venerdì 22 febbraio 2008

Il discorso alla Sapienza


Come spesso accade a questo papa, una cosa sono le cose che dice ed un’altra quelle che accadono in seguito a quello che dice. Così è successo in seguito al discorso di Ratisbona, strumentalizzato da frange estremiste; così per la vicenda legata alla copertura dei preti pedofili dove sembra che da cardinale abbia preso posizioni poco chiare, in contrapposizione alle scelte attuali; così è stato per il libro “Gesù di Nazaret” e così, infine per il discorso mancato all’Università di Roma La Sapienza previsto per il 17 gennaio scorso.
Una cosa è la risonanza del gesto di essere andato – o non andato - nel tal posto per dire certe cose, e ben altra è andare a vedere cosa realmente dice.
Personalmente il più delle volte disapprovo la puntuale strumentalizzazione di cui il Pontefice è vittima. E’ come se fosse in una posizione di stallo, non può dire più niente che subito viene estrapolata una frase dal contesto, letta come indicazione per votare in un modo o nell’altro, vista come una posizione contro i musulmani, contro gli ebrei, ecc…
Questo non è giusto. Questo, nel mondo globalizzato e della libera comunicazione, è il nuovo modo per zittire chi parla: fargli confusione attorno, fargli dire quello che non ha detto, buttarla in rissa.
Allo stesso tempo però vi è quello che il papa realmente dice e intende dire. Su questo, e non su tutto ciò che vi sta attorno, io generalmente mi esprimo, e spesso mi ritrovo non d’accordo.

Per andare all’allocuzione alla Sapienza, vorrei esprimere un certo apprezzamento con qualche riserva finale. Leggere questo discorso senza tenere conto di tutto quello che è successo in quei giorni è veramente difficile, ma ne vale la pena, perché tra le righe sembrano parecchie le aperture di cui questo papa solitamente non sembra un gran paladino.
Il papa inizia elogiando l’università che lo ha invitato per il suo lavoro fatto sia quando essa era sotto lo Stato Pontificio che dopo.
Sia nel tempo in cui, dopo la fondazione voluta dal Papa Bonifacio VIII, l’istituzione era alle dirette dipendenze dell’Autorità ecclesiastica, sia successivamente quando lo Studium Urbis si è sviluppato come istituzione dello Stato italiano, la vostra comunità accademica ha conservato un grande livello scientifico e culturale, che la colloca tra le più prestigiose università del mondo
E’ un riconoscimento importante, tanto più che il fatto di essere una università ormai laica non viene sottolineato come una sconfitta o un decadimento, ma come una cosa giusta e sacrosanta.
Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università
L’università nasce dal desiderio umano di conoscere la verità e la Chiesa non impone la sua verità, come non deve farlo lo Stato, altrimenti non vi sarebbe ricerca.
Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare…

Bene, questo basterebbe per farmi dire che questa volta Ratzinger mi è piaciuto. Ma andiamo avanti.
Il papa si chiede per cominciare chi è il papa e cosa è l’università. Per poi dirigersi verso la questione: cosa và a dire un papa in una università.
Il papa, dice Ratzinger, è diventato sempre di più anche una voce della ragione etica dell’umanità.
Il papa, si sa, è il capo della Chiesa, il pastore riconosciuto e accolto come tale dal mondo cattolico, ma per le vastità della Chiesa, ascoltato e tenuto in grande considerazione anche da chi cattolico non è. Il papa è diventato questa voce importante. Non è, ma è lo diventato per esigenze storiche: secondo me c’è una bella differenza.
Quando poi il papa risponde al “che cosa è l’università?” comincia a parlare della ricerca della verità. Qua ho cominciato a tremare, perché conoscendo la sua devozione per san Tommaso d’Aquino, temevo ce lo riproponesse come modello da seguire.
Invece il papa cita un non cristiano. Cita Socrate. E da lui parte per indicare la ricerca greca della verità come l’approccio giusto, quello che più è piaciuto ai cristiani dei primi secoli, per porsi di fronte alla realtà.
Le religioni politeiste vedevano dei dappertutto. La realtà era pervasa di divinità, e su questa base non si permettevano di indagare, di chiedersi, di approfondire, perché sarebbe stato un atto sacrilego, un andare a sbirciare nelle stanze degli dei. Il Dio cristiano invece è creatore. E’ cioè ben diverso dalle cose, in quanto ne è l’Artefice. Ciò desacralizza la realtà e la rende indagabile. In questo senso si può dire che la Chiesa si è subito trovata in sintonia con una filosofia che si chiedeva il perché delle cose senza tanti tabù, e si può dire pure che la Chiesa è in qualche modo madre della scienza.
La verità che cerca il cristiano però, dice il papa, non è solo una verità teorica, ma un’esperienza di ciò che è bene per l’uomo.
La verità non è mai soltanto teorica… Verità significa di più che sapere.
La verità si conosce anche con l’esperienza. Che voglia dire “l’esperienza religiosa”?
Traspare tra le parole del papa la voglia di dire “io conosco la verità e ve la dico”, ma non lo fa – per ora - e questo è apprezzabile.
Che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera?...
Questa è una domanda per la quale bisogna sempre di nuovo affaticarsi e che non è mai posta e risolta definitivamente. Così, a questo punto, neppure io posso offrire propriamente una risposta, ma piuttosto un invito a restare in cammino con questa domanda.

Difficile credere che colui che ha scritto queste righe è lo stesso che ha scritto la Dominus Iesus, però è così.
Una verità dunque che và sempre cercata, che cerca il bene dell’uomo e che non segue interessi, maggioranze, mode, partiti o religioni.
L’università nasce come giusto bisogno di autonomia della ragione rispetto alla fede. Nei primi secoli la Chiesa ha stretto un forte legame tra la sua Verità e quella filosofica, ma erano tempi, come dicevamo, pieni di divinità e questo è sembrato ai Padri il modo migliore per valorizzare l’una e l’altra. Quando invece nacquero le università i tempi erano ben diversi. Vi era ormai un solo Dio ed una sola religione. Erano maturi i tempi perché la ragione non fosse più asservita alla fede ma percorresse la sua strada in autonomia, a partire da quelle discipline che allora sembravano più autonome rispetto alla verità rivelata. La medicina, il diritto, la filosofia.
Bisognava sottolineare in modo nuovo la responsabilità propria della ragione, che non viene assorbita dalla fede.
In questo cammino di legittima autonomia della ragione dalla fede, che - il papa sottolinea-, nasce all’interno della Chiesa, si è giunti alla consapevolezza di quanto essa fosse necessaria.
Varie cose dette da teologi nel corso della storia o anche tradotte nella pratica dalle autorità ecclesiali, sono state dimostrate false dalla storia e oggi ci confondono.
Ciò non deve però oggi portare a giudizi negativi affrettati sulla Chiesa che comunque, al di là degli errori fatti ha contribuito non solo con le università al bene della società.
La storia dei santi, la storia dell’umanesimo cresciuto sulla basa della fede cristiana dimostra la verità di questa fede nel suo nucleo essenziale, rendendola con ciò anche un’istanza per la ragione pubblica.
Qui il papa a mio parere comincia a camminare sugli specchi e a giocare con le parole. Certo che il cattolicesimo ha avuto un influenza positiva nella cultura occidentale ed oggi viene sottolineato invece prevalentemente l’aspetto autoritario e despota che ha macchiato la storia cristiana. Però egli cade nel dire quello che a mio parere si era sforzato di non dire fino ad ora, e cioè che la sua Verità, quella derivante dalla fede, è dimostrata dalla storia come valida di fronte alla ragione.

In conclusione del discorso il papa passa ad un breve quadro dell’università moderna, ricordandole la fedeltà alle sue origini ed al suo scopo e mettendola in guardia da pericoli insidiosi che attaccano proprio l’idea di ricerca della verità, che mai può dirsi conclusa.
Il pericolo del mondo occidentale …è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo.

Peccato che di fronte a questa lucida analisi il papa non riesca ad andare oltre alle risposte che vengono dalla fede cristiana.
Se … la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola.
Ritengo che questo sia un punto da chiarire, in cui torna fuori il vecchio papa che dopo aver parlato dell’autonomia delle realtà terrene, torna a vedere nella propria fede l’unico modo per essere veramente razionali, laici, buoni.
Non chiedo al papa di non parlare di Gesù Cristo, e neppure di non annunziare la buona novella. In fondo è lì come papa, ed è stato invitato. Però si potrebbe trovare un modo di parlare della propria fede meno “obbligante”, meno razionale e appunto per questo più rispettoso della ragione. Per questo papa è sempre “logico” abbracciare la fede, è sempre la cosa più “ragionevole” da fare. Non so se si rende conto di quanto offenda tante persone logiche e ragionevoli che però non credono in Gesù.
Ciò che segue sono le parole conclusive, d’effetto, riportate in modo strumentale dai media, che però perdono la loro portata se lette di seguito alla citazione precedente.
Che cosa ha da fare o da dire il Papa nell’università? Sicuramente non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà…

