sabato 29 marzo 2008

Oremus et pro iudaeis


Il 4 febbraio è stata diffusa una nota dal Vaticano contenente nuove disposizioni per la liturgia del Venerdì Santo, a seguito del Motu Proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI, famoso per aver riesumato il messale di Pio V.
Ecco le due preghiere:

Formula del 1962
Preghiamo per gli ebrei.
Il Signore Dio nostro tolga il velo dai loro cuori perché riconoscano anch’essi Gesù Cristo, Signore nostro.
(Preghiamo. Inginocchiamoci. Alzatevi).
Dio onnipotente ed eterno, Tu che non ricusi agli ebrei la tua misericordia: esaudisci le preghiere che ti rivolgiamo per quel popolo accecato; affinché, riconoscendo la luce della tua verità, che è Cristo, siano liberati dalle loro tenebre.
Per lo stesso Signore. Amen.


Formula del 2008
Preghiamo per gli ebrei.
Il Signore Dio nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo, salvatore di tutti gli uomini.
(Preghiamo. Inginocchiamoci. Alzatevi).
Dio onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo.
Per Cristo nostro Signore. Amen.


Il vero confronto però non và fatto tra questi due testi, ma tra loro – che nella sostanza sono piuttosto simili – e quello del messale di Paolo VI, frutto della riforma liturgica conciliare, che dice:

Messale di Paolo VI
Preghiamo per gli ebrei:
il Signore Dio nostro che li scelse primi tra tutti gli uomini ad accogliere la sua Parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua Alleanza.
Dio onnipotente ed eterno, che hai fatto le tue promesse ad Abramo e alla sua discendenza, ascolta la preghiera della tua Chiesa, perché il popolo primogenito della tua Alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione. Amen


Chiunque può vedere che qui la differenza è sostanziale. Non una scelta diversa di alcuni termini, ma un’idea diversa di salvezza, una richiesta a Dio radicalmente diversa, dove si chiede in sostanza agli ebrei di avvicinarsi a Dio rimanendo sé stessi, chiedendo per loro a Dio cose che loro possono comprendere, accettare, apprezzare, come la fedeltà all’Alleanza, alla Parola, il progredire nell’amore, il rifarsi alle promesse fatte ad Abramo. E’ la preghiera di una Chiesa che cerca un avvicinamento là dove è possibile, dove il terreno è condiviso e comune. Una Chiesa che quando dialoga non lo fa per convincere a passare dalla propria parte, ma per mettere in luce ciò che unisce, dopo secoli di divisioni e scomuniche reciproche. E’ il rispetto, infine, di quelle linee guida indicate dal Concilio nel decreto Nostra aetate 4. In un primo momento ho pensato che Ratzinger fosse un nostalgico del passato, un amante dell’antico rito e che accogliendo le richieste dei tanti che lo rimpiangono, lo abbia recuperato lasciando ogni comunità libera di scegliere tra l’antico ed il nuovo. Ma poi è arrivata questa nota del 4 febbraio. Una nota che corregge quel rito che si è appena recuperato proprio per amore delle cose antiche. Allora qualcosa non mi quadra più. Se si rispolvera un mobile antico e lo si preferisce al nuovo, non lo si và di certo a modificare con rattoppi nuovi. Bisogna scegliere: se si insegue la strada del ritorno al passato, si ritorna al passato punto e basta, se invece si interpreta la Tradizione come un qualcosa di vivente, in continua rielaborazione, allora si continua a lavorare sull’ultimo passo fatto, che a sua volta poggia sui precedenti. Invece Ratzinger prima recupera il passato e poi lo corregge.
Da questo modo di fare deduco solo una cosa. Il problema, non sono gli ebrei, né la messa in latino. Il problema è il Concilio. La Chiesa che rimpiange latino e incenso se lo trascina dietro come un autogol, come un passo falso che però non si può rinnegare ed è ben difficile addomesticare. Diceva il cardinal Siri, che con tutte le sue forze durante il Concilio cercò di frenare il vento rinnovatore, che per recuperare ai danni fatti dal Concilio alla Chiesa sarebbero serviti circa 50 anni di duro lavoro. Infatti, direi che ci siamo.
L’azione di Benedetto XVI è quella di bypassare il Concilio di sana pianta. Sta riprendendo, o se vogliamo correggendo, una tradizione cattolica che negli anni 60 ha subito un trauma enorme, saltando di netto il trauma, cioè il Concilio Vaticano II e apporta miglioramenti a ciò che vi era prima di tale Concilio, senza prendere minimamente in considerazione quello che il Concilio ha fatto. Prima ha reso possibile il rito tridentino del Messale di Pio V e poi lo ritocca dove è proprio esageratamente fuori dal mondo (Fino al 1959 nella vecchia preghiera si pregava per i “perfidi giudei”, definizione scomparsa con Giovanni XXIII fino all’edizione del nuovo Messale).
A casa mia si ritocca ciò che si ritiene buono e si lascia cadere nel dimenticatoio ciò che si vuol dimenticare e che si ritiene irrimediabile. E chi sta cadendo nel dimenticatoio è il Messale di Paolo VI, o meglio, il Concilio Vaticano II, che nell’ultima enciclica Spe Salvi non viene citato neppure una volta.
A poco servono, a mio parere, le precisazioni volte a chiarire che "La Santa Sede assicura che la nuova formulazione dell''Oremus', … non ha inteso, nel modo più assoluto, manifestare un cambio nell'atteggiamento che la Chiesa Cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei” 4 APR. 2008 (VIS).
Non si può prima dare uno schiaffo e poi precisare “non volevo farti male”. In simili circostanze la precisazione suona come una beffa che brucia più dello schiaffo. E così è quando si negano i sacramenti, che sono i segni dell’amore di Dio, a tante persone in “situazioni irregolari”, e poi però si raccomanda di accoglierli e amarli come gli altri. I fatti vanno in una direzione, le parole in un’ altra. Così facendo si perde in credibilità.

P.S. Leggi la reazione di Giuseppe Laras, Presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana, in una intervista del 22 marzo scorso,

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