisogna dialogare, ma nessuno lo sa fare; in cui si dice che ragionando si possono trovare soluzioni, ma poi i ragionamenti non trovano un punto di incontro; in cui le religioni vengono viste come un bene o un male assoluti e si passa dal volerle eliminare in nome della Ragione, al voler convertire il mondo intero in nome del proprio dio.
Fondamentalmente il papa teologo dice due cose: innanzi tutto smonta un concetto di ragione basato esclusivamente sul modello di conoscenza scientifica e poi ne propone uno che è quello che all’opposto trova la sua piena realizzazione nel procedere di pari passo con la fede cristiana.
Io trovo molto valido e controcorrente il primo argomento, mentre non posso approvare il secondo. Ed ora mi spiego meglio.

Fondamentalismo ateo
Siamo così abituati ad associare il fondamentalismo alla religione e la ragione alla scienza che dimentichiamo un pezzo di verità. Anche i detentori della dea ragione corrono il rischio delle religioni, cioè di porsi al di sopra. Non va mai sottovalutato l’istinto di onnipotenza dell’uomo. Che egli si faccia papa, o re, o capo di Stato o sapiente, egli resta un uomo che non possiede la verità per intero.
Fondamentalista può essere anche l’ateo, il filosofo, lo scienziato. Ed è contro questo tipo di ragione che Ratzinger grida ad ogni occasione e per questa parte io lo apprezzo molto perché è forse l’unica voce autorevole che mette in guardia contro i pericoli di una certa fiducia cieca nella ragione. Già perché quella ragione che intende spodestare la fede, poi chiede a sua volta fede alle masse nelle sue capacità.
Il metodo sperimentale scientifico infatti porta a discutere solo gli esperti di un settore (tutti gli altri si fidano delle loro conclusioni) e solo ciò che è in qualche maniera misurabile, sperimentabile, e riproducibile in laboratorio, togliendo importanza a tutto ciò che sfugge a tale verifica. Invece ciò che non è verificabile o dimostrabile, come le verità religiose, o le scelte affettive, non per questo sono falsi, o comunque non per questo sono poco importanti. La realtà va ben al di là di ciò che l’uomo riesce a spiegare, ed è per questo che ha senso continuare a cercare di capire sempre meglio il funzionamento della natura.
Tanto più che molte “verità” dimostrate con prove di laboratorio spesso finiscono di essere tali quando qualcuno non riesce a fornire una prova che va nella direzione opposta. Popper diceva infatti che lo scopo della scienza non è tanto quello di “verificare” le teorie scientifiche, quanto al contrario di “falsificarle”: una prova del fatto che i buchi neri non esistono affatto al centro delle galassie peserebbe come un macigno di fronte ai tanti indizi che fino ad ora ci hanno indotto a supporre il contrario.

Difesa dalla “dis-ellenizzazione”
La ragione dunque, per essere una “sana” ragione, deve conoscere e accettare i suoi limiti. E’ vero quel che dice Ratzinger, “chi vuole condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente”, ma anche questo non basta. Lo sa chi si è convertito in mezzo ai poveri, chi fa cose insensate per amore, chi “cambia” nell’incontro con i disabili, cioè con quella parte di umanità che meno ha potuto sviluppare la capacità di ragionamento “corretto”. Un mondo che comunque parla, pur usando lingue diverse, e converte, manda in crisi, purifica, molto più della logica e del sillogismo. Ma non solo il papa dà alla “ragione” un ruolo molto centrale: egli fa di più, qualora insiste sulla ragione “greca”.
Questa a suo parere è la migliore possibile e quindi non è da cambiare: egli parla del pensiero cristiano così come si è sviluppato nell’incontro tra la fede delle prime comunità ed la filosofia greca. “Il patrimonio greco” è “parte integrante della fede cristiana” e per questo egli intende difendere tale patrimonio dalle tre ondate di “dis-ellenizzazione” che hanno colpito in vari periodi e vario modo il pensiero cristiano degli inizi. Con questa parola si vuole esprimere il tentativo interno alla fede attuale di eliminare ogni influenza del mondo greco sui contenuti dei vangeli e anche sulle formulazioni dogmatiche dei primi secoli.
Il riferimento è innanzi tutto alla Riforma Protestante del XVI secolo, poi alla Teologia liberale di inizio Novecento ed infine al tentativo odierno di spogliare i testi biblici della cultura di cui sono imbevuti in nome di un multiculturalismo odierno in cui a suo parere ognuno porta a tradurre i vangeli un po’ come gli pare.
Io trovo questo discorso non accettabile. Per quanto il pensiero greco, in particolare con la sintesi che san Tommaso fa di Aristotele, abbiano arricchito e dato basi solide per un approfondimento “razionale” di una fede nata in un contesto ebraico, quindi estranea al procedimento filosofico, ciò non può significare che quello sia l’unica sintesi, la migliore possibile, e ogni altro tentativo venga vissuto come un attacco. Il Cristianesimo soffoca se si concentra solo sul “patrimonio greco”. Vi è un patrimonio Indiano, uno latino americano, uno africano, e sono tutti da valorizzare, non da piegare dentro quello greco antico.
Ha ragione Ratzinger quando dice che “il Nuovo Testamento è stato scritto in lingua greca e porta in sé stesso il contatto con lo spirito greco”, questo però significherà che il discernimento tra vangelo e cultura che lo ha ospitato per prima non sarà semplice, ma non che non si possa o non si debba fare.
Il mondo è cambiato un bel po’ dai tempi in cui il cristianesimo nascente sposava la cultura greca con le comunità paoline, e la compilazione dei vangeli e degli altri testi del Nuovo Testamento in greco. E ciò che a quel tempo poteva apparire come azzardato e coraggioso (l’apertura ai “pagani” comportò uno scontro di rilievo tra Pietro e Paolo, vedi Atti 15), oggi rischia di essere riduttivo, per la varietà di filosofie che si sono sviluppate, per la varietà di popoli sulla terra, per la diversità dei problemi che dobbiamo affrontare, per le conoscenze sulla natura che nel frattempo abbiamo acquisito.
La difesa ad oltranza del binomio ragione/fede così come è stato sintetizzato dall’incontro con il mondo greco e poi con l’opera di san Tommaso rischia di essere una violenza nei confronti di quelle culture e di quegli approcci al divino che attingono ad esperienze diverse e che pure potrebbero accettare il messaggio cristiano. Senza parlare del fatto che questa insistenza su nostra fede = ragionevolezza = Europa risulta piuttosto offensiva per musulmani ed ebrei con i quali si stava cucendo da 50 anni un difficile dialogo.

