venerdì 11 aprile 2008

Un linguaggio che si rinnova

Gesù iniziò la sua missione "predicando il Vangelo di Dio e diceva: Il tempo è compiuto ed il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo!" (Marco 1, 14-15). Colpisce questo inizio brusco, deciso, quasi dettato dall'urgenza di un cataclisma che sta per scatenarsi sulla terra da un momento all'altro.
Colpiscono anche gli effetti di queste parole. Secondo l'evangelista funzionano, tanto che tutte le persone che Gesù incontra sono spinte spontaneamente a schierarsi: o con lui o contro di lui.
Certo un linguaggio così duro oggi è difficilmente riproponibile alla stessa maniera, ciononostante il vangelo, pur nella sua crudezza ha ancora qualcosa da insegnare a partire da quella Chiesa che nei suoi vertici appare a tanti logorroica, rigida, moralista, e nel suo popolo, all'opposto, superficiale e menefreghista. Un Gesù di poche parole, invece, quello narrato da Marco, ma efficace e capace di cogliere nel vivo le attese del suo popolo. Siamo chiamati anche noi, come i discepoli che lo hanno seguito per primi, a rendere ragione della speranza che è in noi (1 Pietro 3,15) e non è più possibile eclissare ogni discussione in un semplicistico "o ci credi o non ci credi". Credo sia superato il tempo in cui i cristiani potevano cavarsela giustificandosi con un facile "lo ha detto il papa", o "così insegna la Chiesa", come se loro fossero altro dalla Chiesa.
E' stupefacente come tante persone oggi non abbiano alcuna difficoltà a dirsi cattolici, a recitare per intero il Credo, a credere beatamente nell'Incarnazione e nella Resurrezione, senza restare minimamente turbati dal contenuto di tali affermazioni di fede. Parole che ai tempi degli apostoli erano definite "scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani" (1 Corinti 1,23) e che nei primi Concili, quelli di Nicea o di Costantinopoli, hanno dato vita a dibattiti animatissimi, protratti per diversi secoli, con scomuniche tra parti opposte e persino omicidi. Ciò significa solo una cosa: che le parole che custodiscono la nostra fede sono diventate vuote, hanno perso il loro significato, la loro spinta interiore, e svolgono il solo ruolo di addomesticare e sopire le menti.

Robinson
Non si tratta di una scoperta recente: in seguito alla svolta linguistica partita dal campo filosofico all'inizio del '900 alcuni teologi sono arrivati da tempo a mettere sul banco degli imputati il linguaggio usato dalla Chiesa. Robinson, un teologo anglicano di fine '800, si chiedeva quale fosse il valore effettivo delle nostre massime e delle nostre formule e per farsi comprendere meglio usava l'immagine del valore delle banconote. Fino quando è chiaro il rapporto tra carta moneta e la riserva aurea, - diceva - tutti l'accettano e le riconoscono valore; invece quando tale rapporto diventa misterioso allora nessuno la vuole più. (cfr. Joseph Armitage Robinson, Dio non è così, Vallecchi, Firenze 1965). Mi pare un esempio azzeccato che và a salvare lo sforzo interpretativo di chi in passato ha ideato certe formulazioni dogmatiche, e allo stesso tempo spiega come quelle stesse parole dette oggi, abbiano perso tutta o gran parte della loro forza originaria.

Kung
Un altro grande autore che ha polemizzato sul linguaggio dogmatico della Chiesa è stato il cattolico Kung. Egli sostiene che come qualsiasi altra definizione umana, anche quelle dogmatiche sono fallibili, perchè costituite da "proposizioni sempre inadeguate alla realtà, sempre equivoche, solo relativamente traducibili, sempre comprese in movimento, con tanta facilità ideologizzabili e quindi mai definitivamente chiare" (Hans Kung, Infallibile? Una domanda, Anteo, Bologna 1970). Per questa e altre affermazioni del genere, la Congregazione per la Fede nel 1973, con la dichiarazione Mysterium Ecclesiae ha riaffermato il valore perenne delle sue formule dogmatiche.
Mi sono convinto della distanza tra il mio linguaggio esistenziale e quello della mia Chiesa quando recentemente mi è capitato di leggere un passaggio di Paolo VI, il quale nel 1965 non vedeva alternative al modo di esprimersi della Chiesa: "Chi potrebbe tollerare che le formule dogmatiche usate dai Concili ecumenici per i misteri della santissima Trinità e dell'Incarnazione siano giudicate non più adatte agli uomini del nostro tempo? (...) Quelle formule esprimono concetti che non sono legati ad una certa forma di cultura (...) ma presentano ciò che la mente umana percepisce della realtà nell'universale e necessaria esperienza" (Mysterium Fidei 24).
Se così fosse perchè continuare a pubblicare documenti su documenti che ripropongono sempre lo stesso vangelo? In realtà la Chiesa si riunisce in sinodi, concili, conferenze e quant'altro perchè sa bene che ad ogni ora và detto il suo vangelo, anche se non sempre riesce a staccarsi dalle formule del passato.

