lunedì 23 maggio 2011

Ortoprassi


Cosa è "vero"?
Ho trovato stimolante rileggere e riproporre il concetto di verità di un teologo figlio del Concilio e oggi velocemente messo nel dimenticatoio. Parlo di Edward Schillebeekx e faccio riferimento particolarmente al suo testo "Intelligenza della fede".
Nel definire ciò che è essenziale per la fede cristiana egli antepone l'esperienza all'esposizione concettuale. Detta così sembra una cosa ovvia, in realtà si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana.
La chiesa gerarchica scommette tutto sull'annuncio inteso in termini concettuali: trasmissione verbale di un pacchetto di verità da credere. Poi per fortuna esiste anche una chiesa che fa, una chiesa che sperimenta, che tocca con mano la solidità delle proprie fondamenta. Ma non si può negare che il catechismo, così come è impostato nelle parrocchie, o la stessa liturgia domenicale, predica compresa, non sono altro che una giaculatoria di "verità" salvatrici espresse con un linguaggio millenario, fossilizzato, di cui spesso sfugge il nesso con la vita quotidiana.
"In sè e di per sè stessi i concetti non colgono la realtà" ma caso mai hanno la funzione di tentare un imperfetta tematizzazione dell'esperienza fatta. L'uomo farà sempre l'esperienza dell'odio e dell'amore, ma lo racconterà in ogni epoca in modo diverso. Per questo il concetto come tale non può esprimere una realtà immutabile ed universale in quanto è sempre mutevole e sensibile ad ogni particolare cultura.
La cosa diventa più chiara, anche nelle sue implicazioni, se si prova a mettere a fuoco il concetto di Dio. Per Schillebeekx Dio sfugge ai concetti. Ha senso tentare di concettualizzarlo solo dopo averne fatto una qualche esperienza. E le parole non saranno mai all'altezza della realtà. Tanto più risulta insensato tentare di dimostrarne l'esistenza per via razionale, con procedimenti logici. I concetti sono sempre carichi di umanità, portano con sè i limiti di una cultura e di un tempo storico e quando tentano di esprimere "Dio" inevitabilmente lo limitano, lo secolarizzano e lo storicizzano. A questo punto coloro che sono più attaccati alla tradizione prendono le distanze, perchè la pericolosa conseguenza di questo modo di ragionare è un inesorabile scivolamento verso un "sentire" Dio senza alcuna appartenenza dottrinale. Ovviamente non si vuole arrivare a questo, però di certo, in tempi in cui a una logica mondana del sentire a tutti i costi si contrappone un decalogo di verità e atti sacramentali che salvano in sè stessi, il problema si pone. Almeno, per me un problema c'è, e non mi pare che sia un problema solo mio.
Quello di Schillebeekx è un tentativo di dare un fondamento esistenziale alla verità, perchè questa non può essere raggiunta per via speculativa ma deve fare riferimento prima di tutto alla prassi e all'esperienza di vita. Avere una "fede retta" allora, non equivarrà prima di tutto all'assenso verso formulazioni dogmatiche, quanto eventualmente alla risonanza tra queste e quanto si sperimenta a livello interiore. Nel primo caso ci troveremmo di fronte ad una Sacra Scrittura ed un Magistero intoccabili, infallibili, calati dall'alto come le Tavole della Legge di Mosè; nel secondo caso invece al centro sta la persona, con la sua esperienza del divino, e quindi l'aspetto concettuale và continuamente riformulato, ricentrato, riaggiornato. Ecco che trova senso l'ermeneutica, la demitizzazione, l'esegesi. Concetti come la resurrezione, l'incarnazione, il peccato originale sono "ridotti" nelle briglie di una esposizione didattica "fissa" e vanno continuamente ripensati e ridetti, se non si vuole relegarli a qualche aula di archeologia linguistica. A loro volta le nostre riformulazioni, per quanto azzeccate, devono essere pronte a cedere il posto a quelle dei nostri figli, quando domani loro cercheranno di esprimere il cristianesimo nel loro modo.
Si tratta di una verità "ballerina", direbbero in Vaticano. Il pericolo, ho già detto, è quello di una perdita di solidità delle fondamenta cattoliche, per cui tutto va bene e tutti hanno ragione. In realtà non si tratta di rinnegare il passato o abbassare il livello di guardia teologico e morale. Una fede incomprensibile non è molto efficace, e il tentativo di tradurla va fatto, anche se comporta dei rischi. Altrimenti il rischio opposto e attuale sarà quello di ritrovarci dei cristiani che vanno in chiesa per tradizione, "a prendere una messa", e poi magari se li interroghi subito all'uscita ti dicono che la resurrezione di Gesù è una cosa che a loro non interessa, che magari sono affascinati piuttosto dalla reincarnazione e dalle apparizioni della Madonna.
Concludo questa parentesi filosofeggiante con una testimonianza, reperita sul sito www.vinonuovo.it che forse rende in modo più semplice ed immediato quanto ho tentato di dire sintetizzando il pensiero di Schillebeekx.

«Si è verissimo che parlo poco di Dio, in modo esplicito, ai miei ragazzi. È una scelta consapevole la mia. All'inizio della mia carriera professionale, 22 anni fa, quando provavo a dire che "Dio ti ama" avevo l'impressione che queste parole cadessero in un terreno mediamente abbastanza disponibile a poterlo credere. Ci poteva essere chi pensava che la Chiesa non traduceva bene il messaggio di Dio, che i preti non erano buoni testimoni di Dio, che Cristo magari non era Dio, ma il suo messaggio gli risuonava. Lentamente poi ho sentito che questa disponibilità a poter credere che "Dio ti ama" andava corrodendosi. Arrivavano a suola generazioni in cui la vita, già a 14 anni, aveva chiesto di fare i conti con situazioni nelle quali essere amati era sempre meno sicuro, meno chiaro, meno vero. Oggi dire ad un ragazzino di 15 anni, che è usato da anni come luogo di scontro dei due genitori separati, che "Dio ti ama" rischia davvero di essere percepito da lui come una sorta di bestemmia, perché molto della sua vita gli dice esattamente il contrario. E ci sono situazioni ben peggiori! Mi sembra sensato allora tentare, per prima cosa, di far sentire a questo ragazzino che io lo amo, senza dirglielo, ma vivendolo nel rapporto semplice e quotidiano con lui. Allora, il tempo in cui parliamo di "altro" serve per fargli sentire che nella sua vita l'amore è possibile. Più avanti potrò fargli balenare l'idea che Dio lo ama, senza pensare che lo senta come impossibile da credere»

Nessun commento: