domenica 29 maggio 2011

Chi è la più bella del reame?

"Se la chiesa cattolica si occupa troppo di se stessa e delle sue strutture, si ripiega e diviene un ostacolo al compimento della sua missione. In questo senso tutti noi abbiamo probabilmente fallito dopo il Concilio. E'spaventoso vedere a che punto ci occupiamo dei nostri problemi ecclesiali. Davanti alle sfide che ci pone il mondo contemporaneo (pensiamo alla costruzione di una nuova Europa, ai pericoli del conflitto fra nord e sud, ai problemi psichici della gente), i nostri problemi interni non sono che giochi da bambini ... Mi è sempre doloroso constatare che una chiesa siffatta non attira più i giovani, né le persone con responsabilità".
Karl Lehmann, Lettera pastorale per la quaresima del 1992

lunedì 23 maggio 2011

Ortoprassi


Cosa è "vero"?
Ho trovato stimolante rileggere e riproporre il concetto di verità di un teologo figlio del Concilio e oggi velocemente messo nel dimenticatoio. Parlo di Edward Schillebeekx e faccio riferimento particolarmente al suo testo "Intelligenza della fede".
Nel definire ciò che è essenziale per la fede cristiana egli antepone l'esperienza all'esposizione concettuale. Detta così sembra una cosa ovvia, in realtà si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana.
La chiesa gerarchica scommette tutto sull'annuncio inteso in termini concettuali: trasmissione verbale di un pacchetto di verità da credere. Poi per fortuna esiste anche una chiesa che fa, una chiesa che sperimenta, che tocca con mano la solidità delle proprie fondamenta. Ma non si può negare che il catechismo, così come è impostato nelle parrocchie, o la stessa liturgia domenicale, predica compresa, non sono altro che una giaculatoria di "verità" salvatrici espresse con un linguaggio millenario, fossilizzato, di cui spesso sfugge il nesso con la vita quotidiana.
"In sè e di per sè stessi i concetti non colgono la realtà" ma caso mai hanno la funzione di tentare un imperfetta tematizzazione dell'esperienza fatta. L'uomo farà sempre l'esperienza dell'odio e dell'amore, ma lo racconterà in ogni epoca in modo diverso. Per questo il concetto come tale non può esprimere una realtà immutabile ed universale in quanto è sempre mutevole e sensibile ad ogni particolare cultura.
La cosa diventa più chiara, anche nelle sue implicazioni, se si prova a mettere a fuoco il concetto di Dio. Per Schillebeekx Dio sfugge ai concetti. Ha senso tentare di concettualizzarlo solo dopo averne fatto una qualche esperienza. E le parole non saranno mai all'altezza della realtà. Tanto più risulta insensato tentare di dimostrarne l'esistenza per via razionale, con procedimenti logici. I concetti sono sempre carichi di umanità, portano con sè i limiti di una cultura e di un tempo storico e quando tentano di esprimere "Dio" inevitabilmente lo limitano, lo secolarizzano e lo storicizzano. A questo punto coloro che sono più attaccati alla tradizione prendono le distanze, perchè la pericolosa conseguenza di questo modo di ragionare è un inesorabile scivolamento verso un "sentire" Dio senza alcuna appartenenza dottrinale. Ovviamente non si vuole arrivare a questo, però di certo, in tempi in cui a una logica mondana del sentire a tutti i costi si contrappone un decalogo di verità e atti sacramentali che salvano in sè stessi, il problema si pone. Almeno, per me un problema c'è, e non mi pare che sia un problema solo mio.
Quello di Schillebeekx è un tentativo di dare un fondamento esistenziale alla verità, perchè questa non può essere raggiunta per via speculativa ma deve fare riferimento prima di tutto alla prassi e all'esperienza di vita. Avere una "fede retta" allora, non equivarrà prima di tutto all'assenso verso formulazioni dogmatiche, quanto eventualmente alla risonanza tra queste e quanto si sperimenta a livello interiore. Nel primo caso ci troveremmo di fronte ad una Sacra Scrittura ed un Magistero intoccabili, infallibili, calati dall'alto come le Tavole della Legge di Mosè; nel secondo caso invece al centro sta la persona, con la sua esperienza del divino, e quindi l'aspetto concettuale và continuamente riformulato, ricentrato, riaggiornato. Ecco che trova senso l'ermeneutica, la demitizzazione, l'esegesi. Concetti come la resurrezione, l'incarnazione, il peccato originale sono "ridotti" nelle briglie di una esposizione didattica "fissa" e vanno continuamente ripensati e ridetti, se non si vuole relegarli a qualche aula di archeologia linguistica. A loro volta le nostre riformulazioni, per quanto azzeccate, devono essere pronte a cedere il posto a quelle dei nostri figli, quando domani loro cercheranno di esprimere il cristianesimo nel loro modo.
Si tratta di una verità "ballerina", direbbero in Vaticano. Il pericolo, ho già detto, è quello di una perdita di solidità delle fondamenta cattoliche, per cui tutto va bene e tutti hanno ragione. In realtà non si tratta di rinnegare il passato o abbassare il livello di guardia teologico e morale. Una fede incomprensibile non è molto efficace, e il tentativo di tradurla va fatto, anche se comporta dei rischi. Altrimenti il rischio opposto e attuale sarà quello di ritrovarci dei cristiani che vanno in chiesa per tradizione, "a prendere una messa", e poi magari se li interroghi subito all'uscita ti dicono che la resurrezione di Gesù è una cosa che a loro non interessa, che magari sono affascinati piuttosto dalla reincarnazione e dalle apparizioni della Madonna.
Concludo questa parentesi filosofeggiante con una testimonianza, reperita sul sito www.vinonuovo.it che forse rende in modo più semplice ed immediato quanto ho tentato di dire sintetizzando il pensiero di Schillebeekx.

