mercoledì 19 marzo 2008

La Pasqua


Dal Dio che passa oltre, al Dio che resta.

Noi cristiani celebriamo la Pasqua, e la Pasqua ci riporta all’essenza della nostra fede. La resurrezione, l’elemento principale della Pasqua cristiana, sta al fondamento della nostra fede: senza di essa tale fede sarebbe vana, come dice anche l’apostolo Paolo.
La nostra attenzione è giustamente presa dalla morte e dalla resurrezione in questi giorni, ma io vorrei riflettere su come questo evento ha cambiato non tanto la nostra idea attorno al personaggio Gesù, quanto piuttosto attorno all’idea di Dio.
Gli eventi di Pasqua infatti portano a compimento l’opera principale di Gesù, che è quella di distrugge la nostra vecchia idea di Dio che sempre si rigenera sulle sue ceneri, per metterci di fronte all’incredibile Dio che in Lui stesso si manifesta.

La Pasqua antica
Tutti sappiamo che la Pasqua non è stata inventata da Gesù. Si celebrava sin dai tempi di Mosè, quando Dio fece uscire il suo popolo dall’Egitto. La liberazione da quella condizione di schiavitù fu un evento talmente importante che Israele lo cominciò a ricordare nei suoi memoriali come una delle più potenti manifestazioni di Dio nei suoi confronti. In Egitto il Dio di Abramo si è ricordato del suo popolo e lo ha liberato distruggendo senza pietà le divinità e le potestà che tenevano il suo popolo in schiavitù. Questo memoriale venne chiamato pasqua perché ricordava il passaggio di Dio in mezzo al suo popolo. In particolare bisogna collegare questo termine al fatto che Dio “passò oltre” le case degli israeliti, contrassegnate dal sangue dell’agnello, e colpì i primogeniti delle altre case.
Sembra che Pasqua sia una parola che derivi dal mondo assiro, dal termine pasahu, placare. Di certo nella Bibbia diventa pesah e significa passare oltre, risparmiare.
Alcuni Padri della Chiesa cristianizzano un po’ forzatamente il termine antico collegando la parola pascha al termine greco pàschein, che significa soffrire. Ovvio è il richiamo così alla sofferenza di Gesù in croce. Origene invece rimase più fedele al significato antico di “passaggio”. Nella sua lettura diventa però altamente simbolico il passaggio attraverso il Mar Rosso, dalla schiavitù alla Terra Promessa, dunque dal peccato alla salvezza, attraverso la “passaggio” purificatore del battesimo (in mezzo alle acque).
Di certo comunque, l’idea che l’israelita porta con sé fino agli ultimi giorni di Gesù è quella antica. Fare Pasqua significa ricordare che l’ira di Dio non ci ha colpito, ci ha risparmiato. Ha visto il sangue del nostro sacrificio, il sangue dell’agnello sulle porte (Esodo 12) ed è andato “oltre”. Si celebra la Pasqua per fare memoria della grandezza di Dio, della sua forza, a favore del popolo ebraico. Una usanza che in qualche modo accettano anche i romani se è vero che “il governatore era solito, per la festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta” (Matteo 27,15). Cioè “passare oltre”, lasciar perdere, secondo il senso della festività ebraica.
Ma se questa Pasqua fu una benedizione per Mosè ed il suo popolo, portò altresì ad una immagine di Dio che fa vittime e chiede vittime per essere a Lui graditi, sacrifici di sangue e vittorie sugli altri popoli a suon di spada, ferro e fuoco. Solo così, sembra che il Dio ebraico possa “passare oltre” alle nostre case e colpire gli altri. Ne sono testimonianza le stesse scritture bibliche quando esaltano il Dio Terribile che ha salvato il popolo dall’inseguimento degli egiziani.
Voglio cantare in onore del Signore, perché ha mirabilmente trionfato,
ha gettato in mare cavallo e cavaliere…
Il Signore è prode in guerra, si chiama Signore.
La tua destra Signore, terribile per la potenza,
la tua destra Signore annienta il nemico.
(Esodo 15…)

Questa volontà di purezza, di essere scelti, diversi, agli occhi di Dio trova radicamento nelle vicende di Abramo e Mosè, ma anche nelle crudeli vicende che hanno imperversato per secoli su Israele. Quante volte Gerusalemme ed il suo Tempio sono stati conquistati, distrutti, il popolo deportato… Quanto forte nella diaspora e nella schiavitù è stato il richiamo a tornare nella propria terra (di cui l’ultima inutile conferma è l’attuale conflitto palestinese) e tutto questo si è tradotto inevitabilmente in un bisogno di distinguersi, di non mischiarsi con gli altri. L’ebraismo al contrario del cristianesimo è una religione esclusiva, non inclusiva: e lo è quanto più sulle sue strade vede passeggiare stranieri, perché il suo contatto con le popolazioni straniere è stato sempre negativo.