A mio giudizio il bilancio è positivo. Difficile aspettarsi di meglio da un papa che sulla “verità” e la “ragione” ha detto ben di peggio, ad esempio nella Spe Salvi.
Mi pare che ne sia uscita una lettura storica che rispetta grandemente la ragione e conferma in diversi passaggi la sua autonomia rispetto alla fede. Un grande apprezzamento per l’uomo che cerca, che studia, che si fa domande e non si accontenta delle risposte degli altri.
Prendiamo questo e tralasciamo il già visto.
Mauro Borghesi

sabato 9 febbraio 2008

Così sta scritto…


Tra i colloqui più vivaci ed interessanti della mia vita, vi sono certamente quelli in cui l’argomento della discussione è stato proprio il vangelo. In credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, vi è un interesse trasversale, un forte bisogno di capire e essere capiti senza sentirsi giudicati. Appena si supera il tabù sul confronto sulla propria esperienza religiosa, emergono innumerevoli idee, versioni diverse di cosa Gesù intendeva dire o fare. Ci si vergogna un po’ a parlare di Gesù, ma una volta superata la paura si scopre che ognuno ha già elaborato dentro di sé le sue idee, ci ha lavorato non senza fatica ed è arrivato alle sue conclusioni. Questi confronti mi hanno insegnato che prima di parlare di un singolo brano bisogna chiarire cosa è il vangelo, come noi lo intendiamo, cosa ci aspettiamo da esso.
Mi hanno insegnato però anche un’altra cosa: le cose più belle emergono non dall’esegesi, non da eccessi di erudizione, né da teologie sociali o psicologiche o chissà cos’altro ancora. Il meglio viene fuori quando le persone confrontano il vangelo con la propria vita, che è sempre diversa: da soggetto a soggetto, e da un periodo all’altro. Qualcuno storcerà il naso pensando già una simile impostazione trova le proprie radici nell’Esistenzialismo , una corrente filosofica vista come il fumo negli occhi dalla teologia ufficiale.

nota: L’Esistenzialismo si afferma in Europa dopo la seconda guerra mondiale e si sviluppa fino ad oltre la seconda. “E’ un’epoca di crisi, della crisi di quell’ottimismo romantico che per tutto l’Ottocento ed il primo decennio del Novecento “garantiva”, in nome della Ragione, dell’Assoluto, dell’Idea o dell’Umanità, in senso della storia, fondava valori stabili e assicurava un progresso sicuro ed inarrestabile. L’Idealismo, il Positivismo ed il Marxismo, sono tutte filosofie ottimistiche che presumono di aver colto il principio della realtà e l’assoluto senso progressivo della storia. L’Esistenzialismo invece considera l’uomo come un essere finito, gettato nel mondo, continuamente lacerato in situazioni problematiche o assurde. Ed è proprio dell’uomo, dell’uomo nella sua singolarità che l’Esistenzialismo si interessa (…) L’esistenza umana non può e non deve venir dedotta a priori; essa piuttosto và scrupolosamente descritta così come essa si manifesta nelle svariate forme della effettiva esperienza umana”. G. Reale e D. Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol. 3, Editrice La Scuola.

In realtà vi attingo solo in parte, in quanto credo che il vangelo, in quanto realtà che narra fatti accaduti ad un singolo uomo vissuto duemila anni fa, debba insieme tenere conto di elementi soggettivi – la mia interpretazione, la mia scelta, la mia esistenza – ed elementi oggettivi – la verità storica nascosta e svelata dai vangeli.