«Si è verissimo che parlo poco di Dio, in modo esplicito, ai miei ragazzi. È una scelta consapevole la mia. All'inizio della mia carriera professionale, 22 anni fa, quando provavo a dire che "Dio ti ama" avevo l'impressione che queste parole cadessero in un terreno mediamente abbastanza disponibile a poterlo credere. Ci poteva essere chi pensava che la Chiesa non traduceva bene il messaggio di Dio, che i preti non erano buoni testimoni di Dio, che Cristo magari non era Dio, ma il suo messaggio gli risuonava. Lentamente poi ho sentito che questa disponibilità a poter credere che "Dio ti ama" andava corrodendosi. Arrivavano a suola generazioni in cui la vita, già a 14 anni, aveva chiesto di fare i conti con situazioni nelle quali essere amati era sempre meno sicuro, meno chiaro, meno vero. Oggi dire ad un ragazzino di 15 anni, che è usato da anni come luogo di scontro dei due genitori separati, che "Dio ti ama" rischia davvero di essere percepito da lui come una sorta di bestemmia, perché molto della sua vita gli dice esattamente il contrario. E ci sono situazioni ben peggiori! Mi sembra sensato allora tentare, per prima cosa, di far sentire a questo ragazzino che io lo amo, senza dirglielo, ma vivendolo nel rapporto semplice e quotidiano con lui. Allora, il tempo in cui parliamo di "altro" serve per fargli sentire che nella sua vita l'amore è possibile. Più avanti potrò fargli balenare l'idea che Dio lo ama, senza pensare che lo senta come impossibile da credere»

domenica 1 maggio 2011

Grazie


Signore Dio, grazie.
Del bambino salvato dall'alluvione,
della donna trovata ancora viva tra le macerie del terremoto,
dell'intervento allo stomaco andato bene.
Dio fammi andare bene a scuola,
fammi incontrare quella ragazza,
fa che l'inter vinca, e donami un lavoro e la salute.

No, questa preghiera non mi piace.
C'è qualcosa che non batte pari.

Possibile che il tuo amore si debba manifestare
con la collera che trattieni?
E' come si dicessi: grazie per non avermi picchiato.
Per aver colpito altri con terremoti e tumori.
Pochi giorni fa, era venerdì santo,
durante la via crucis ho sentito una preghiera che ringraziava
per le sofferenze che ci mandi, perchè mettono a prova il nostro amore per Te.
Possibile?
Tu sei Dio, e NON MI DEVI picchiare,
perchè sei padre e sei amore.
Tu sei Dio, e la natura è la natura.
Se tu interferisci nelle sue leggi,
che senso ha salvarne uno e lasciarne morire migliaia?
E se non interferisci sulle leggi della natura,
che senso ha ringraziarti per essere stati risparmiati?

E' misterioso il modo in cui agisci. Perchè comunque Tu agisci.
Ma si può anche non vedere il tuo passaggio,
non credere alla tua presenza.
Più che uno che fa, sei uno che c'è.
Il mondo del fare lo lasci a noi
con tutte le sue conseguenze.
E anche la natura fa il suo percorso
con tutte le sue conseguenze,
senza curarsi che sulla terra stiano camminando
uomini o dinosauri,
bambini innocenti, o batteri primordiali.
Tu non intervieni.
Se lo facessi saresti un grande ingiusto,
per i troppi che non hai salvato.
Se lo facessi saresti un Dio egocentrico che si preoccupa solo di essere
decantato, lodato, invocato.
Non ti cureresti di farci maturare,
e di renderci il più possibile capaci, autonomi, giusti.
Come un genitore fa con un figlio.

Tu sei il Dio che c'è, non che fa.
L'unica cosa che hai fatto
è stata quella di abitare il nostro cuore,
per esserci con noi sempre e renderci creature divine.

Io ti voglio ringraziare
non come si ringrazia un portafortuna.
Ma per la meraviglia che ogni tanto ancora mi assale,
perchè questa sensazione che Tu sia qui,
indimostrabile, inafferrabile,
colora ciò che accade, trasforma in musica ogni rumore,
fa si che non mi sieda e ci sia sempre una speranza.
Se Tu sei qui ed il fare dipende da me,
bisogna che mi dia una mossa,
e la smetta di aspettare il tuo santo fulmine a ciel sereno.
Io ti ringrazio per tutto ciò che c'è,
per il sole, le stelle, l'acqua, il fuoco,... certo,
ma soprattutto per il tuo amore, il tuo perdono,
la tua presenza silenziosa, rispettosa, puntuale.
Inutile, forse, per atei e fondamentalisti,
ma preziosa ed indispensabile per me.
Grazie.