La Pasqua di Gesù
Gesù compie una conversione così radicale del volto di questo “Dio degli Eserciti” che scribi e farisei non avrebbero potuto sopportare neppure con tutte le loro più buone intenzioni. Gesù infatti và a minare quel dogma tacito secondo il quale bisognava essere degni, essere purificati, ed essere ebrei per entrare nel Tempio (= per essere graditi a Dio). Bisognava offrire l’agnello maschio, di un anno, senza difetto, se volevi che l’ira di Dio “passasse oltre” la tua casa.
Gesù invece viene dalla Galilea, terra di confine, mangia con i pubblicani e le prostitute, guarisce in giorno di sabato, tocca malati, rimprovera gli scribi di guardare più all’apparenza che al cuore. Quando entra nel Tempio denuncia il vergognoso mercato che i sacerdoti hanno costruito attorno all’offerta dei fedeli. E poi predica in modo strano, come tanti poveracci non avevano mai sentito predicare. Dice che la beatitudine spetta ai poveri, a chi ha fame, a chi è odiato, a chi piange.
Tutto questo, più ancora che i suoi miracoli o il suo successo popolare, lo rendono reo di morte, insopportabile presenza per il sinedrio.
Quando arrivano le sue ultime ore ribadisce con forza la peculiarità del suo annuncio. E lo fa lavando i piedi ai discepoli. Il Dio che veneriamo in ginocchio e di cui non possiamo vedere il volto… ci lava i piedi. Lava lui stesso i nostri piedi per renderci puri e degni di stare a tavola con lui. Pietro stesso fa una gran fatica a capire questo capovolgimento di ruoli: “Tu lavi i piedi a me? … Tu non mi laverai mai i piedi” (Giovanni 13). E Gesù non si scandalizza del suo scandalo, come non si scandalizzerà di lì a poco del suo tradimento: gli dice “ora non lo capisci, lo capirai dopo”.
Dio ora mette la sua tenda in mezzo a noi, come dice Giovanni nel prologo, e non “passa oltre” come invece hanno ben imparato a fare il sacerdote ed il levita nella parabola di Luca 10, che tirano dritto di fronte al malcapitato per non contaminarsi, ma alla vista del sangue sofferente si ferma, si prende cura, paga di persona, come fa il samaritano.
Quel Dio che incuteva timore, agiva di forza e chiedeva un segno di fede al popolo schiavo in Egitto, ora ci dà Lui stesso un segno della sua fedeltà a noi, fa lui a noi quello che credevamo di dover fare noi a lui. E’ lui stesso quell’offerta che non sappiamo offrirgli, infatti "foste liberati ... con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia" 1 Pt 1,19.

Eccomi qua. Entro in chiesa anche per questa Pasqua, entro portando a braccetto l’idea del vecchio Dio che mi dice “inginocchiati”, “cosa hai fatto per me? Cosa mi hai portato?”, “Guarda che se non ti comporti bene (il sangue dell’agnello sulla porta) ti colpisco!” e me ne esco risollevato, risorto, perché quel Dio là non esiste più. Lui si è cinto un grembiule, sembra incredibile, e mi ha lavato i piedi… lui a me! Non avevo sacrifici da offrirgli ma solo ferite, peccati, orgoglio, sfiducia. Ha preso questo mio sangue e l’ha curato, non mi ha chiesto perché, né dove o quando mi sono ridotto così e soprattutto non mi ha chiesto nulla in cambio. Come la donna in casa di Simone il lebbroso (Luca 7).
Sono entrato sperando quasi che questa Pasqua “passasse oltre” senza aumentare i miei sensi di colpa o di inadeguatezza, e me ne esco stupefatto, con la Pasqua che invece si è fermata ancora una volta a casa mia (vedi Zaccheo, Luca 19).

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