Alcune domande per cominciare
Preso in mano il testo sacro mi sono fatto alcune domande, per onestà con me stesso e verso quel Dio che nella fede ritengo abbia qualcosa da dirmi attraverso quelle pagine. Domande di fondo, fatte ancor prima di leggere la prima riga, ancor prima di sfogliare il testo.
Cos’è questo libro che tengo in mano? O meglio: cosa leggo quando leggo il vangelo? Un testo “dettato” da Dio? Un testo storico? Un testo mitico? Un testo integro, cioè mai rimaneggiato dopo la sua prima stesura? E in che relazione sta la Chiesa con la Sacra Scrittura?
E’ importante farsi queste domande, perché che lo vogliamo o no siamo figli del nostro tempo e ci portiamo dentro una premesse e pregiudizi che operano indisturbati quanto meno li conosciamo. Una lettura ingenua e non informata può rivelarsi addirittura pericolosa .
nota: Dice giustamente Alberto Maggi nel titolo di un suo recente libro: ”Come leggere il vangelo e non perdere la fede” Cittadella Editrice. L’autore spiega il senso di una simile provocazione nell’introduzione “Quanti si avvicinano ai vangeli lamentano che spesso la lettura di questi testi non solo non suscita la fede, ma rischia di metterla in crisi; ciò non solo per l’evidente difficoltà di vivere un insegnamento che richiede maturità ed impegno, ma perché le formulazioni presenti in questi testi sono spesso una sfida al buon senso. (…) fin dalle prime righe si ha la sensazione di trovarsi alle prese con un libro di favole o di racconti mitologici. (…) Problemi che dipendono in parte dal fatto che il lettore si trova di fronte ad una traduzione di un testo trasmesso duemila anni fa in una lingua ormai defunta, e con immagini scaturite da una cultura orientale molto differente da quella occidentale.”Queste prime domande anziché risposte, me ne suscitano altre più intime e “soggettive”.
Perché io, oggi, leggo il vangelo? Cosa mi spinge? E’ forse dovere religioso? Devo trovare risposte ai miei problemi personali?
Si può essere in un momento di confusione e cercare chiarezze che rispondano ad hoc alla nostra situazione. Si può essere di fronte ad una sfida culturale, come ad esempio l’emancipazione delle donne, l’avvicinarsi di un conflitto, ma anche questioni etiche, come quella della clonazione, l’eutanasia, l’aborto, l’inseminazione artificiale, il divorzio, la pena di morte… e ogni volta è forte la tentazione di andare a cercare nei vangeli situazioni analoghe per vedere cosa avrebbe risposto Gesù.
Bene: non è questo il loro scopo, non è in questo senso che essi sono Parola di Dio, anzi è proprio così facendo che ai vangeli si può far dire tutto ed il contrario di tutto. Dal “perché” leggo i vangeli, dipende cosa ne verrà fuori. Per questo, bisogna lavorare molto sulle motivazioni che portano alla lettura fino ad arrivare a capire se nei vangeli cerchiamo davvero “il vangelo” o qualcos’altro.
Occorre sapere che non si tratta di libri di psicologia, magari “sacra”, e non contengono di conseguenza risposte psicologiche, né sociologiche, né filosofiche. Non sono un trattato di politica, né un compendio di morale, o una favola per bambini. Non sono neppure libri di storia così come la intendiamo noi oggi. Il vangelo “non è” un sacco di cose! E’ piuttosto l’invito a credere ad un fatto, avere fede in una persona realmente esistita, ma di cui sappiamo ben pochi particolari. E’ solo questo, e se vi cercheremo “solo” questo, vi troveremo anche molto altro .

Vangelo e vangeli
Vorrei cominciare ora sottolineando la differenza già accennata, tra vangelo e vangeli.
Per “vangelo” si intende Gesù stesso, la “buona novella” detta al mondo dal Padre Celeste, mentre con “vangeli” si intendono i quattro opuscoli narranti la vita di Gesù, che la tradizione cattolica ha considerato dagli inizi come testi ispirati e canonici.
Questa distinzione è fondamentale perché se da una parte noi abbiamo tra le mani i vangeli, non và dimenticato che l’obiettivo della nostra ricerca non sono loro, ma il vangelo che essi contengono . Essi, riprendendo una parabola evangelica, sono come un campo nel quale è nascosto un tesoro prezioso (Mt. 13,44). Non si tratta di andare alla scoperta dell’io di Gesù, dei suoi sentimenti, delle parole che ha veramente detto, delle sue gioie e dei suoi dolori come tanti film e libri hanno tentato di fare: non abbiamo gli strumenti per farlo e forse non li abbiamo proprio perché non è questo che dobbiamo fare. Si tratta invece di incontrare il nucleo del Cristianesimo, andare al di là della lettera e cogliere la nostra personale esperienza di incontro con il risorto .
“Vangelo” è detto al singolare, perché Uno è il personaggio narrato, anche se le prospettive dei “vangeli” sono quattro, e a nessuna di esse posso rinunciare.
Non sono quattro storie diverse, ma una stessa storia raccontata secondo quattro punti di vista. Non a caso la tradizione cattolica ce li ha tramandati come il vangelo “secondo” Matteo, “secondo” Marco, ecc… proprio per sottolineare già dal titolo che il vangelo in realtà è uno, ed è altrove, non può essere racchiuso in poche pagine di carta. Inevitabilmente chi ce ne parla comunica le cose viste secondo lui o al limite secondo la comunità che egli rappresenta.
Il Cristianesimo non è l’ennesima religione del Libro. Il libro, anzi i libri, sono un mezzo, certamente sacro, ma non così sacro da porlo al di sopra della sacralità dell’uomo, perché Dio, per così dire, non si è affatto incartato nella carta, ma si è incarnato nella nostra carne.
Lo stesso Nuovo Testamento, nelle lettere paoline, ci mette in guardia dall’idolatria del “libro” che uccide lo Spirito che vi sta dietro .