Sviluppi
E’ piuttosto indicativo il fatto che un gruppo di 38 leader musulmani abbia voluto rispondere ad un mese di distanza dal discorso di Benedetto XVI di Ratisbona, precisando come un certo modo di esporre il rapporto fede/ragione risulti offensivo per loro perché si fanno citazioni islamiche non autorevoli, perché si lascia intendere che l’Islam si è diffuso con l’uso della forza e con le conversioni forzate e senza la forza della ragione; perché si traduce “jihad” con “guerra santa” e non con il significato più profondo di “lotta” interiore; perché infine la Chiesa sta abbandonando la strada imboccata nel Concilio Vaticano II con le importanti parole della Nostra Aetate, improntate sul rispettoso riconoscimento ecumenico verso le altre religioni monoteiste, un riconoscimento non finalizzato alla loro conversione (vedi anche la disputa recente sulla preghiera “Et pro Iudaeis”), ma alla valorizzazione di ciò che ci accomuna.
Ad un anno di distanza poi il mondo islamico è tornato con una seconda lettera, questa volta firmata da 138 rappresentanti (scaricabile all’indirizzo http://www.acommonword.com) dove si incoraggia il pontefice e tutto il mondo cristiano, quindi anche protestante e ortodosso, ad un dialogo religioso ritenuto ormai imprescindibile perché “Insieme Musulmani e Cristiani formano ben oltre metà della popolazione mondiale. Senza pace e giustizia tra queste due comunità religiose non può esserci una
pace significativa nel mondo. Il futuro del mondo dipende dalla pace tra Musulmani e Cristiani”.
La lettera dei 138 musulmani ha avuto una spettacolare risposta collettiva in un messaggio pubblicato sul "New York Times" del 18 novembre 2007, firmato da 300 studiosi. I firmatari appartengono per la maggior parte a confessioni protestanti. Il messaggio approva e loda la lettera dei 138. Ne fa propri i contenuti, ossia l'indicazione dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" tra musulmani e cristiani, al centro sia del Corano che della Bibbia.
Bene, sembra che una storia iniziata tanto male non potesse prendere strada migliore di questa, ma che fa il Vaticano? Temporeggia. Christian W. Troll, un tedesco esperto dell’Islam molto stimato dal papa, fa notare che la lettera dei 138 musulmani, col suo insistere sui comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo come "parola comune" sia del Corano che della Bibbia, sembra voler portare il dialogo sul solo terreno dottrinale e teologico. E proprio questo sembra essere il problema. Il papa con i musulmani non vuole parlare di teologia, ma aspetta che prima recepisca i valori dell’Illuminismo (si, ha detto proprio così) Queste almeno sarebbero le basi per un dialogo con l’Islam esposte nel discorso natalizio alla curia romana il 22 dicembre 2006.
Per questo motivo il Vaticano, pur vedendo positivamente le intenzioni della lettera, non ha ancora elaborato una risposta formale ed il tutto rischia di scemare in un niente di fatto. Il chè sinceramente sarebbe alquanto triste: da una lezione a Ratisbona piuttosto azzardata era comunque nato, insieme a tante polemiche e reazioni violente, un nuovo bisogno di confrontarsi. Che poi questo confronto fosse partito dalla teologia o dalla morale, secondo me, poco importa, purchè ci fosse, perché il dialogo è un segno in sé per il mondo che guarda.
Vi è un altro motivo per cui è importante cogliere il segnale lanciato da questa lettera: il papa non fa altro che dire che la fede ha una base razionale, che il sano ragionamento è aperto e conduce alla fede, che fede e ragione hanno bisogno l’una dell’altra. Mi pare contraddittorio in seguito a queste affermazioni l’atteggiamento scettico verso i 138. Loro sono forse i primi a dire “ok, ci stiamo, ragioniamo su Dio” e noi che facciamo? Rispondiamo che nessun dialogo teologico è possibile con l’Islam? Che al massimo si può parlare di diritti umani e convivenza pacifica, ma non dell’al di là? Non avevamo appena detto il contrario? E questa improvvisa lode dei valori “veri” dell’Illuminismo, poi, che fino a ieri era la fonte di ogni male… Mah…
Speriamo non sia finita qui. Speriamo che queste lettere tra capi religiosi non finiscano in una scomunica vicendevole destinata poi immancabilmente a reazioni violente e atti di intolleranza.