Come faccio allora io oggi a "ridire" i misteri fondamentali della fede cristiana?
E' una domanda che sento risuonare troppo poco negli ambienti ecclesiali, mentre invece rappresenta una sfida inevitabile se non si vuole diventare "cembali che tintinnano" o "bronzi che risuonano...." come insegna l'apostolo Paolo (1 Corinti 13,1). Non so se capita anche a voi, ma spesso io provo un senso di imbarazzo ad ascoltare il papa anche se dice cose sacrosante. Le contesto se non mi trovano d'accordo e le lascio beatamente passare se invece sono - sempre secondo me - affermazioni accettabili. Perchè accade questo? Non è forse questa reazione il sintomo di una comunicazione malata, al di là dei suoi contenuti? Io penso di sì. C'è un cortocircuito da qualche parte. Troppo parlare, a lungo andare, diventa una forma di mutismo. Penso che come un malato fa una pausa nella sua attività lavorativa, se ne sta per un pò buono nel letto per recuperare le forze, così dovrebbe fare ora la comunicazione. A parte il serio problema che ci pone Grillo, secondo il quale "non ci dicono le cose importanti", e si parla di certe notizie da quattro soldi per sviare l'attenzione da quelle importanti, ve ne è un altro che è dovuto all'indigestione di notizie, all'iper comunicazione alla quale i mezzi moderni ci hanno portato. Troppe parole, ci rendono appunto come dice San Paolo “bronzi che risuonano e cembali che tintinnano”. Quella pratica antica del digiuno, che la Chiesa propone in quaresima, andrebbe proposta nei riguardi dell'informazione che sovente ci violenta, ci arriva addosso senza lasciarci il tempo di riflettere, obbligandoci a "consumarla" velocemente per attenderne altra ancora. Certo è bello, come cattolici, avere una propria televisione, la radio, il giornale, il sito internet, ma rischiamo di annacquare la nostra "buona novella" in un fiume di notizie che alla lunga diventano tutte uguali ed indifferenti. Ecco perchè provo disagio quando il papa ribadisce il suo no all'aborto o il suo sì alla famiglia. Non per quello che dice, ma perchè nell'attuale contesto quelle parole non dicono più nulla. Il nostro annuncio è troppo "verbale" e conseguentemente troppo "papacentrico", perchè la parola ha bisogno di un portavoce. Non a caso confondiamo sempre più quello che dice la Chiesa con quello che dice il papa e siamo interessati a ciò che il papa dice, più che a quello che la Chiesa fa. Di quello che poi il papa dice, prendiamo come centrale ciò che i media riprendono, che spesso non è affatto centrale.

Karol Woitjla
Eloquente a mio parere è la parabola di Karol Woitjla. Un papa che ha proclamato Cristo in tutti i modi, che lo ha annunciato a anche in modo piuttosto diretto e crudo, con urgenza, con insistenza… e che si è ritrovato ad essere “un grande uomo”, “un grande papa”, così considerato da quelle stesse persone che non lo hanno mai ascoltato e non hanno mai fatto quello che lui diceva di fare. Karol Woitjla sta diventando un essere sovrumano, diverso, miracoloso, un santino svuotato del messaggio che portava, che non era la pace, come ci vogliono far intendere, o la fine del comunismo, o dei totalitarismi… ma Cristo: credere in Lui, punto e basta.
Anche per la sua intransigenza e durezza per quel che riguarda le dispense ai sacerdoti, il celibato, i rapporti prematrimoniali, il divorzio… ci siamo dimenticati tutto: delle sue parole non è rimasto nulla, a parte quelle tre frasi in croce che lo rendono appunto un santino, un protettore celeste.
Il suo fascino, il suo carisma, ha soffocato le sue parole, e questo per certi aspetti può essere considerato un bene, ma per altri no.
In positivo quest’uomo è la dimostrazione più evidente che i fatti contano più delle parole, e quello che ha fatto è rimasto più di quello che ha detto. In negativo però vi è un uomo che con tutte le sue forze ha proclamato un messaggio fino alla fine, fino a non aver più voce, e quel messaggio è stato beatamente scartato, messo da parte come qualcosa che non era centrale.