Un lavoro di comunità
I vangeli a noi appaiono come testi completi, con un inizio, una fine ed un proprio senso logico interno; situati all’inizio del Nuovo Testamento seguendo un ordine ben preciso, intitolati con il nome dello stesso evangelista. Ebbene, questi testi non nascono con la sequenza interna che vediamo oggi - prima furono scritti i “finali” sulla morte e resurrezione, e poi tutto il resto -, non sono inseriti nel Nuovo Testamento secondo un ordine cronologico o di importanza, e soprattutto ognuno di essi non è il frutto del lavoro di una singola persona.
L’evangelista è infatti il redattore finale di una serie di scritti, detti, tradizioni orali, ricordi pervenuti da sé e da altri. Immagino ogni evangelista davanti ad un tavolo pieno di pezzetti di papiro, con tante frasi, episodi che si sommano a quelli che tornano alla memoria dell’evangelista stesso. Un tavolo pieno di confusione, di spunti sparsi, senza un inizio ed una fine, e due occhi che guardano il tutto pensando: “ma con tutto questo cosa voglio dire?” Egli, il redattore, infatti, utilizza e assembla tutto questo materiale secondo un progetto, un’idea portante. Inoltre lega il suo nome all’opera, non tanto per dire che l’ha scritta per intero lui, ma per dare autorevolezza al testo, per dire “questo testo è la versione dei fatti approvata, rivista, vissuta, approvata da …Matteo, Marco, Luca, Giovanni”.
Spesso quindi vediamo utilizzare brani uguali o molto simili, in vangeli che però mirano a trasmettere contenuti teologici differenti. Diventa chiaro allora che non si può estrapolare una frase senza sapere perché l’evangelista l’ha inserita in quel punto.
Allo stesso tempo troviamo anche passi uguali, copiati da un vangelo all’altro, con qualche aggiunta . La cosa non deve scandalizzarci nè chiuderci nel dilemma: chi dei due dice la verità? Perché le prime comunità non erano schiave del Libro, e lo trasformavano e attualizzavano a seconda dei bisogni della propria comunità. Per questo abbiamo più di un racconto; per questo abbiamo contraddizioni tra un vangelo e l’altro. E per questo, soprattutto, oggi è importante come allora, non fossilizzarci su una frase, ma cogliere lo Spirito della Scrittura.
Non dobbiamo dimenticare neppure che quella che chiamiamo “Parola di Dio” porta in sé paradossalmente, tracce di errori e lacune molto umane. Basti pensare ai passaggi linguistici che stanno dietro quei racconti. Molti testi sono passati dall’originale forma ebraica o aramaica al greco, lingue tra loro molto diverse e non sempre capaci di tradurre l’una i concetti dell’altra. A sua volta i testi greci sono stati tradotti in latino da s. Girolamo, quando è tramontata la civiltà greca. Libri scritti a mano, ricopiati più volte nel corso dei primi secoli per supplire all’inevitabile usura alla quale sono andate incontro le copie originali.
Vi è poi il problema della distanza culturale, per cui non è sufficiente tradurre bene quei testi, ma anche capire il loro senso senza fermarsi al significato letterale, “traducendo” per così dire concetti per noi distanti ed insignificanti, in termini che rimandano alla nostra esperienza quotidiana .

nota: Il linguaggio ecclesiastico è avvertito come privo di senso nella misura in cui non contiene alcun riferimento percettibile alle esperienze reali vissute nel mondo. (…) La crisi dell’uso del linguaggio ecclesiastico e dei simboli della fede, nella liturgia, nella catechesi e nella teologia, pone poi in evidenza il fatto che, per i fedeli, questo linguaggio non è più sperimentato come qualcosa che rispecchi il loro rapporto significativo moderno con la realtà. Così, per esempio, parole come redenzione, giustificazione, risurrezione e riconciliazione hanno perduto il loro senso per molti, perché in questi concetti chiave i fedeli non vedono alcun riferimento alla propria esperienza. (…) Il difetto si trova, forse, più in colui che parla teologicamente, che non nell’ascoltatore che vive una determinata esperienza” E. Schillebeeckx, Intelligenza della fede, Edizioni Paoline, Alba 1976. pagine 38-39.

I vangeli portano con sé preoccupazioni e domande che non sono esattamente le nostre di oggi, ma risentono del clima culturale in cui furono elaborati.
Prendiamo ad esempio le perplessità che inducono nel lettore moderno i racconti di miracoli e guarigioni: la nostra domanda è inevitabilmente “ma è successo davvero?” Dobbiamo sapere che una tale preoccupazione non tocca minimamente gli autori ed i lettori del I secolo. Per loro non si discutono i miracoli di Gesù, piuttosto si chiedono contrariamente da quanto facciamo noi se tali poteri ultraterreni provengono da Dio o da Satana: una questione che per noi non esiste.
Un altro esempio ci è dato nel confronto tra il nostro rapporto con le istituzioni di potere, ed il rapporto che invece aveva un cittadino ai tempi di Gesù. Oggi si può essere di destra o di sinistra senza che ciò comporti conseguenze sulla nostra vita quotidiana. Io posso esprimere il mio disappunto per chi governa il paese, senza timore di ritorsioni. Al tempo di Gesù non era così. Parlare male dei capi era pericoloso, si rischiava la pelle, e seguire uno come Gesù che parlava male di scribi e farisei era altrettanto pericoloso. Questo ha portato a scrivere in un certo modo, con una certa attenzione al rapporto con l’Impero.
Un terzo esempio può esprimere invece la distanza filosofica tra noi ed i vangeli. Mi riferisco al concetto di “verità”, senza il quale non si possono comprendere i vangeli, in particolare quello di Giovanni. Non sempre si fa attenzione al fatto che la verità per noi è una cosa, per gli evangelisti un'altra. Per noi “vero” è qualcosa di logico, non contraddittorio; vera è una affermazione di cui possiamo controllare l'esattezza. Nei vangeli non è così. La verità non è un concetto, non un'idea, ma una forza che aiuta a vivere, a cavarsela. Il Dio di Israele è “vero” perchè più forte degli altri dèi. La verità è una forza che agisce, più che un dato teorico verificabile. Non ci si può appropriare della verità. Sapere questo è fondamentale per partire con il piede giusto.

Ispirazione
La chiesa ha camminato tanto nell’interpretazione dei suoi testi fondanti. Fino al 1700 circa i vangeli sono stati intesi alla lettera. Si è passati dall’idea di un Dio che “detta” le sue parole agli autori sacri, a quella del “suggerimento”. Quando è nato il metodo scientifico applicato ai testi storici la Chiesa inizialmente ha opposto resistenza, poi si è aperta all’esegesi scientifica con l’Enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII, arrivando addirittura a raccomandarla nei seminari. Infine il Concilio Vaticano II nella costituzione Dei Verbum riprendendo la svolta operata negli anni ‘40, ne ha rimarcato la centralità e la necessità dello studio con le migliori tecniche d’indagine moderne.
I vangeli mostrano e nascondono. Mostrano, perché quasi tutto ciò che sappiamo su Gesù è al loro interno. Nascondono, perché sono tante le cose che non dicono, quelle che sottovalutano o enfatizzano a seconda della loro specifica preoccupazione . Giovanni conclude il suo vangelo proprio con queste parole: “Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Giovanni 21,25).
Tutto ciò non ci scandalizza, perché fa parte di una logica coerente dello Spirito di Dio, il quale usa strumenti limitati, deteriorabili, non necessariamente i migliori, per comunicare Sé stesso all’umanità. E’ la logica dell’incarnazione, ed è la stessa logica che rende sensata l’appartenenza alla chiesa cattolica a distanza di 2000 anni dall’evento Gesù.
Per tutti questi motivi comprendiamo che per un cattolico i vangeli vanno necessariamente letti nella Chiesa (Dei Verbum 10): e questo non è un limite, ma una ricchezza se per “Chiesa” si intende, come fa il Concilio Vaticano II, l’intero popolo di Dio (Lumen Gentium 8). Nessuno può pretendere di imporre la propria lettura personale, il significato dei testi và cercato insieme. “Insieme” significa che neppure i pastori potranno fare a meno dell’interpretazione dei fedeli, e gli uni e gli altri non rinunceranno ai commenti della Tradizione ed alle indicazioni del Magistero, e anche questo lo faranno lasciando aperte le porte a nuove interpretazioni, a nuovi significati, senza mai cadere nella presunzione di essere giunti ad un punto culmine, definitivo.