Quello dello spreco delle parole, dell'abbondanza di informazioni che non sanno più diventare riflessione, dell'invadenza delle notizie di cronaca, mi pare un male della nostra società. A volte rischiamo di inserirci in questa immensa "Domenica in" per aggiungere anche noi la nostra voce, che poi finisce nel calderone delle opinioni che passano e non restano. Forse, di fronte a tutto questo parlare, non sarebbe male un pò di silenzio per concentrarci più sulle cose da fare. Non credo che in questo modo si manchi di annunciare la buona novella. Prima di tutto perchè le azioni annunciano come e più delle parole, secondo perché, come ho appena detto per il papa polacco, non è vero che con i mezzi di comunicazione di oggi si comunica più di ieri, perché quando tra molte parole devi sceglierne alcune e lasciarne altre il vero comunicatore diventa colui che monta il servizio e non colui che appare nel servizio. Terzo, perchè una persona credibile non avrà bisogno di dire molte cose, o di conoscere un linguaggio sofisticato, o erudito, o moderno, per essere convincente. Sempre san Paolo diceva ai cristiani di Tessalonica: "Il nostro vangelo non si è diffuso tra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione (...) la fama della vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, di modo che non abbiamo più bisogno di parlarne..." (1 Tess. 1,5.8).
Come certe squadre di calcio, nei momenti in cui le polemiche prevalgono sul gioco, decidono per un salutare "silenzio stampa", e talvolta a questa decisione seguono risultati brillanti (vedi mondiali 1982), così dovremmo fare noi Chiesa.
Fatti più che parole, e parole che abbiano un senso, là dove è necessario dirne.

Noi per primi dobbiamo riscoprire il senso delle nostre parole, quelle che usiamo in quanto cristiani e di cui troppo spesso non conosciamo il significato. Sarà utile chiederci a vicenda tra cristiani, "ma tu, cosa intendi dire quando dici - ad esempio - che Gesù ti ha salvato? Cosa significa che Gesù è morto per i nostri peccati? Cosa ti cambia che sia risorto o no? Che sia stato concepito da Maria senza l'intervento di un uomo o no?"
Cominciamo a chiedercelo, e cominciamo a toccare con mano quanto siano vuote le nostre dichiarazioni di fede. Poi cominciamo a selezionare quelle dove ce la caviamo meglio, se ce ne sono, e lavoriamo su quelle. Se davvero sono convinto che, ad esempio, "Gesù mi ama" è meglio che continui su quella strada, non rinnegando formule di fede che sento di meno, ma neppure sentendomi in obbligo di annunciare il catechismo intero allo stesso modo in ogni sua parte! Posso dire ad esempio, "la Chiesa dice che Gesù è risorto, ma non so bene cosa significhi, quello che so per esperienza personale invece è che ..." eccetera, eccetera.
Altra cosa da fare, nell'era in cui le parole non valgono più niente, sarebbe quella di cominciare a mettere in fila le nostre verità, o come dice più autorevolmente il Concilio Vaticano II, rendersi conto che "esiste un ordine o gerarchia nelle verità della dottrina cattolica" (Unitatis Redintegratio 11c). Certo le verità ultime non hanno gran presa sulla gente, però ciò non toglie che siano le questioni più importanti, quelle per cui la Chiesa è stata costituita dal suo fondatore. Una tentazione alla quale la nostra gerarchia cede è quella di adagiarsi su un Magistero ormai piuttosto prevedibile che si occupa di politica, di famiglia, di genetica, di 8 per 1000, in una parola di questioni "penultime", tralasciando la fatica di rendere appetibile, interessante, la questione sulle verità "ultime", relegata a documenti ineccepibili, curatamente collegati gli uni con gli altri, attenti a non contraddirsi a vicenda, attenti alla propria infallibilità. Cembali che tintinnano…

Mauro Borghesi
mauroborghesi@tele2.it

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