Uno strano libro di storia
Come vanno letti i vangeli? Che “genere” di lettura ci presentano? E ancor prima: cosa è un genere letterario?
Per genere letterario intendiamo un modo di scrivere che risponde a certe regole e in virtù di tali regole accomuna testi diversi tra loro. Le poesie, ad esempio, rispondono a certe regole e vengono paragonate o accomunate ad altre poesie, non certo a romanzi o a testi storici. Allo stesso tempo non si può cercare in una poesia quello che essa non vuole dare, ad esempio date, nomi di luoghi, riferimenti precisi. Anche i diari personali, i testi delle canzoni, gli SMS, sono generi letterari, e rispondono a regole condivise, tacite, le quali permettono ai destinatari di comprendere il senso del messaggio senza bisogno di tante spiegazioni. Le spiegazioni diventano invece necessarie quando ci si avvicina ad un genere letterario come quello degli evangelisti, che oltre ad essere lontano di venti secoli da noi, è anche unico: non ha cioè simili né prima, né dopo la loro pubblicazione.
Col passare degli anni i testimoni oculari di Gesù scompaiono e l’annuncio ai lontani richiede una formulazione nuova, capace di cogliere le domande dei popoli greci e latini. Da qui nasce con Marco il primo vangelo, al quale poi seguono gli altri. Il vangelo si preoccupa di narrare tutta la vita di Gesù, perché i suoi destinatari non l’hanno conosciuto e vogliono sapere cosa ha fatto, come si è comportato in situazioni critiche, cosa ha detto.
I vangeli dunque, pur muovendosi dentro una cornice storica, risentono del bisogno di fare qualcosa che non sia semplicemente un racconto storico, ma degli annunci specifici, per un destinatario particolare, diverso per ognuno dei quatto evangelisti. Fermarsi alla lettera, al “vero o falso” di ogni singolo versetto sarebbe un lavoro infinito e sterile, perché la verità che essi dicono sta nel messaggio complessivo che ne esce. Nella misura in cui lo sapremo riconoscere impareremo pure a dare la giusta importanza alle singole affermazioni per intravedere all’orizzonte sempre più chiaramente il dipanarsi della Buona Novella.

nota: “Per ricavare l’intenzione degli agiografi, si deve tener conto, tra l’altro, anche dei generi letterari. La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi in vario modo storici, o profetici, o poetici, o con altri modi di dire. E’ necessario inoltre che l’interprete ricerchi il senso che l’agiografo intese di esprimere ed espresse in determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso.” Dei Verbum 12.
“Non è contrario alla verità di un racconto il fatto che gli evangelisti riportino le parole e le azioni del Signore in modo diverso e che esprimano le sue dichiarazioni non ad litteram, ma sempre conservando il loro significato, in modo vario” Commissione Biblica, Istruzione Sancta Mater Ecclesia, col.714


I vangeli, che ci piaccia o no, non sono stati scritti per noi. Essi passano per mille disavventure: vengono tramandati a pezzi, oralmente; vengono interpretati e scritti in modo diverso che si tratti di rivolgersi ai cristiani di Roma, o di Atene, o di Gerusalemme. Essendo scritti da esseri umani, è poi comprensibile come nei vangeli stessi, insieme al grano buono conviva un po’ di zizzania, là dove i detti tradizionali, le aspettative umane, le conoscenze di allora trovano spazio per esprimersi . Il racconto orale poi, difficilmente rispetta la verità storica intesa come cronaca degli avvenimenti: solitamente succede che i fatti più eclatanti vengono “trasformati”, mitizzati, come dice Bultmann, senza volerlo: ciò non significa che nelle nostre mani arrivino documenti falsificati, ma solo che nel cercare la verità dovremo tenere conto di tutto questo .
Ed è tenendo conto di tutto questo che ora mi appresto alla lettura di alcuni passi evangelici, alla disperata e affascinante ricerca del “vangelo”.

sabato 2 febbraio 2008

Il contributo di Karl Popper


Karl Popper (1902 – 1994), austriaco, è stato l’epistemologo e filosofo della scienza più importante del XX secolo ed il suo contributo ha rivoluzionato un rapporto estremamente conflittuale tra la scienza e la fede.
Scienza e fede si sono trovate a contendersi il campo del “vero” per secoli, ma questo scontro non è inevitabile, è solo la logica conseguenza di un rapporto impostato male, in modo simile ad un duello.
L’errore consiste nel dire da parte di entrambe: “io sono la depositaria del sapere”. E’ un errore perché nessuna delle due è depositaria del sapere. La fede è appunto depositaria di una fede, quindi di un sapere presunto, non dimostrato, la scienza – come vedremo – cerca il sapere perfetto senza trovarlo mai.
Popper si occupò a lungo del metodo scientifico ed arrivò a criticare il modo di intendere la scienza dei neo positivisti, i quali avevano appunto intendevano i loro studi come l’unica forma seria di conoscenza vera della realtà, in netta opposizione a tutte quelle verità fasulle imposte dalla tradizione e impossibili da investigare per la scienza.
In particolare i membri del “Circolo di Vienna”, nato proprio tra le due guerre mondiali per superare le pesantezze della metafisica e offrire una visione scientifica del mondo, sostennero che avevano senso solo le proposizioni che erano “verificabili”, mentre tutte le altre, di natura metafisica, religiosa o etica, erano ovviamente prive di senso. In controtendenza a questa impostazione che inevitabilmente doveva accentuare i conflitti con le autorità religiose, Popper (interessato per la verità più alla scienza che alla religione) propose il principio della falsificabilità, aprendo le porte – a mio parere – ad un fruttuoso e fecondo dialogo tra scienza e fede.

Il principio di falsificabilità
Praticamente, dice Popper, è pretestuoso pensare di possedere un principio di verificazione, per il solo fatto che abbiamo cominciato ad osservare la natura. La nostra osservazione infatti non è mai pura, mai perfetta, e necessita di continui controlli e miglioramenti.
Quello che noi esseri umani possiamo fare, sono ipotesi, alle quali seguiranno tentativi sperimentali di falsificazione. Che vuol dire? Vuol dire che io prima ipotizzo che, ad esempio, un peso che cade dal terrazzo segue delle leggi fisiche precise. Poi provo con molti sperimenti di vedere se tale ipotesi regge a tutti i tentativi di falsificarla. Può darsi che regga: questo non significa che sia assolutamente vera, ma che per ora è verosimile. Può darsi che un giorno qualcuno riesca a falsificarla con un esperimento nuovo, allora dovremo metterci giù e pensare ad una ipotesi migliore. L’assunto “tutti i cigni sono bianchi” è vero finchè qualcuno ne troverà uno nero. A quel punto non sarà più vero.
Per me si tratta di una nuova rivoluzione copernicana. Lo scienziato non stabilisce cosa è vero e cosa non lo è, cosa si può studiare e cosa fa parte del non conoscibile (quindi inutile). Ma si avvicina alla verità tentando di mettere alla prova le sue ipotesi, cercando continuamente l’errore.
Se una ipotesi non è falsificabile, dice Popper, non appartiene al ramo della scienza. La scienza infatti si occupa solo di quelle ipotesi che tramite esperienza ed esperimento si può tentare di falsificare. Questo non significa che le ipotesi non falsificabili siano false, né che siano prive di significato! Significa solo che su di esse la scienza non può dire niente.
Una scienza simile non esprime giudizi sulla religione ed è ben cosciente dei propri limiti.
Dice Popper: “Benché nella scienza noi facciamo del nostro meglio per trovare la verità, siamo consapevoli del fatto che non possiamo mai essere sicuri di averla trovata. Abbiamo imparato dal passato, da molte delusioni, che non possiamo mai aspettarci nulla di definitivo. E abbiamo imparato a non lasciarci scoraggiare se le nostre teorie scientifiche sono smentite; infatti noi possiamo, nella maggior parte dei casi, stabilire con grande sicurezza quale di due teorie qualsivoglia è la migliore”.

Fin qui è Karl Popper.
Credo che questa impostazione della scienza possa risolvere la contesa sulla proprietà della verità tra scienza e fede. La scienza, secondo Popper non è mai sicura di niente. Non avanza pretese, non giudica e non commenta “verità” sulle quali non sia possibile esercitare i propri strumenti di misura.
E la fede? La Chiesa di oggi come al solito sembra dare qualche piccolo miglioramento sul piano dei documenti, ma è ancora molto indietro nella coscienza dei singoli credenti. Si vedano ad esempio le pagine della Gaudium et Spes che trattano questo argomento, bellissime, e si constati quanto siano poco conosciute.
La Chiesa ovviamente parte da presupposti diversi dalla scienza. Il suo sapere è “rivelato”, è da credere, le sue prove ed evidenze non hanno nulla a che fare con quelle che si cercano nei laboratori di ricerca scientifica.
Deve allora tentare di interpretare in modo sempre più fedele e adatto ai propri tempi il proprio messaggio evangelico. Dire in modo nuovo, la creazione, l’evoluzione, i miracoli, ecc… Da questo punto di vista sono preoccupato quando sento dire “la Chiesa ha sempre insegnato così e su questo argomento non cambierà mai idea. La Chiesa di oggi è la stessa di ieri e di domani”. Sono preoccupato perché non è così, e il non voler cambiare nulla non è segno di fedeltà alle proprie origini, ma presunzione di avere la verità in tasca, e paura di perdere la fede ogni volta che si discute qualche argomento come la clonazone, l’uso di cellule staminali, l’eutanasia.

P.S. In rete ho trovato una bella intervista video a Popper sul potere televisivo che consiglio di vedere.